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Il monastero
 
Il monastero 2021-04-22 10:18:55 FrancoAntonio
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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    22 Aprile, 2021
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Un omicidio in monastero, ma va!

Se pigliamo come ingredienti il Basso Medioevo europeo, un oscuro e intricato edificio monastico, una comunità di religiosi e laici con i loro difetti e le loro pulsioni, qualche antica reliquia, e ci aggiungiamo il feroce omicidio di un monaco sul quale è chiamato a indagare una persona totalmente estranea al convento, cosa si ottiene? “Il nome della rosa” verrebbe da rispondere. Errato! Ma certamente uno dei peccati su cui dovrà rispondere Umberto Eco, ovunque egli sia ora, è proprio quello di aver dato la stura a decine e decine di epigoni che si sono sentiti in diritto di ambientare storie pseudo-poliziesche entro i confini di comunità religiose imperscrutabili. I risultati sono stati variabili: pochissime le opere degne di essere ricordate, molte quelle discutibili, talvolta, anzi, decisamente deprecabili, rare quelle accettabili.
Questo romanzo di Zueco rientra (forse) in quest’ultima categoria, almeno a volerlo giudicare con occhio particolarmente benevolo.

La storia è ambientata in Spagna, nel monastero cistercense di S. Maria de Veruela, ai piedi del massiccio del Moncayo, ai confini tra Castiglia e Aragona e Navarra, in un’epoca in cui i primi due regni erano divisi da una guerra fratricida. Siamo nel tardo XIV secolo (proprio lo stesso periodo in cui è ambientato il romanzo di Eco!). Sul trono di Castiglia siede l’usurpatore Enrico di Trastámara, appoggiato dai mercenari francesi di Bertrand De Guesclin. Il legittimo erede, Pietro I il Crudele, è appoggiato dal Edward, Principe di Galles. Il vicino regno di Navarra, pur restando ufficialmente neutrale, strizza l’occhio a quest’ultimo. Le truppe mercenarie imperversano ovunque.
In questa situazione magmatica, il notaio reale Don Antón Martínez de la Peira è incaricato di recarsi al Monastero di Veruela per recuperare le spoglie dell’Infante Alfonso di Aragona, figlio di Giacomo I, al fine di traslarle al Monastero di Huesca in ottemperanza alle volontà del defunto, morto cento anni prima.
A poca distanza dalla meta, però, il notaio e la sua scorta cadono in un’imboscata. Solo l’aiutante del giurista, Bizén de Ayerbe, riesce a scampare alla strage e giungere sano a Veruela. Qui si fa passare per il notaio, ma trova una situazione di gravissimo subbuglio. Infatti, dopo la funzione del Mattutino, i monaci hanno rinvenuto nella chiesa (ove solo loro potevano accedere) il cadavere del converso Octavio, barbaramente sgozzato, proprio a poca distanza dal sacrario dell’Infante.
L’abate Sancho, che giace gravemente malato a letto, si oppone a che le spoglie del nobile siano spostate dalla chiesa. Capisce pure che Bizén è un impostore, ma, invece di sbugiardarlo, gli pone come condizione, per il consenso a portar via la salma, che sia scoperto al più presto l’autore del delitto. Sostanzialmente, però, si tratta di una “mission impossible”. Infatti il giovane deve scontrarsi con l’ostilità e la reticenza dei monaci e dei conversi e col difficile compito di conciliare le indagini con il rispetto della regola cistercense. Questa impone il silenzio e l’osservanza di scrupolosi orari, i quali vincolano gli impegni della giornata e limitano la possibilità di libera circolazione negli edifici. La stessa labirintica complessità del Monastero è di ostacolo; pure i laici (i cosiddetti donati) che gravitano attorno al complesso religioso sono maldisposti. Poi ci sono le truppe francesi e inglesi alle porte e tanti, troppi altri misteri intorbidano le acque.

Ambientare i gialli nel medioevo monastico è divenuto uno sport a diffusione globale, ma il compito non è affatto facile, perché si deve avere un’intrinseca abilità narrativa che concili la profonda conoscenza del periodo storico di riferimento (e la relativa capacità di calare il lettore in quella realtà senza annoiarlo) con l’abilità, oserei dire quasi matematica, con cui si devono incastrare fatti reali e azioni drammatizzate nel delicato meccanismo investigativo. Poi, se si riesce a conservare pure un po’ di suspense e ad aggiungere qualche colpo di scena, è pure meglio.
L’A. ben conosce i luoghi in cui ha ambientato la vicenda, essendo quelli natii. Purtroppo padroneggia assai meno bene le tecniche del “giallista modello” che deve, inevitabilmente confrontarsi con il “lettore modello” il quale, a sua volta, tende a indagare personalmente sull’enigma narrativo offerto e, quindi, riesce a scoprire ogni minima magagna nella trama.
L’idea di partenza sarebbe anche ben trovata, ma la gestione è men che apprezzabile. Invero manca una rigorosa coerenza logica nel racconto. Le circostanze, gli orari, i movimenti dei protagonisti e, talvolta, pure le caratteristiche degli stessi sono in contraddizione temporale e logica tra di loro, con irritante frequenza. A volte pure i fatti storici sembrano essere riferiti con superficialità e imprecisione e non di rado appaiono pure incompatibili tra loro.
Sembra quasi che l’autore scriva facendosi trascinare dal suono delle proprie parole senza accertarsi dell’accuratezza di ciò che narra, cioè scordandosi quanto scritto solo poche pagine prima. Non è il caso di elencare le numerose incoerenze con cui ci si deve confrontare (potrebbe essere un “gioco” a parte per il lettore attento) certo è che il guazzabuglio da dipanare è davvero intricato e l’unico modo di procedere, per non rimanervi impigliati, è accettare acriticamente ciò che si legge senza ritornare alle righe precedenti per verificarne la correttezza. Riprendendo gli iniziali riferimenti a Eco, se ci si comporta solo da “lettori di primo livello”, si giunge alla parola fine moderatamente soddisfatti. Se si ha l’ambizione di essere lettori di secondo livello e farsi troppe domande, allora, è impossibile non cadere nelle innumerevoli involontarie imboscate dalle quali non si esce se non piuttosto sconcertati.

Accettata questa pesante limitazione, la narrazione fluisce abbastanza bene. Il racconto principale è relativamente divertente, anche se pecca di ingenuità, procede in modo sin troppo lineare fino all’epilogo e i dialoghi non sono sempre esaltanti. In particolare sono troppo tediosi, in parte criptici e in parte eccessivamente sofistici, quelli che i vari monaci intavolano per confondere il povero Bizén, il quale, di suo, non brilla certo per acume o perspicacia, né per coraggio o spirito d’iniziativa. Al contrario decisamente troppo forbiti quelli del popolino analfabeta e in stato semi-servile.
Il finale, poi, è decisamente semplicistico, poiché si accontenta di chiudere la storia senza concluderla effettivamente. Cosa assolutamente coerente con la realtà di tutti i giorni, ma un po’ insoddisfacente per un lettore di thriller o di polizieschi (seppure storici) che pretenderebbe una risposta a ognuno dei quesiti offerti.

Insomma si tratta di un romanzo senza troppa infamia, ma senza neppure soverchie lodi. Ha, comunque, il merito di risvegliare l’attenzione su quel periodo storico spagnolo per lo più ignoto a noi italiani e di stuzzicare la curiosità su quel gioiello di architettura cistercense che è il monastero di Veruela del Moncayo, il più vecchio in terra iberica.

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