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Pastorale americana
 
Pastorale americana 2013-08-12 13:02:36 Todaoda
Voto medio 
 
2.3
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
2.0
Piacevolezza 
 
2.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    12 Agosto, 2013
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Genio e Finzione

PREMESSA:
Mi rendo conto (e per questo mi scuso) che la seguente recensione per dimensioni e ripetitività è demenzialmente lunga, ingombrante e non necessaria, tuttavia, criticando (anche aspramente) il lavoro di colui che considero tra i più grandi scrittori viventi, non mi è stato assolutamente possibile accorciarla in alcuna maniera poichè ovunque tentassi di operare un taglio, la cosequenzialità e la correttezza (o presunta tale) di quanto affermavo parevano perdere di logica o coerenza. Certo avrei potuto limitarmi a dire: sì è bello perchè... o no è brutto perchè, ma posto quanto sopra nove pagine di confuse, complesse, cervellotiche analisi e scuse mi sembrano quanto meno il minimo indispensabile per poter anche solo pensare di mettere in dubbio quella che è considerata una delle più importanti opere contemporanee. Per quei pochi quindi (e credono che questa volta saranno molto pochi) che siano interessati a questa recensione ne consiglio una lettura suddivisa in più giorni. Dato il suddetto consiglio, non mi riterrò responsabile per ogni danno cerebrale derivante da una lettura consecutiva. Al contrario prometto che mi impegnerò a leggere, con estrema attenzione e piacere ogni commento e critica (insulti e minacce compresi) che si dovesse e volesse muovere alle mie osservazioni o alla mia persona. :-)

PASTORALE AMERICANA:
La fine del sogno americano, i conflitti esterni ed interni alla nazione tra gli anni cinquanta e gli anni settanta che sconvolgono la società, che ridimensionano, trasformano, i valori del periodo d’oro, e la conseguente crisi d’identità della middle class, del singolo individuo, del privilegiato che vede sotto i proprio occhi disfarsi tutti gli ideali in cui credeva, la crisi dell’uomo medio, piccolo borghese, che a cavallo tra due epoche non sa in che piede tenere le scarpe, che a modo suo cerca di fare quello che in fin dei conti han sempre fatto i suoi simili: barcamenarsi tra i due estremi guardando più a se stesso, al proprio interesse, che alle rivoluzioni sociali. Ma la trasformazione è troppo profonda per tentare di soprassedere, per far finta che non esista, per chiudersi gli occhi, tapparsi le orecchie e continuare per la propria strada. E neppure la fuga in campagna, lontano dalla città, dal luogo dove è più viva la spinta rivoluzionaria, è sufficiente per sfuggirle, per sfuggire a quella realtà assurda, inspiegabile, estremista, eppure così equa, concreta, plausibile tanto quanto la precedente.
Gli americani sono i buoni, i vietnamiti sono i cattivi, e se fosse il contrario? Il capitalismo e bene, il comunismo è male, e se fosse il contrario? All’uomo della middle class non interessa, non è estremista, non è socialmente impegnato fino al punto da rendere proprie delle regole di vita che non sono altro che un insieme di valori utopici e astratti; all’uomo medio basta lavorare, avere i soldi, qualche aspirazione, una casa nuova, una nuova auto, la figlia che va nel miglior college possibile ecc. ecc. Questo basta, e allora cos’è quella trasformazione, quel movimento a cui non riesce opporsi, quell’ imponderabile bisogno di ribellione che dilaga per le strade, prima delle grandi città, New York, Washinghton e poi nelle cittadine e nei paesi, Newark, Weequahic, Old Rimrock.? Che cos’è quella, anzi questa, questa insaziabile sete di giustizia universale che pervade dapprima solo i movimenti giovanili, ma che poi si insedia in ogni classe (poiché l’America rappresentata dall’autore è una società fortemente suddivisa in classi, a seconda che si appartenga o meno a un credo politico, a seconda che si appartenga o meno a un credo religioso, a una categoria lavorativa, o semplicemente a seconda del conto in banca) dunque che cos’è questo movimento che si insidia nel tessuto sociale dell’America del dopo guerra e in questo si incarna fino a diventare esso stesso un tessuto sociale, fino a diventare un estremo di un ideologia, fino a diventare l’altro lato della medaglia? E se è così giusto ed equilibrato, (no alla guerra in Vietnam, no a tutte le guerre, parità di diritti per tutti gli uomini!) perché se è così perfetto, vero, ancora più sacro di quanto possa essere la religione, perché sfocia in gesti di pura violenza? Perché prima esecra gli estremismi ideologici (opposti ma simili) degli altri movimenti e poi per combatterli si macchia proprio di quelle colpe contro cui si ribellava? E perché viene appoggiato da così tanta gente? È forse impazzita l’America? Non può essere solo una moda passeggera, solo il bisogno di cambiare, di fare un passo avanti nel cammino dell’evoluzione umana lasciandosi alle spalle un conflitto mondiale. Non può esserlo perché manca di logica, se si è pacifisti come si può combattere contro i propri simili, contro i propri fratelli, compatrioti, ritenendoli responsabili, più responsabili, di un nuovo conflitto così lontano dalla civiltà occidentale, dalla placida routine della provincia americana? Non si vuole la guerra a migliaia di chilometri di distanza e allora la si porta in casa propria, nella tranquilla vita di un paese che, sì d’accordo, forse è più fossilizzato di altri, delle grandi città, nel proprio disarmante benessere, forse è più bigotto di altri, forse con la sua società ben nettamente divisa più di altri non lascia via di scampo al libero pensiero, alla libera espressione di sé (un paese dove la figlia dell’ex miss New Jersey non può e non deve avere la balbuzie, non può e non deve essere brutta, non può e non deve essere anticapitalista), si forse…, ma è pur sempre un luogo tranquillo, calmo, parodisticamente pacifico. E allora perché portare la guerra nel proprio paese, nel proprio luogo di nascita? E perché deve interessare l’individuo, il singolo, pacifico, uomo il cui unico male è aver sempre e soltanto desiderato il meglio per sé e per la sua famiglia? Di che colpe si può macchiare tale individuo, di quali peccati? Di mancanza di consapevolezza sociale? E allora è socialmente più consapevole una ragazzina fuori di testa che per rivendicare i diritti di gente lontana, piazza una bomba in uno spaccio della cittadina dove vive, uccidendo persone, distruggendo vite, famiglie (a cominciare dalla propria) e negando, col suo gesto, proprio quel principio di evoluzione – giustizia sociale e ribellione pacifica per il quale combatte?
