Le recensioni della redazione QLibri

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    19 Gennaio, 2020
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L'Antigone napoletana

Il bambino nascosto è un bellissimo romanzo-sceneggiatura sul tema della mafia. Ricorda per argomento la paranza e gli ambienti di Saviano. Sembra ,leggendo, di vedere già il futuro film, protagonista il solitario, schivo maestro di pianoforte Toni Servillo, nel romanzo Gabriele Santoro,. La trama è semplice e interessante. Due bambini di dieci anni scippano la madre del boss mafioso De Vito che cade battendo la testa e muore. I genitori dei bambini devono sacrificare i figli per ripagare lo sgarro, ma uno dei due bambini, Ciro, si nasconde a casa del maestro di musica, che inizia a vivere spiato e braccato dalla mafia in casa sua. Il maestro ha un fratello magistrato con cui è in cattivi rapporti, ma che decide di contattare per chiedere consiglio. Questo fa sì che sia messa a confronto la misericordia con la giustizia. Così come Antigone contro gli ordini dello zio Creonte decise di dare sepoltura al fratello Polinice, così anche Gabriele si scontra con la durezza della legge che non prevede la preveggenza del crimine in casi come questo. Anzi gli contesterebbe il reato gravissimo di sottrazione di minore. In ogni caso Andò pone in modo toccante il problema del male, dell’abitudine al male; di come la rassegnazione di fronte al male sia già di per sé un male peggiore del male stesso. Il suo romanzo è una riflessione profonda su questo tema con grande apertura di orizzonti morali: la misericordia supera sempre la giustizia di gran lunga (non sono nata per condividere l’odio ma l’amore, dice Antigone), il bene vince sul male ma è necessario il sacrificio espiatorio dell’innocente per rovesciare la mentalità consolidata aprendovi un varco.
Perciò a ragione il maestro cita: se non dovessi tornare sappiate che non sono mai partito.
Forse, per il modo di affrontare il tema della mafia, per la bellezza dell’affetto disinteressato tra maestro e allievo, per l’arte (la musica) che accomuna le anime di Gabriele e del suo dotatissimo allievo di fortuna Ciro il libro mi è sembrato molto coinvolgente. Del resto Andò è una persona di grande spessore e intelligenza. L'incipit non è la parte migliore del romanzo, l'inizio è legnoso ma poi si scioglie subito.

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La paranza dei bambini di Saviano
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    18 Gennaio, 2020
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Indagine tra camice e reparti ospedalieri

«Lì dentro il tempo era sospeso, a regolare l’esistenza e la cadenza temporale erano i dolori, le piccole, analisi e prelievi. E le visite. Mogli, mariti, fratelli e fidanzati che ogni giorno si presentavano nelle stanze, un traffico continuo di bottiglie d’acqua, dolcetti, giornali e riviste che cercavano di nascondere l’ansia e la paura. Turnazioni di amici o parenti con lo stesso sorriso a mezza bocca e le stesse notizie di chi è fuori e prosegue nella sua quotidianità. Portavano l’odore familiare ai pazienti per accompagnare la guarigione o per non lasciare solo chi stava per abbandonare la vita. Un piccolo e insignificante scampolo di memoria che potesse accendere nel moribondo anche un solo minuto di sollievo. Amore puro che ti faceva lasciare casa e impegni e dare tutto il tuo tempo al malato nutrendolo con la speranza, coi sorrisi, anche solo con la presenza fisica. […] Dolori, pillole, analisi, prelievi, visite e i pasti. Tutto fuori orario, l’ospedale era un microcosmo che obbediva a regole che niente avevano a che fare con la vita prima del ricovero. La scansione temporale serviva forse a distrarre i malati, a farli vivere in una dimensione diversa e assuefarli un po’ come si fa con le divise quando si parte per la leva. Tutti uguali, tutti anonimi, tutti con l’orologio della caserma. Andarsene al più presto da quella dimensione disumana e tornare alle proprie case era l’unico desiderio, pensiero fisso costante che abitava quei corpi stremati, anche nei sogni notturni.»

