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Alla ricerca della madre perduta
Anche se forse non possiede il respiro delle opere maggiori di Jonathan Coe (La famiglia Winshaw in primis), il romanzo si distingue per tenerezza degli affetti, profondità delle tematiche, coesione della struttura.
L’io narrante, Calista Frangopoulos, una giovane di origine greca in viaggio a Los Angeles, entra casualmente nella vita del grande regista Billy Wilder e viene da lui ingaggiata come interprete per la lavorazione di Fedora, il suo penultimo film, girato nell’isola greca di Lefkada, capolinea di un percorso artistico straordinario, le cui tappe principali erano state Viale del tramonto, Sabrina, A qualcuno piace caldo, L’appartamento, Vita privata di Sherlock Holmes.
Per Wilder sono gli anni del declino; una nuova generazione di registi avanza, tra i quali Spielberg, Scorsese, Coppola, Fassbinder: trovare un produttore che lo finanzi è diventata un’impresa. Assistiamo dunque, attraverso il racconto di Calista, alle varie fasi del film, accompagnate da citazioni, ricordi, aneddoti di straordinario interesse, frutto di una documentazione seria e laboriosa, da saggista più che da romanziere. In particolare vengono riferite le riflessioni, le battute, i giudizi a tutto campo di Wilder sul cinema contemporaneo, sui “giovani barbuti” che ormai stanno prendendo il posto della passata generazione. Per il regista austriaco è finito il tempo delle pellicole romantiche, delicate, alla Lubitsch: al loro posto sono subentrate trame basate su scene violente, su personaggi depressi che inducono depressione nello spettatore, o sui primi effetti speciali, mentre le scelte dei produttori si orientano sempre più verso il business ed è questo ormai l’unico criterio in base al quale si decide se accordare o meno finanziamenti.
L’ossessione che Wilder nutre nei confronti del film Lo squalo scatena il suo umorismo cinico e graffiante e lo induce a immaginare, tra le varie fantasie sull’argomento, un film girato a Venezia in cui un branco di pescecani assalta i gondolieri nel Canal Grande(i produttori abboccano e non capiscono che è un paradosso rivolto contro di loro…). Un giudizio che sarà completamente rinnegato e rovesciato nella parte finale, quando, in un ultimo incontro con Calista, Wilder esalterà Schindler’s List di Spielberg, lo definirà geniale e affermerà che è infinitamente migliore di quello che avrebbe saputo fare lui.
Ma non si pensi ad una biografia più o meno romanzata: Il racconto non è focalizzato esclusivamente sull’autore di Fedora, ma sul rapporto che si stabilisce tra lui e la narratrice, come lascia bene intendere, pur nella sua essenzialità, il titolo, incentrato su questa reciprocità.
Memorabile al riguardo, uno degli episodi più suggestivi, quello in cui i due protagonisti ritardano il loro arrivo sul set dove li attende l’ultima scena, quella del suicidio della finta Fedora, per visitare le fattorie intorno Parigi e godere dell’eccellente brie che viene in esse prodotto: la dolcezza del paesaggio, la bontà dei sapori, la capacità di W. di cogliere con la sua parola sapiente il senso della vita nei suoi aspetti più umani ed profondi, saranno per Calista un insegnamento imperituro e un punto fermo della memoria, destinato a riemergere nel finale. L’influenza del grande cineasta sulla donna non si esaurirà infatti nel periodo della loro frequentazione e troverà il suo culmine allorquando l’ex interprete, divenuta affermata creatrice di colonne sonore per film, rivedendo Fedora, ne apprezzerà la “profonda comprensione del dolore dei suoi personaggi: in particolare di personaggi- uomini e donne- che stanno invecchiando, che si battono per trovare un ruolo in un mondo che si interessa solo alla gioventù e alle novità”. Un film in grado di trasmettere una gioia, un calore, una chiarezza, tali da spingerla ad una decisione familiare generosa e densa d’amore, che qui non spoileriamo, ma che raccomandiamo di cogliere con attenzione. Decisione che trova l’avallo del marito, espresso con la stessa locuzione interrogativa: “Perché no?”, con cui il fedele sceneggiatore di Wilder, Iz Diamont, ne sottolineava le trovate geniali, come alcune battute finali entrate nella storia del cinema: “Nessuno è perfetto”, “Sta’ zitto e da’ le carte”. Il racconto, che era cominciato con la descrizione di una bambina che saltellava sulla scala mobile nella metropolitana di Londra, costringendo la mamma a rincorrerla continuamente, si chiude ad anello nel segno della maternità e della vita. Sono quelle relazioni che solo i grandi della scrittura sanno delicatamente disseminare nel loro textus, le corrispondenze che legano il tutto e gli conferiscono armonia e bellezza.
Non manca, come d’abitudine in Coe, la tematica storico-politica, che qui si manifesta ni continui riferimenti di Wilder alla Germania nazista e allo sterminio degli ebrei. Quando un giovane tedesco, durante una di quelle conversazioni al tavolo di un bar o di un ristorante che affollano queste pagine, tira in ballo uno studio recente che ridimensionerebbe l’Olocausto, balza fuori la potente – e rivelatrice- risposta del regista, al termine di un brillante excursus in forma drammaturgica, da film o da commedia più che da romanzo: “Conosco queste teorie che tendono a incolpare gli ebrei di aver ingigantito le cose […] Ma allora, se non c’è stato l’Olocausto, dov’è mia madre?”.
E quando, con cura ossessiva, il regista guarderà e riguarderà le bobine delle riprese effettuate dagli Alleati nei campi di concentramento o quando vedrà per la prima e unica volta Schindler’s List, il suo sentimento filiale cercherà irrazionalmente tra i cadaveri ammucchiati il volto della madre perduta, mai più ritrovata, travolta e annichilita dalla follia nazista. Commovente mescolanza tra realtà e invenzione,realtà e cinema, da parte di un gigante che a questa dialettica aveva dedicato l’esistenza.
La struttura narrativa ad anello, per cui l’ultimo capitolo si riallinea allo spazio (Londra) e al tempo (il presente) del primo, corrisponde alla crescita della protagonista, innescato da un grande del cinema di tutti i tempi. Il corpo centrale del racconto, compreso tra questi due estremi, è dunque un lungo e articolato flashback, che scandisce le fasi di un processo di formazione.





