“Combattere per la pace.” Forse è proprio questo il controsenso, il nonsenso di fondo, che scuote la gioventù ribelle dell’epoca, l’appartenere ad una società che non ti vuole se non sei perfetto, fuggire per crearne un'altra migliore e scoprire di non essere neppure perfetti per quella nuova società, di non appartenere più neppure a questa, di non appartenere più e basta. E allora cosa rimane, qual è la soluzione? Tornare nella prima società? Quella dura, autarchica, quella contro cui all’inizio si era combattuto, ritornare nel nido familiare, chiedere scusa e tutto come prima? No, se ci si è spinti troppo oltre, no se si è commesso, nell’emblema dell’assurdità ideologica, quell’atto contro il quale per anni si è combattuto, quell’atto che così evolutivamente giustificato nel corso della storia dell’uomo eppure, preso singolarmente, così abominevole da catapultare chi la commesso fuori da ogni possibile società che voglia dirsi evoluta, no se si è ucciso qualcuno. Se poi si ha ammazzato non una ma quattro persone…
E allora cosa rimane? Qual è il posto di un individuo simile? Per qualcuno la galera, per qualcun altro il manicomio, per il padre disperato la famiglia, ma per se stessi? Se sei stato tu ad aver compiuto il massacro, come puoi avere ancora un’identità, una definizione di te stesso, darti uno scopo, un luogo, un posto dove vivere se hai privato proprio di tutte queste cose (identità, scopi, luoghi e affetti) non una ma quattro persone? Semplice non è possibile, a meno di non esser pazzi, non è possibile a meno di rinunciare totalmente a qualunque cosa, autodefinirsi abominevoli, immeritevoli, ridursi alla fame, all’estremo dell’immonda natura che ci spinge a comportarci così. No, non è possibile tranne che rinunciando completamente a vivere.
Ma cosa ha a che vedere tutto questo con la società? Con un piccolo paesino di provincia? E’ questa società, con le sue ottuse, retrograde ideologie che hanno creato il mostro-bambina (poiché è della figlia del protagonista che si parla) o viceversa è lei che con indole innata ha partorito un abominio sotto le mentite spoglie di una nuova società? E’ lei la condanna totale di un mondo oppure è l’artefice di uno step evolutivo umano che prima o poi sarebbe stato inevitabile, la scintilla primordiale di una nuova civiltà, antitetica alla precedente, la cui commistione con questa, non può che generare un mondo più evoluto, più cosciente, più comprensivo, ma non necessariamente migliore? Martire o carnefice?
E come può il singolo individuo, l’uomo medio della classe media, colui che aveva sempre mirato al raggiungimento dei primi ideali, quelli che un tempo erano considerati inequivocabilmente il Bene con la B maiuscola, quelli con cui aveva vissuto per anni, con cui era stato educato, cresciuto, quelli per i quali aveva combattuto, aveva portato la guerra nel mondo, aveva sostenuto la guerra nel mondo, come può uniformarsi a questo nuovo mondo? E se questo individuo poi è il padre del mostro?
Come può, sopportare, adeguarsi, superare tutto ciò?
No, non è possibile come non è possibile sfuggirgli, come non è possibile sfuggire alla violenza implicita dell’atto, come non è possibile sfuggire dalla realtà, neppure se si è una personalità, neppure se si è un mito locale, l’asso del college o miss New Jersey, neppure circondandosi di cose, di ricchezze, di vita, neppure cambiando casa, cambiando donna, trovandosi un amante, neppure cambiando vita, no, la realtà è sempre in agguato dietro l’angolo pronta a risucchiarti nelle sue spirali, pronta a rinfacciarti cosa sei stato, cosa hai generato, di che colpe ti sei macchiato.
Ma che peccati ha commesso questo individuo? Lo Svedese, il protagonista, la sua famiglia, la società a cui appartiene? Come può accadere che qualcuno sia colpevole di aver vissuto perfettamente, incarnando quei valori a cui tutti tendono, che tutti stimano?
Che quelli non siano i veri valori, be di certo non sono neanche gli altri, quelli opposti, quelli della rivoluzione, guardate la Russia, e tutti i regimi comunisti, guardate a cosa hanno portato gli altri valori: a una bomba, ad un omicidio, all’accattonaggio, ad un suicidio per “inappetenza alla vita”, alla rovina. E allora cosa rimane, dell’uomo perfetto, nella società perfetta, della pastorale americana? Di quella comunione di individui che in barba alle differenze si ritrovano assieme per condividere qualcosa di più del semplice appartenere ad una realtà agiata, qualcosa di più della partitella a football tra amici la domenica? Cosa rimane se questa stessa società a cui hai dato tutto ti volta le spalle e ti concede la “pastorale” più come un illusione, più come un pretesto solo una volta all’anno, perché si deve, perché si fa, perché è così? Quale valore rimane?