E questo Rocco lo sapeva benissimo. Lo sapeva benissimo come il fatto che le notti negli ospedali sono molto più lunghe dei giorni; sono tempo ininterrotto, interminabile. È il 26 dicembre e il vicequestore Schiavone ha appena subito un importante intervento chirurgico atto a salvargli la vita ma che gli è costato un rene. Quasi contemporaneamente alla medesima operazione, una nefrectomia radicale, è sottoposto Roberto Sirchia, il quale, non riesce però a sopravvivere alle procedure mediche attuate. Nei confronti di Filippo Negri, primario del reparto, scatta una denuncia per presunto errore medico: Sirchia, possessore del gruppo sanguigno 0 Rh negativo ha subito una trasfusione errata. Ma com’è possibile se nel sacco trasfusionale proprio quello era il gruppo contenuto? Tuttavia, per Rocco qualcosa non torna. C’è un odore strano, una strana puzza. Troppi sono i tasselli che non combaciano soprattutto se si considera che predetta operazione doveva essere effettuata già un mese prima al tragico evento e che era stata rimandata esclusivamente a causa di un peggioramento delle condizioni di salute del paziente.

«Dottor Negri, io e lei in fondo lavoriamo nello stesso campo. Lei deve evitare che una persona diventi un cadavere, io devo capire chi quel cadavere l’ha prodotto. Due anelli di una stessa catena. Le sue mani mi hanno salvato la vita, ora tocca a me.»

Con “Ah l’amore l’amore” torna in libreria Rocco Schiavone, eclettico eroe nato dalla penna di Antonio Manzini. I fatti ripartono esattamente dal dove li avevamo lasciati e cioè da quella sparatoria sul piazzale della ditta Roversi, quando, il vicequestore, insieme alla sua squadra, aveva portato a termine l’arresto della banda di falsari e rapinatori responsabili di un duplice omicidio a Saint-Vincet. Enigma ancora irrisolto riguardava quella pallotta sparata da non si sa chi e che con il suo incedere aveva gravemente ferito il funzionario di polizia. Pallottola, questa, che lo porta ad una degenza obbligata che lo vede comunque in prima linea con un’indagine che può apparentemente essere ricondotta ad un caso di malasanità. La trama che si snoda tra le pagine è solida e intrigante, il giallo ben orchestrato così come la linea narrativa che è logica e ben costruita. Manzini, tra le righe, sottopone al lettore anche molteplici riflessioni su quella che è ad oggi la dimensione ospedaliera sempre più ridotta ad una gestione amministrativa di un’azienda più che ad un luogo all’interno del quale curare le persone. La burocrazia, cioè, regna sovrana e detta regole imprescindibili e insindacabili per ogni membro del personale e della degenza. Ancora, l’autore si interroga e ci interroga sui valori umani, sui principi, sulla forza della memoria e sul denaro che è una costante che spesso può portare a compiere gesta di dubbia moralità.
In conclusione, un degno seguito della serie, un libro piacevole e scorrevole che non mancherà di conquistare il cuore degli appassionati.

«Quando uno ha un rapporto esclusivo, tende a cacciare tutto e tutti, il mondo intero. È quello che abbiamo fatto. Solo che il mondo poi rientra da una finestra, e te la fa pagare. Ti ricordi?»

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    17 Gennaio, 2020
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Fiducia

