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Solitudini a confronto
«Pensavano entrambi a loro due che, senza conoscersi, si erano incontrati per miracolo nella grande città, e ora si aggrappavano l'uno all'altro con disperato ardore , come se si sentissero già pervadere dal freddo della solitudine.»
Georges Simenon è uno degli autori più versatili del panorama letterario. Lo abbiamo visto con tante opere, sia in tema di gialli con Maigret che non con “Marie la strabica” o ancora con i racconti. Ma cosa succede quando l’autore belga parla di amore? Di amore ispirato a una storia autobiografica e oltretutto scritta a caldo, cosa ben rara per il romanziere. “Tre camere a Manhattan” è uno dei testi più vividi, vibranti e potenti da lui scritti. Si ispira al rapporto sentimentale di Simenon con Denyse Ouimet, seconda moglie. Tra queste pagine emerge tutto il sentimento che li ha coinvolti, in tutte quelle che sono le fasi dell’innamoramento e anche della solitudine. Eh sì, perché i due volti che conosciamo tra queste pagine, sono due anime sole. Un uomo e una donna che si incontrano per caso in una notte come tante, una notte ove a regnare è proprio questo sentimento di isolamento.
François e Catherine, Frank e Kay, durante questa notte fredda, si incontrano in un bar. Non hanno un partner, non hanno amici, non hanno un lavoro. Ripensano al passato, a ciò che hanno e a ciò che hanno perso. Il loro è un passato ricco anche di trionfi, ma cosa è successo per giungere a quella notte? Lei è sensuale, seducente, dolce e impulsiva, lui a tratti burbero, geloso, schivo. Basta poco e decidono di trascorrere il resto della serata insieme. Eppure, quelle poche ore che dovevano rappresentare un breve incontro, diventano molto di più, diventano giornate, con camere diverse e un sentimento che cresce. L’iperbole delle tre camere si snoda tra l’albergo Lotus, la prima stanza per la prima notte, quella di Kay ove recuperano gli effetti personali di lei, e quella dell’uomo dove la vita torna a scorrere rapida non solo nell’idillio ma anche nella sua nuda e cruda realtà.
«Fino a quel momento erano rimasti al di fuori della vita, ma a un certo punto, volenti o nolenti, avrebbero dovuto rientrarvi.»
Ma cos’è alla fine l’amore? Un’esistenza solitaria che trova la sua fine nell’unione con un’altra anima? Lo specchio di due solitudini a confronto? Quanti volti, ancora, può avere l’amore? E mentre scopriamo di questi sentimenti e di queste emozioni, ecco che attraversiamo anche Manhattan, con quelle luci e quelle passeggiate tra vie e desolazione. Perché è proprio tra quelle strade che i due passeggiano in una disperazione che gli impedisce di riprendere il filo delle proprie vite. Sono esistenze dolorose che esistono e non possono essere ignorate, ma sono anche realtà dolorose e che sarebbe bello poter allontanare.
“Tre camere a Manhattan” è un flusso di coscienza, un monologo interiore, una ricca e colorata gamma di riflessioni in cui si mette a nudo l’anima, da un lato, di un uomo ferito dalla vita e riluttante al lasciarsi andare, spaventato dalla possibilità di tornare ad amare tanto da lasciarsi andare a lati più meschini quali la gelosia, la retrospettiva, la debolezza carnale, il tradimento, anche un po’ di maschilismo (da contestualizzare all’epoca), e dall’altro abbiamo il volto di una donna che è fragile e forte al contempo.
«Forse era arrivato il momento di parlarle di sé...Combe lo sperava e al tempo stesso lo temeva. Che cosa sarebbe successo, che ne sarebbe stato di loro quando si fossero finalmente decisi a guardare in faccia le rispettive realtà? Fino a quel momento erano rimasti al di fuori della vita, ma a un certo punto, volenti o nolenti, avrebbero dovuto rientrarvi.»
L’amore, sembra dirci Simenon, ha tanti volti e tante sfaccettature, è lo specchio di tante verità, ma non nasce, si riconosce. Ci si innamora all’improvviso, ci si rispecchia e riconosce nell’altro con una familiarità che stupisce, riempie ed anche consola. Ecco perché alle volte è anche così difficile parlare di noi, del nostro passato con chi amiamo, perché temiamo, forse implicitamente, che non sappia accettare e far propria quella vulnerabilità che mostriamo e che riconosciamo in lui/lei.
«Domani non sarebbero più stati soli, non sarebbero mai più stati soli, e quando lei all’improvviso ebbe un brivido, quando lui sentì, quasi contemporaneamente, una punta dell’antica angoscia ridestarsi e stringergli la gola, entrambi capirono di aver gettato nello stesso istante, senza volerlo, un ultimo sguardo sulla solitudine in cui erano vissuti fino ad allora.»
Lo stile narrativo è pungente, scarno, diretto. I dialoghi conducono, lasciano intuire e permettono al lettore di immedesimarsi nel testo. A tratti può sembrare un poco più lento o ripetitivo rispetto ad altri scritti, ma tutto ha un suo perché, anche in questo caso.
“Tre camere a Manhattan” entra nel profondo dell’animo umano, scava nella solitudine che ciascuno si porta dentro e al contempo scava nell’amore, nel sentimento. Il risultato è un testo emozionale, evocativo, empatico che racchiude dentro sé anche tinte di malinconia e tristezza per quell’abisso che mai viene celato e che forse, non può mai davvero essere nemmeno riempito.





