Forse l’unico vero valore è non avere valori, forse è questa la via, fuggire, illudersi, fingere che le guerra in Vietnam non esista, fingere che i conflitti religiosi non esistano, fingere di non avere una figlia dinamitarda e fuggire, fuggire in campagna per persistere nel sogno, fuggire nella casa da sogno, rifugiarsi nella finzione, dove per una sparuta comunità sei ancora un mito, sei ancora “lo Svedese”, oppure fuggire dietro le mani di un chirurgo plastico, dietro le apparenze di una nuova faccia sorridente, non a caso Dawn, la moglie dello svedese, sembra riacquistare lucidità e sanità mentale solo quando torna a casa dopo il lifting, solo quando si toglie le bende e può di nuovo ammirare il volto di quando era miss New Jersey, può ancora ammirare la persona che era quando esistevano dei valori condivisibili o almeno comprensibili, forse è questo l’unico modo…
Ma tutte quelle, il redivivo Svedese e la rediviva miss New Jersey sono solo apparenze, e dietro a queste è in agguato il loro vero aspetto, dietro a queste è in agguato la realtà di una figlia terrorista, di una famiglia distrutta, di una società malata, e a nulla valgono i tentativi di rimettersi in carreggiata.
E allora dunque come si può sopravvivere a questo sconvolgimento sociale, umano, nazionale, ideologico e psicologico?
Forse non si può, forse, va affrontato di petto, forse bisogna calarsi completamente nel ruolo e adattarsi, viverlo in pieno o, forse, turarsi il naso e aspettare stoicamente che il tempo bilanci la sorte, ridimensioni l’ottica sballata, riequilibri la morale.
Qualunque metodo è valido, se sei l’uomo medio, ma se l’uomo medio nel suo piccolo è un punto di riferimento? Un esempio? Se incarna per tutti, tranne che per se stesso, uno dei due estremi, uno dei due ideali?
Il tempo sana tutto, sconfigge le cause all’origine, ma se sei parte dell’origine allora non avrai mai scampo. Vuoi la società, vuoi, la realtà, vuoi la figlia, vuoi la tetra ironia di un tumore dopo essere sopravvissuto a tutto quanto, ma non avrai mai scampo.
Eppure cosa c’è di sbagliato in credere in qualcosa? Cosa diavolo c’è di sbagliato nell’essere qualcuno? (Qualcuno con la q minuscola).
Questo, tutto questo, è Pastorale Americana, un libro dai contenuti profondi, un libro dall’importante risvolto sociale, che fa del singolo la vicenda di tutti e riassume la storia di una nazione in un sol uomo, una drammatica e pessimisticamente disarmante disamina della storia americana degli ultimi cinquant’anni; questo è il pluripremiato capolavoro di quello che è considerato uno dei migliori scrittori del nostro tempo, un libro elevato, importante, consapevolmente archetipico di un’umanità che sente la necessità di evolversi denunciando un ventennio di involuzione, un libro profondo, importante e… ahimè un libro tremendamente finto!
Che cos’è la scrittura? E’ osservazione, riflessione, interpretazione, ma soprattutto sincerità, così, parafrasando, diceva Hemingway: “Se cominciavo a scrivere in modo complicato (…) scoprivo di poter tagliare quella voluta o quel fronzolo e gettarlo via e cominciare con la prima frase semplice e sincera che avevo scritto” (cit. Fiesta Mobile). In pastorale c’è tanto di riflessione e troppo poco di osservazione, c’è tanto di interpretazione e troppa poca sincerità, realismo: un padre che perde la figlia, dove sono le reazioni, istintive, impulsive, illogiche, sanguigne, subitanee di ogni essere umano? Un marito che si scopre tradito dalla moglie dopo che lui aveva fatto tutto per lei, dov’è la rabbia, l’istante di follia che solo l’educazione, il senso di appartenenza ad un mondo civile riescono a mediare? Una famiglia distrutta, una società distrutta, un mondo che ti schernisce, dov’è la viva forza della disperazione, le urla, le lacrime, dove sono?
Vero tutto quanto si dice, condivisibile l’interpretazione della vicenda, ma è sufficiente?
E’ tutta psicologia, elaborazione, autocommiserazione, ma dove sono le reazioni spontanee, primitive, primigenie? Forse proprio quell’unica cosa quella costante che accomuna gli esseri umani tra loro? Dov’è l’istinto?
E ma quello è sottinteso, va intuito…
No, perché come ci viene presentata la vicenda è completamente assente, forse addirittura si vuole far pensare che la società di quel tempo inglobi, fagociti, ogni istinto. Ma l’amor proprio, l’orgoglio, la rabbia, la ribellione, la cieca forza della disperazione oltre un certo limite, superata una certa misura sorgono inesorabili, comunque, a prescindere dall’ambiente in cui si è immersi, poiché sono lo sfogo dell’istinto primario che è alla base della specie umana e di ogni altra: l’istinto di sopravvivenza. Dov’è tutto ciò?
Semplice non c’è, al suo posto ci sono le elucubrazioni, le sortite mentali di uno spettatore distaccato, la cronaca del possibile e l’omissione del certo, la ricerca della possibile interpretazione, della possibile causa, e l’alienazione dalla concreta realtà, dalla illogica, subitanea, ma sincera, risposta di un uomo ingiustamente condannato a soffrire.
Ma perché è una vicenda metaforica, un esempio campione che estrapolandolo dal contesto rappresenta la realtà dell’America di quegli anni…
No, poiché se l’obbiettivo era quello non è’ sufficiente una simile storia, troppo particolare, esclusiva, rappresentativa, (proprio perché è troppo emblematica non può essere presa come campione, occorre qualcosa di più normale), non è sufficiente una singola vicenda per denunciare un’intera epoca storica. E le elucubrazioni mentali del protagonista, giustificate a posteriori, sono ingiustificabili di fronte all’incalzare dei fatti.