Ventotto anni. Giovane, bella, carismatica era Franci. Era perché di lei ormai non resta che un corpo privo di vita, un corpo nudo ucciso da un fendente in pieno cuore, un corpo ucciso a poche ore da quello che sarebbe stato il suo matrimonio con Giovanni Sorbo, figlio incensurato (laureato in economia, residente a Milano e prestante attività lavorativa in una importante filiale bancaria del milanese) del boss dell’omonimo clan mafioso. Uno dei più importanti, uno dei più potenti. Come dunque non sospettare immediatamente di una sua responsabilità nell’uccisione della ragazza? Anche indiretta, ma pur sempre una responsabilità. Lojacono e la sua squadra, coadiuvati da Laura Piras, non sono però convinti di questa prima ricostruzione. Troppo semplice ma soprattutto c’è qualcosa che non torna. Gli abiti ripiegati in perfetto ordine, il luogo del ritrovamento in prossimità della grotta degli innamorati ma pur sempre in pieno territorio di criminalità organizzata, il fatto che la vittima non abbia reagito così da far pensare ad una fiducia mal riposta. Le indagini proseguono e con esse i pezzi di un puzzle che cerca di essere ricostruito tra il dolore dei familiari, del cugino, della di lui moglie e della di lei migliore amica, dei singoli personaggi dei bastardi di Pizzofalcone che tra un tassello e l’altro vivono le loro così diverse vite. Vite fatti di amori che non possono sbocciare, di amori che non possono essere dichiarati, di amori che tardano a trovare la loro luce, di amori che devono ricostruirsi per un bene superiore.

«Due più due. Alla fine, è sempre questione di due più due. Voi nel vostro mestiere fate così, no? Mettete in fila le cose, le sommate fra di loro e traete le conclusioni. E pensate pure che siano oggettive, le conclusioni. Che invece, ve lo posso garantire, sono spesso figlie del pregiudizio.»

Quello orchestrato in “Nozze” da Maurizio De Giovanni è un giallo dai tratti tipici dell’autore e al contempo composto da un mistero che ben si interfaccia e intermezza con le varie vicissitudini personali che riguardano ciascun protagonista. L’opera è dunque caratterizzata da un buon ritmo narrativo, rapido e fluente, a cui si affianca una trama compatta e ben costruita seppur sia facilmente intuibile chi sia il responsabile dell’omicidio. Ad ogni modo il testo è di piacevole lettura, porta avanti le avventure dei personaggi in modo lineare e senza eccessivi colpi di scena ed è capace di affrontare anche tematiche sottese quali, appunto, il non fidarsi delle apparenze, del pregiudizio. Forse non il migliore dello scrittore ma godibile.

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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    26 Dicembre, 2019
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Giocare con l'ambiguità

Due gemelle: Calli e Carme tanto uguali esternamente che è difficile distinguerle. Il fidanzato di Carme abbraccia la sorella sbagliata per errore, o perché è quello che vuole veramente. Il capitano e mentore di Calli per essere sicuro di parlare con la persona giusta tasta il polpastrello della ragazza dove sa che deve esserci una cicatrice. I loro genitori le scrutano pensierosi e eludono domande dirette. Una vita stana è quella di queste donne cresciute in una base della Nasa e abituate ai segreti: quelli dei genitori che non possono parlare dl loro lavoro e quelli che hanno tra loro. Così ugual all'esterno, ma così diverse, quasi incompatibili dentro. Si conoscono poco, o forse così bene da dubitare l'una dell'altra ma nonostante tutto da decidere di rischiare carriera e affetti pur di aiutarsi. Quando entrambe decidono di iniziare una carriera all'interno di organismi militari le cose si complicano. Le parole che non si possono dire, ma forse solo accennare prestando attenzione a microspie e a orecchie indiscrete diventano sempre di più. Niente di strano quindi se ci sono partenze improvvise o se qualcuno della famiglia Chase rimane assente senza spiegazione per lunghi periodi. Più strano invece che un generale con quattro stelle faccia domande su Carme senza dare ulteriori spiegazioni, Strano anche che alla vigilia di due importanti missioni spaziali che dovranno essere coordinate da Calli un badge venga rubato, qualcuno faccia scattare l'allarme di un sotterraneo segreto e la proprietaria del badge scomparso decida di suicidarsi in modo alquanto complicato. Da qui partono le indagini di Calli: una specie di factotum della Nasa esperta di cybersicurezza, ma attiva anche nel collaborare a indagini che esulano dai suoi compiti principali. Sullo sfondo sua sorella, il rapporto che lega le due ragazze e uno strano episodio che le ha viste coinvolte nell'infanzia. In primo piano le indagini che sembrano portare verso Carme e come contorno segreti di Stato, depistaggi e operazioni di facciata che nascondono altro.
Direi che la signora Cornwell si sia abbastanza discostata dai romanzi della serie di Kay Scarpetta. In realtà in Calli Chase che da come finisce il romanzo probabilmente diventerà una nuova investigatrice seriale, vedo molto di Lucy Farinelli, la nipote della dottoressa Scarpetta. L'ambientazione e le caratteristiche degli altri personaggi però sono abbastanza nuovi. La trama è piuttosto contorta: sembra quasi che l'autrice abbia voluto mettere troppe cose in poco spazio. Inoltre, pur tenendo conto che parlando di servizi segreti ad alto livello ci si può sbizzarrire con la fantasia mi sembra che si tocchino livelli di irrealtà abbastanza elevati. Finale aperto, anzi apertissimo, senza vere risposte e che rimanda al prossimo volume. Abbastanza deludente per me questo aspetto. Tanto impegno per rimettere assieme tutti gli indizi e le mezze informazione che la Cornwell ha seminato nel corso del romanzo, per poi rimanere a bocca asciutta.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    23 Dicembre, 2019
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Genesi

