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Quando eravamo orfani
 
Quando eravamo orfani 2018-05-12 21:30:56 pierpaolo valfrè
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
pierpaolo valfrè Opinione inserita da pierpaolo valfrè    12 Mag, 2018
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Londra-Shanghai, un secolo fa

Quando i fantasmi dell’infanzia danno il senso e la missione di una un’intera vita: li insegui ossessivamente per liberartene, salvo poi sentirti improvvisamente stanco, svuotato, leggero, inutile, solo e spaesato.

Questo mi sembra ci voglia dire Kazuo Ishiguro tramite la storia di Christopher Banks, figlio di inglesi trasferitisi a Shanghai all’inizio del ‘900, divenuto detective di professione per poter indagare un giorno sulla loro misteriosa scomparsa.

Christopher trascorre un’infanzia felice a Shanghai, completa ottimi studi a Londra e costruisce una carriera di successo che gli apre le porte dei ricevimenti più esclusivi e gli regala fama in tutta l’Inghilterra; eppure rimane prigioniero di un’ombra che si porta dentro, che lo rende irrequieto e insoddisfatto fino a quando non riuscirà a fare piena luce sul passato.
Dovrà guardare in fondo all’abisso, tornare nella Shanghai martoriata dalla guerra tra Chang Kai-shek e i comunisti, attaccata e occupata dai giapponesi, violentata dai signori della guerra, sfibrata dal traffico di oppio, tradita, sfruttata e venduta dagli opulenti occidentali, lasciata alla mercé di ogni più turpe malaffare.

Ishiguro segue uno schema già sperimentato con “Quel che resta del giorno”: il protagonista ricorda e racconta avvenimenti appena trascorsi e partendo da questi apre ampie finestre su un passato più remoto. In questo modo ogni avvenimento trova un suo ordine naturale e ogni emozione viene filtrata, rivista e modellata dalla memoria. E’ una tecnica che consente di ottenere un gradevole equilibrio tra emozione e riflessione, che mi sembra la cifra stilistica dell’ultimo premio Nobel per la letteratura.

Le prime pagine hanno un andamento lento, l’ambientazione è la società stanca, appesantita e avviata al tramonto dopo la Grande Guerra, società che costituisce il terreno fertile nel quale gli spiriti animali di Christopher e di altri giovanotti emergenti affondano unghie e denti e conquistano il loro spazio vitale.

Le pagine finali, nella Shanghai degli anni trenta, di grande interesse anche per il contesto storico, sono concitate e affannose come un incubo, un’allucinazione al termine dalla quale ci si sente spossati, svuotati e attoniti. Le ombre si diradano, il male emerge nitido e nauseabondo e colpisce con ferocia.
Dopo, ogni cosa, ogni attimo di vita sarà un trascurabile dettaglio privo di importanza. Si potrà vivere da sopravvissuti, più o meno serenamente fino alla fine dei propri giorni.

La netta frattura tra i primi due terzi del romanzo, con pagine morbide, eleganti e precise come un prato inglese, e le ultime concitate, allucinate, inverosimili cento pagine lascia in prima battuta piuttosto perplessi. Il sapore arriva subito e non dispiace, ma il senso?
Il senso e l’unità dell’opera arrivano dopo, almeno per me è stato cosi, e qui ho cercato di spiegare il messaggio che ho colto.
Non so se queste siano state le vere intenzioni dell’autore e mi interesserebbe molto conoscere le opinioni di altri lettori.

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Quel che resta del giorno
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Commenti

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Bella recensione, Pierpaolo. Pur essendoci qualche affinità di struttura, evidentemente qui siamo lontani dalla qualità di "Quel che resta del giorno".
Ciao Emilio, sì c'è indubbiamente una bella differenza. In questo romanzo c'è qualcosa che non convince, anche senza lasciarsi troppo condizionare da qualche forzatura narrativa nell'ultima parte. È come se un campione di fioretto impugnasse improvvisamente la sciabola, o forse anche la clava. Puoi darti anche una spiegazione razionale, ma comunque non rimani convinto del tutto. Fretta di concludere?
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