Tante cose accaddero in quel periodo eppure se ne vive una sola in Pastorale, una esemplare per carità, una approfondita fino al micrometro, ma è così importante alla fine? E’così significativa da dimostrare, ribadire, rafforzare il legame con quanto accaduto in quegli anni, è così imprescindibile da assumere un valore storico-sociale indiscutibile, tanto da far vincere il Pulitzer all’autore?
Lo è se è sincera, onesta, ma di sincero nello Svedese c’è ben poco, di onesto nel soggetto non c’è quasi nulla. Sono sinceri i suoi pensieri, ma le sue azioni, il come avrebbe agito, il responso naturale ai fatti? Eddai un “bestione di uno e novanta” asso del football, del basket e di ogni altra cosa, forte come un toro, mr. Perfezione, manager di una fabbrica avviata, sta li a pensare come sarebbe meglio interpretare il fatto che sua figlia non si lava da mesi, non mangia da altrettanto tempo ed è una bombarola incallita? Dov’è la sincerità? Forse se sei uno scrittore – eremita completamente distaccato dalla vicenda puoi metterti a pensare alle concatenazioni psicologiche di una simile situazione, ma se sei coinvolto in prima persona, fai come gli suggerisce il fratello: cacchio, vai lì in due e con la forza la trascini via da quella pazzia auto inflitta e la ricoveri in manicomio! Ma quali pensieri! Quali “viaggi” (per non dir di peggio) mentali! Quali? L’onestà in certi casi coincide con la forza, con l’azione, con la sensazione, magari erronea, ma pur sempre istintiva non con l’intellettualismo.
Forse allora non era meglio togliere qualche anacoluto cerebrale ed aggiungere qualcosa in più ad una vicenda che, a osservare strettamente i fatti, è alquanto scarna?
I riferimenti storici sono sicuramente presenti, e importanti, ma la vicenda, estrapolata dal contesto è quanto mai assurda, banale, piatta, fine a se stessa. Tanto che ad un certo punto, stanchi di leggere di tutte le paturnie mentali dello Svedese, è impossibile non parteggiare per il fratello, il chirurgo stronzo, e con la sua proposta, parafraso: “va bene, hai una figlia terrorista e rimbambita? Tirale due ceffoni, trascinala a casa e falle assumere la responsabilità di quello che a fatto, oppure lasciala marcire nei suoi stessi escrementi, ma smettila di farti ammazzare per colpa sua, e per carità smettila di pensare!” E’ impossibile non parteggiare per lui dopo l’ininterrotto stream of conunciousness dello svedese/autore. D’accordo anche questo passaggio è collegato alla storia, poiché è la trasformazione della società, e le trasformazioni da questa imposte per adeguarvisi, che hanno reso la figlia una bombarola, e che hanno reso il padre e lo zio, rispettivamente un mollaccione e un rispettato chirurgo stronzo, ma il collegamento tra individuo e società è assai lasso, almeno fino alla fine, fino all’ultimo convivio della borghesia dove tutti i nodi dovrebbero venire al pettine ed in realtà non accade praticamente nulla.
Questo è il problema di Pastorale: il collegamento, parlando della singola vicenda, focalizzandosi solo su quella si rischia di estrapolarla troppo e di farle perdere quella dimensione storica, politica e sociale che in origine l’autore si era proposto di darle. Forse sarebbe stata utile qualche altra vicenda, qualche altro fatto in più…
Quest’opera per certi aspetti è l’antitesi, l’opposto, di Underworld di DeLillo: entrambi si propongono di spiegare, criticare, denunciare e meglio comprendere, così da accettare, la storia recente dell’America e dell’occidente, ma il primo parte dal singolo per illustrare il tutto, il secondo parte dal tutto per arrivare al singolo, e se il primo dopo un po’ fa perdere la pazienza, se non addirittura il filo del discorso, il secondo, pur non avendo un filo logico consequenziale (si veda per esempio la disposizione dei capitoli) riesce ad approfondire, sviluppare, indagare nella psicologia dell’uomo molto più che le quattrocentocinquanta pagine di autolesionistica introspezione del protagonista di Pastorale Americana.
Anche stilisticamente il “capolavoro” di Roth non regge il confronto con quello di DeLillo, se il primo fa della confusione, della non scorrevolezza un arma impropria, il secondo (non da meno a livello di aggrovigliamento cerebrale), riesce a catalizzare l’attenzione su ogni singolo dettaglio che permea la vicenda, le vicende, e in tal modo a focalizzare l’attenzione sulla storia stessa.
E se nel secondo il realismo in un processo di catarsi assume la connotazione di iper – realismo, valorizzando la percezione stessa della realtà, in Pastorale semplicemente il realismo latita, sconfitto dall’assurdo e pedante immobilismo del protagonista, dalla inverosimiglianza del suo comportamento alla luce di quanto gli è accaduto e di quanto gli accade.
Ma non limitiamoci a questo, tiriamo ancora una volta in ballo Underworld di DeLillo: in Underworld c’è il ragionamento, il pensiero, la discussione, e sono legate indissolubilmente all’osservazione, alle impressioni, al contesto. In Pastorale invece sono sì legate al contesto, ci mancherebbe!, e sono sì giuste, pertinenti e condivisibili ma sembrano quasi ribaltare lo schema mentale dell’essere umano lo schema osservazione-pensiero. Input – ragionamento – output, nell’opera di Roth l’osservazione, la reazione nascono dal ragionamento, e il ragionamento è aprioristico rispetto alle contingenze, rispetto all’evoluzione degli eventi, come se lo Svedese si comportasse così, a prescindere da quello che accade, e la figlia idem, perché è così che si comporterebbe in un caso o nell’altro Roth.
No, non è onestà questa, non è realtà, non è il ragionamento che crea l’input.