“Sbalorditivo. Un thriller avvincente e implacabile”. Questa è la marchetta stampata, neanche dietro, ma sulla copertina di questo romanzo; a pronunciarla non un fesso qualsiasi, ma un maestro del genere quale è Don Winslow. Lasciando perdere l’altra marchetta di Michael Connelly (che rivolta a questo romanzo mi pare una balla, perché c’è pochissimo se non nulla di propriamente originale), la marchetta di Winslow andrebbe studiata a fondo. Lungi da me andare oltre l’obiettività, ma definire sbalorditivo questo romanzo mi sembra eccessivo; la scusante che offro all’autore della marchetta è che, considerata la somiglianza tra il modo di scrivere e la storia raccontata da Hamilton proprio con Winslow, volesse salvaguardare sé stesso. Non puoi dire, di un autore che ti somiglia in maniera evidente, che fa schifo. Io apprezzo Winslow e ho trovato questo romanzo - sotto certi aspetti - molto simile al suo “Corruzione”, pur considerando quest’ultimo di gran lunga superiore.
Tutto questo per dirvi: non fidatevi troppo delle marchette, anche se a pronunciarle dovesse essere lo spirito di Dostoevskij.
Tornando al romanzo, pur non essendo sbalorditivo è comunque una lettura che si fa in breve tempo, sia per la sua scorrevolezza sia per la inusuale brevità, per un romanzo del suo genere. Una buona lettura da fare sotto natale, senza impegno, anche se secondo me un periodo come questo si presta benissimo a letture più impegnative e profonde; ma non siamo tutti uguali. In fondo questo libro può rappresentare il principio di una serie in grado di regalare buone soddisfazioni agli amanti del noir-thriller di stampo americano e soprattutto a chi apprezza gli autori delle marchette che lo accompagnano, e cercano una nuova serie di genere da seguire.
Tuttavia, prima di procedere all’acquisto di questo romanzo, voglio darvi alcune avvertenze. Primo, non aspettavi una grande profondità di contenuti: siamo alle prese con un’opera di puro intrattenimento, tutta azione, senza particolari guizzi e con qualche forzatura fatta al preciso scopo di mettere tutti i tasselli al proprio posto, di posizionare gli elementi su cui si fonderà la serie che l’autore ha in mente (e che, se non sbaglio, ha già una seconda pubblicazione oltreoceano). Secondo: pur incuriosendo e raccontando una discreta storia di genesi, gli eventi narrati non hanno granché di originale (e qui torniamo alla marchetta truffaldina), sono un po' triti, senza colpi di scena da mascella spalancata.
Riassumendo, una lettura piacevole che vi consiglio solo se amate il genere, se vi piacciono i romanzi in serie e ne cercate una nuova da seguire.