La premessa stessa dell’autore, (parafraso) “…stavo danzando con… e di colpo.”, lo frega, è una confessione del suo errore, un ammissione di colpa: tutto il libro è finto poiché alla base parte da un viaggio mentale interiore e da esso non riesce separarsi.
E’ giusto pensare, ragionare, ma talvolta la vita è fatta anche di sensazioni, di stimoli inspiegabili, di istanti contradditori, di errori marginali e di visioni offuscate, è questo che ci rende umani, il fatto di pensare prima di agire e talvolta di non farlo. La realtà è giusto interpretarla, ma talvolta va presa per così com’è, accettarla e basta o non accettarla e basta, senza starci a riflettere su troppo; è il piano dell’infinitesimo di secondo che ci sfugge pur essendo fondamentale, è il vasto ritmo del mondo, di tutti gli esseri agenti sulla terra, che, impossibile da comprendere, possiamo soltanto intuire. Talvolta la quotidianità è fatta di pensieri, scelte, ma molte altre volte sono le azioni, le sensazioni; se così non è, se c’è solo il ragionamento, il pensiero profondo, ci si perde in se stessi, nelle proprie elucubrazioni, si perde il filo del discorso o il significato del libro. Bene, certo, sempre riflettere e pensare, ma talvolta occorre spegnere il cervello altrimenti ci si chiude in se stessi dimenticandosi del mondo esterno, delle sensazioni che questo ci offre, ci si dimentica di vivere. Talvolta una sensazione, l’istante in cui romanticamente abbagliati dalla bellezza di un paesaggio, un’ opera d’arte, una donna, si mette a tacere la propria voce interiore e si rimane inerti, incantati, totalmente ricettivi e istintivamente coinvolti, quell’istante vale più di mille riflessioni, vale più di cento pensieri! DeLillo questo lo sa bene, Underworld, il titolo stesso volendo rimanda a quel “mondo sotterraneo”, sotto la soglia del percettibile, che è la genuina comprensione istintiva, Roth invece apparentemente non lo capisce, lui è perso nei suoi elaborati pensieri, è smarrito nelle sue arzigogolate riflessioni ed è sconfitto dalla realtà quotidiana.
Tutto vero, quel che dice, quel che racconta, ma il mondo non è così, nella vita non c’è tempo per queste cose: se sei il padre che ha smarrito una figlia al diavolo l’America, il comunismo e il capitalismo, lo scambio generazionale, il bene e il male, i vecchi tempi, i valori della patria e il socialismo e la borghesia, al diavolo tutte queste idiozie da tea pomeridiano, al diavolo tutto e tutti e corri a riprenderla! Sì, ci puoi pensare, ne puoi parlare, ogni tanto, così per amore del dialogo, ma non puoi impostare la tua condotta di vita sul dualismo tra antico e moderno, tra occidente e oriente, tra bene individuale e bene delle masse, tra cattolicesimo ed ebraismo. Lo puoi fare se sei un politico, un prete, un rabbino, uno scrittore che vive da eremita e passa tutto il tempo a vagheggiare pontificando sulle giuste scelte morali della società moderna, ma non se sei un uomo comune, che vive dentro la vita, che non ha tempo per queste cose, non se sei una persona come lo Svedese.
Per tirare in ballo ancora una volta DeLillo, e prometto che questa è l’ultima, Punto Omega (e con questo ammetto che lo sto rivalutando) è la migliore risposta a Pastorle Americana: in questo caso non è la guerra del Vietnam ma quella del golfo, non è la società “antica” dei genitori, contro quella moderna e ribelle dei figli, ma un giovane e un anziano, non sono gli anni settanta ma il novanta, forse il duemila, ma la storia è simile, i temi sono simili, (guerra giusta o sbagliata? Società americana - occidentale che incarna i veri valori o è solo uno stereotipo che cela una realtà ben più amara e arrivista?) e le due generazioni a confronto si trovano a discutere, a riflettere; ad un certo punto DeLillo però si riscuote e compie il balzo che lo ri- trascina nel reale: quando accade qualcosa alla figlia del protagonista anziano, chi se ne frega di queste “cavolate dialettiche”, chi se ne frega di chi ha ragione, chi se ne frega dell’ America, dell’ Iraq, del capitalismo e del comunismo e corriamo a vedere cosa è successo, e affrontiamo il vero problema!
Questo è l’istinto, la risposta dell’uomo reale alle difficoltà della vita, l’istante sensazionale in cui si smette di ragionare e si agisce, l’istante che vale di più delle eremitche elucubrazioni artificiose di un emarginato sociale, poiché questo pare lo Svedese, un emarginato pur circondato da una società, chi se ne frega di tutto, questa è l’unica risposta al dilemma del “ma cosa è accaduto?”, “ma dove siamo andati a finire?” DeLillo ci mette un centinaio di pagine a trovarla, Roth ce ne mette più di quattrocento e non la trova, e il dubbio gli rimane. “Ma cos’ha la loro vita che non va? Cosa c’è di meno riprovevole…”
E dire che la risposta è molto semplice, facile, ci arriva chiunque al momento buono. Ma dove siamo andati a finire? Cosa c’è che non va nello Svedese, in me Svedese, nella mia vita?
La risposta è solo una: “ma chi se ne frega!”
Non è realtà quella di Pastorale è irrealtà, mascherata da intellettualismo, è mancanza di obbiettività, non storica e sociale, quella per carità l’autore ne ha fin troppa, ma mancanza di obbiettività individuale.
Date (sempre e comunque) a Cesare quel che è di Cesare, a essere obbiettivi, non ci si può limitare a condannare questo libro, non si può giudicarlo un libro mal riuscito e basta, non con quelle premesse, non se si parla di Philip Roth. Credo che l’unica parola che non contempli il suo vasto vocabolario di grande scrittore sia la parola “non riuscito.” Questo infatti non è un libro non riuscito, tuttavia, date le aspettative, le premesse, dato il riconoscimento internazionale, se per Pastorale non si può parlare di fallimento almeno di grande delusione forse è lecito. Delusione alla luce dell’ancora fatidica domanda: che cos’è la letteratura, che cos’è scrivere, ma soprattutto leggere?
In buona sostanza come dice Bloom la letteratura è catarsi, ma da cosa nasce la catarsi in un libro? Dal perfetto equilibrio di ogni sua parte e da uno stile irreprensibile in ogni sua variazione, da uno stile propedeutico all’evoluzione della trama, propedeutico all’evoluzione del concetto di realtà dell’autore e propedeutico all’evoluzione del lettore. Ma se la trama, come nel caso di quest’opera, è deficitaria e il soggetto è poco credibile allora lo stile deve essere ancora più che irreprensibile, deve essere assoluto, totale, o, in una parola molto più elegante, e già fin troppo usata, semplicemente, onesto.
Pastorale americana è scritta in uno stile onesto?
No, e in parte abbiamo già visto perché, ma c’è qualcos’altro di scorretto nel suo stile, di vizioso, di accennato eppure così palese, qualcosa che trascende l’indiscutibilità dei fatti.
Quello che lo Svedese accenna di aver iniziato, provato a compiere, con la figlia, ancora bambina e come la descrive Roth subito prima della telefonata al fratello (il fratello dello Svedese): è qualcosa di deviato, e si ripercuote lungo tutto il libro, nel modo come è scritto, nello stile, qualcosa di sottinteso, ellisso, eppure profondamente, moralmente, sbagliato. Sempre un passo al di là della soglia del tangibile eppure percettibile, eppure fin troppo palese.
E’ la repressione sessuale: è la pura, naturale pulsione di ogni uomo che in qualche modo viene repressa nelle parole di Roth. Ma questa repressione sarà volontaria o involontaria? Sarà un effetto voluto per stressare i problemi di una società perfetta solo in facciata oppure è una delle tante conseguenze dell’eccessivo cerebralismo dell’autore? E’ difficile capirlo come è difficile notarla, realizzarne in un singolo punto, paragrafo, la presenza; ciò non di meno è li, tra le pagine, una costante, raccapricciante e inammissibile per qualunque uomo onesto che voglia credersi tale. Dunque è lo Svedese disonesto o è lo stile dell’autore? L’uno esclude l’altro poiché se fatto apposta ne guadagna lo stile se invece è involontario ne perde l’autore.
Roth in Pastorale Americana, per quello che dice, per come lo dice non solo è l’antitesi di DeLillo ma lo è anche di Murakami, anzi di quest’ultimo parrebbe addirittura essere la nemesi: entrambi realisti, (a onor del vero il secondo più surrealista che realista) uno sembra diventare il nemico giurato dell’altro. Per l’autore Giapponese il sesso, la sessualità, l’erotismo, sono una costante ma sono normali, naturali, giusti, puri, in Roth invece no, ogni pulsione diventa morbosa, sporadica, ma avidamente particolareggiata, quasi volgare, quasi depravata. Non c’è nulla di oggettivo, concreto, sono solo impressioni, sensazioni che si spengono sempre un attimo prima di arrivare alla cosa definita, ma sono li, le si evincono dalla narrazione, tra le righe, di pagina in pagina, in un crescendo di presunta trivialità che culmina con il resoconto di quanto è stato fatto alla figlia dello svedese, culminano con il paragone, con l’immagine che ha il padre della figlia, di lei neonata da bambina e di lei sporca adepta ad un culto autolesionistico.
La domanda che occorre farsi ancora una volta è: questa appestante sensazione di irriverente maniacalità è volontaria?
Se è così, come per esempio ne “Il Teatro di Sabbath”, se è fatta apposta per evidenziare, sottolineare, stressare i problemi dell’uomo moderno, le sue falsità, le irrisorie apparenze a cui tiene tanto la società, be… tanto di cappello, è un'altra prova della grandezza di questo autore, ma se invece è soltanto frutto del caso, o meglio della innata indole repressa dalla cerebralità di un anziano che vive appartato tra i boschi, be… sarebbe quanto mai auto degradante.
No, non scherziamo, non facciamo della stupida faciloneria, affermare una cosa del genere sarebbe assurdo, sarebbe come mettere in discussione l’intelletto di un’ uomo il cui equilibrio e la cui acuità mentale sono riconosciute a livello planetario, anzi peggio, affermare una cosa del genere sarebbe come denigrare qualcuno per le sue scelte personali, sarebbe come accusare qualcuno, una persona riconosciuta come esemplare, di avere una mente corrotta dal proprio intelletto in un gioco di autodistruzione progressivo e totale, sarebbe psicologia da quattro soldi, psicologia da risentimento… ma Pastorale è un libro che suscita queste pulsioni, queste reazioni: lo si ama, ma lo si odia anche, piace e non piace, intrattiene e per certi aspetti disgusta. Forse perché in realtà mette a nudo ciò che noi, lettori, uomini moderni, occidentali, in realtà siamo; forse perché in realtà è uno specchio della nostra anima e non tanto di quella dell’autore, forse… ma l’odio, il malessere persistono, rimangono e si autoalimentano di pagina in pagina. Fino a ritenere che l’unico personaggio con un minimo di buon senso sia non tanto lo Svedese, eroe buono e sfortunato del romanzo ma suo fratello, ovvero colui che rappresenta lo stereotipo del occidentale, del capitalista possessivo e violento (cerebralmente, mentalmente, violento), del emancipato che una volta raggiunta una degna condizione sociale non guarda più in faccia nessuno pur di vendicarsi di quello che ha subito, di quello che la società gli ha fatto subire. Si arriva a questo, a stimare questo personaggio estremista, come unica voce della ragione in un delirio di pazzi.
Ma ancora una volta è indispensabile porsi la domanda, sarà un effetto cercato dall’autore o un collateralismo involontario? A differenza della sfera sessuale qui viene da pensare che sia stato fatto, studiato ed elaborato con intenzione, per poter rimarcare il concetto della totale e normale assurdità in cui si ritrova la società contemporanea, un assurdità così globale e onnicomprensiva che è impossibile sfuggirle e si è solo vittime, come lo Svedese da un lato, con la sua perfezione la sua bonarietà progressista; la figlia ribelle dall’altro, antisociale, anticonformista e antiumana e il fratello dal terzo, estremista totale che per repulsione nei confronti del mondo vive di troppo facili assoluti inopinabili ed inespugnabili.
Tutte vittime della società moderna, viene da chiedersi però, chi ha creato questa società? Se l’uomo presentato da Roth è vittima della società, vuol dire che è anche vittima di se stesso, poiché chi altri è l’artefice di questa condannata società se non l’uomo stesso? Magari, non lo Svedese nello specifico, magari non Merry, la figlia, o il fratello, ma anche loro sono comunque colpevoli, anche loro sono comunque esecutori materiali poiché parte del genere umano, poiché partecipi dell’ordine naturale delle cose. E allora cosa vuole dirci Roth, che ognuno è una vittima a prescindere, che non c’è soluzione di continuità alla nostra natura, che siamo condannati a soffrire della nostra stessa esistenza?
Apparentemente parrebbe di sì. Ma anche qui si torna al discorso di prima: troppo cerebrale, squilibrato, masochistico: la vita non è sempre e soltanto riflessione, e lo stesso la realtà, la società, se si incomincia a riflettere su qualcosa si troveranno sempre dei lati negativi, se ci si concentra su quelli parranno sempre più grandi, fino a diventare insormontabili, è sempre così, e l’autore se ne rende conto, ma sembra dirci: “vero, ma non c’è soluzione, è nella natura dello Svedese e nella nostra di esseri umani, riflettere e ingigantire i problemi.”
Eppure in qualche modo, si sopravvive, lo Svedese sopravvive, si legge all’inizio che è un tumore a stroncarlo e l’autore, l’alter ego cartaceo di Roth che crea tutta la storia mentre danza con la sua ex fiamma del college, è sopravvissuto, probabilmente in quanto essere umano avrà avuto gli stessi problemi dello svedese eppure ce l’ha fatta anche lui, come? Perdendo ogni valore? Ogni sicurezza, ogni scopo, rassegnandosi alla piatta realtà delle cose che accadono senza motivo? Forse per Roth è così ma di nuovo questa è una visione estrema che pecca di equilibrio, è un assolutismo non giustificabile da una mente illuminata come la sua.
E allora come venir meno al male di vivere che ci si auto infligge riflettendo, non potendo fare a meno di riflettere sulle cose che accadono? Quale filosofia, quale pensiero illuminato ci può permettere di ribaltare questa situazione, quale può sconfiggere l’indole innata della miserabile natura dell’essere umano di Roth?
Pare che l’autore nei suoi sessant’anni di carriera letteraria non sia riuscito a capirlo. Qualcuno meno sveglio, più istintivo, più giovane invece c’è arrivato, (e come lui ne sono sicuro, molti altri) era un semplice cantante di qualche anno fa, aveva fatto una canzone che conteneva un verso che recitava così: “ in every life we have some trouble, but if you worry you make it double, don’t worry, be happy!” Sono sicuro che tutti avete capito di chi parlo…
Facile, banale, scontato, palese, eppure più vero, genuino e concreto di ogni insulsa peregrinazione mentale di un povero pensatore chiuso in se stesso.
Questo, il verso di quella canzone, pare allora essere l’unica, risposta migliore, alle quattrocento e più pagine di Pastorale, parafrasando: Roth ci spiega i problemi della vita, dell’uomo, della società, dell’America attuale, ce li fa vivere, sentire, perdendosi nelle angosce, nella sofferenza e non vi trova soluzione, ma solo domande e domande alle ulteriori domande, fino ad arrivare a quella finale: come è possibile tutto questo? Cosa c’è di sbagliato? Come sopportare tutto questo?
La risposta è un semplice verso (le cose semplici sono sempre le migliori, anche in letteratura) di una semplice canzone: if you worry you make it double, don’t worry be happy, che guarda caso suona proprio come “si va be ma in fondo chi se ne frega!” Chi se ne frega se il mondo va così, chi se ne frega se non è una vita perfetta, chi se ne frega se hai dei problemi, se ti preoccupi ti sembreranno grossi il doppio, vivi sereno e affrontali da uomo!
Da qui il giudizio negativo al libro, forse un giudizio dovrebbe trascendere se si è d’accordo o meno su quanto affermato nel libro, e dovrebbe incentrarsi su come viene esposto l’argomento, sull’onestà degli elementi che vengono portati a supporto della propria teoria e non tanto delle conclusioni che si traggono da questi. Ma se queste conclusioni, influenzano tutto lo stile della narrazione, e la vicenda stessa, se l’ottica pessimistica di Roth influenza totalmente un libro, un romanzo, e se si riscontra che quest’ottica coinvolge i lettori e ogni membro, civile, pensante del genere umano, e se si nota che quest’ottica è sbagliata, falsa, stupida e limitata, be allora non si può prescindere dallo screditare il romanzo, per quanto il romanzo sia considerato il capolavoro dell’autore, per quanto la critica gli provenga da un insulso lettore come tanti, poiché se si è disposti a concedere il punto di vista all’autore, bisogna essere disposti a concedere anche il punto di vista opposto al critico e se si è dotati di logica, e chiunque legga Roth immagino lo sia, non si può ammettere che traendo da delle premesse corrette si possa giungere a delle conclusioni sbagliate; non se in ballo c’è il destino di un uomo, anche se fittizio, poiché nei disegni dell’autore è esemplare del genere umano, poiché anche se è uno stereotipo, nei suoi disegni è anche l’ archetipo di una società, poiché anche se irreale nella logica dello scrittore è quanto di più vero e attinente alla realtà possa esserci. No, non si può proprio ammettere una cosa del genere se c’è in ballo una critica alla società, la nostra società, non se in ballo c’è una dissertazione su quello che siamo stati e cosa siamo diventati negli ultimi cinquant’anni, non se in ballo c’è una critica personale fin troppo facile dei vizi di noi altri poveri esseri umani che ci mettiamo costantemente in gioco e il più delle volte non abbiamo tempo di riflettere sulla nostra illogica vita, no, non se in ballo c’è cosi tanto.
Date a Cesare quel che è di Cesare, ancora, d’accordo non sarà tutto perfetto, consequenziale, realistico e logico, ma come non considerare l’emozione che suscitano certi passaggi, l’angoscia di certi pensieri, il tormento di certe frasi taciute? E come non prendere in considerazione la catarsi inversa, per repulsione, che il libro suscita?
Pastorale Americana non è un libro sbagliato, scorretto, cattivo è un libro all’opposto, che fa ragionare per assurdo: “non vuoi una simile interpretazione della realtà e allora createla da solo”, sembra dirci, “ti va bene questa? Be è logico è così che va il mondo, che ti aspettavi?” e il ragionamento scatta, sia che ci si trovi d’accordo oppure no, sia che si condivida o meno la visione di Roth. Un libro simile, che suscita tale ragionamento e tali passioni, non può essere considerato alla stregua degli altri, ma questo vale sia per gli aspetti negativi che per quelli positivi, e allora vale il metro di giudizio non più assoluto ma del singolo, a seconda della propria morale, della propria verità personale, della propria maniera di interpretare il Mondo.
Ognuno legge Pastorale a suo modo e ognuno lo interpreta a suo modo, un libro del genere non può essere considerato oggettivamente ma solo soggettivamente, poiché non è uno di quei testi che o lo si odia o lo si ama, ma entrambe le cose: Pastorale la si odia e la si ama, ci attrae e ci repelle e nessuno può arrogarsi l’onniscienza imparziale necessaria per giudicarlo senza anteporre il soggetto giudicante alla frase: “io lo considero”, “io penso”, “a me è…”, e un libro che riesce a eleggersi sopra alla mischia a tal punto non può non essere annoverato tra le più grandi opere del nostro tempo.
Tuttavia, proprio per il fatto che nessuno può possedere la distaccata imparzialità necessaria per giudicarlo, anche il sottoscritto non può esimersi dal dire la sua e ribadire il concetto che Pastorale Americana non è un libro comune che si può odiare od amare, ma un libro che si odia e si ama contemporaneamente e purtroppo, per quel che mi riguarda, dal basso della mia riacquisita soggettività, devo ammettere che, vuoi per il punto di vista dell’autore, vuoi per la mancanza di concretezza, o di onestà, vuoi per l’eccessivo cerebralismo, purtroppo devo ammettere di averlo odiato molto più di quanto l’ho amato.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Cosigliato a tutti, perchè comunque, malgrado tutto (ma proprio tutto), questo libro è e resterà per sempre, nel bene e nel male, un patrimonio dell'umanità
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Ma questo è un saggio più che una recensione :-) Ti consiglio di inserirlo nella sezione Magazine.
Paolo!!!!! Ho letto neanche 1/4 del papello :DD
Sapevo che avresti fatto un'arringa perchè non ti era piaciuto (IO L'HO AMATO ^__*)...ma neanche tu scherzi mio caro Zuckerman a farti troppe domande....mi piacerebbe calibrare la tua pseudo-recensione, meglio definirlo saggio come dice Cristina, e caricarlo sul Kindle per una lettura più godibile...allo Svedese con i tuoi perchè gli fai un baffo :PP
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C.U.B.
13 Agosto, 2013
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Oh cielo ...mai visto niente del genere su Q !
Scusa se non ti leggo ma mi si incrociano gli occhi, comunque io ho letto solo un Roth nella mia carriera e penso di fermarmi lì, salvo contrordine...Pazienza per il patrimonio dell'umanita' :-)
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Todaoda
13 Agosto, 2013
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Sezione che scopro solo ora! Buona idea così non mi devo dilungare (ulteriormente) in premesse, scuse e spiegazioni!
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Todaoda
13 Agosto, 2013
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Ah ah ah dici che sono incorso nello stesso errore che secondo me Roth ha fatto scrivendo la Pastorale!? Be comunque te l'avevo detto che era un filo lunghetta, ma tu hai insistito tanto! :-)
Ok, ok adesso la metto nell'altra sezione, se capisco come si fa, quanto al caricarla sul kindle... Credo che ti occuperebbe tutta la memoria.
In risposta ad un precedente commento
Todaoda
13 Agosto, 2013
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Eh eh eh! A te ti si incrociano gli occhi? ...pensa a me che lo scritta e riletta pure un paio di volte! :-)
Be spero che il non leggere più Roth non dipenda dalla mia recensione. Guarda che merita (lui, non io), quale hai letto? Io ti consiglio "nemesi", l'ultimo che ha fatto se non sbaglio, di quelli che ho letto fino adesso secondo me è il migliore.
In risposta ad un precedente commento
Todaoda
13 Agosto, 2013
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Dicevo... Buona idea, ma ehm scusa l'ignoranza, come si fa a inserire qualcosa nella sezione Magazine?
In risposta ad un precedente commento
Cristina72
14 Agosto, 2013
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@Todaoda: non ho mai inserito niente su Magazine, ma altri utenti l'hanno fatto. Prima occorre iscriversi ovviamente.
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