Nick Mason è rinchiuso in un carcere, accusato di omicidio, e pare che dovrà restarci ancora per molto tempo. In prigione la sua vita scorre sempre uguale, senza che nessuno gli causi particolari problemi, ma anche senza nessuno che vada a trovarlo o gli faccia una telefonata. Sua moglie le ha chiesto il divorzio tramite un avvocato, senza una parola, senza un cenno, tenendolo lontano da sua figlia Adriana e non permettendogli di vederla neanche una volta.
Nick Mason non ha molto per cui vivere, se non sé stesso.
Il momento di svolta è l’incontro (forzato) con Darius Cole, che si interessa di lui per chissà quale oscura intuizione e decide che è l'uomo giusto per svolgere dei lavori scomodi per lui. Cole, infatti, è un boss di Chicago il cui potere non è stato scalfito dalla sua detenzione; tuttavia, considerata la sua distanza geografica, ha bisogno di un braccio armato che continui a far rispettare le sue regole in città. Quel braccio sarà proprio Nick Mason; Cole non sarà abbastanza potente da scarcerare sé stesso, ma lo è abbastanza da far uscire lui e costringerlo a fare quel che chiede.
Nick uscirà di prigione, scagionato dalle accuse, ma da quel momento non sarà comunque libero. Avrà una seconda vita da vivere, ma sarà una vita che appartiene totalmente a Darius Cole.

“Non ho bisogno di farmi degli amici qui dentro. Quando ti fai un amico, i suoi nemici diventano tuoi nemici. Non ne ho bisogno.”

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Corruzione di Don Winslow
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Romanzi
 
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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    19 Dicembre, 2019
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Teresa vuole fiducia

Pietro è un uomo particolare, premiato dalla vita da un fascino oscuro e a volte eccessivo che fa sì che uomini e donne siano ben disposti nei suoi confronti, che gli dà straordinaria facilità di relazione e di relazioni, straordinario successo quando pubblica libri zeppi di luoghi comuni dato che pure i suoi libri godono del suo fascino.La sua immagine è quella di un uomo tranquillo, che sa ascoltare e che mette gli altri a loro agio. Gli uomini desiderano essergli amici e le donne avere relazioni con lui, spesso relazioni erotiche ma per non sapere immaginare di meglio, dato che il suo fascino non è tanto di tipo erotico quanto affettivo. Le donne vorrebbero legarsi a lui il più strettamente possibile e sognano di dormire sulla sua spalla. (Forse l'effetto dei suoi libri sulla scuola?). Ma non tutte le donne soffrono di tale mancanza di fantasia. La sua fidanzata Teresa gli propone un legame basato sulla reciproca confidenza di un segreto terribile. Dopo la confidenza ognuno avrà in mano la serenità dell'altro.Dopo la confidenza i due si lasciano e Pietro sposa Nadia. Nadia è anche lei vittima del suo fascino, ma dato che moglie, quindi legata a lui in modo particolare, è vittima in altro modo, nel senso che si sente oscurata dal suo fascino, relegata alla condizione di madre e di serva,per di più è frustrata nelle sue legittime ambizioni di carriera dato che a lei va tutto male. Nel matrimonio iniziano crepe e screzi e insoddisfazioni da ambo le parti che lo metterebbero a rischio se non tornasse in ballo Teresa con una idea nuova relativamente, nel senso che è una propaggine della precedente idea del reciproco scambio di confessioni: il matrimonio etico. Ognuno di loro userà il segreto come arma di ricatto per costringere l'altro a comportarsi bene. Lei in particolare veglierà sul matrimonio di Pietro. L'idea è abbastanza inusuale. Pietro non sa se fidarsi di Teresa, la ritiene pazza pericolosa e capace di tutto. Ma a tratti la fiducia affiora nonostante il ricatto etico e quando affiora le cose vanno bene. In fondo Teresa vuole solo tenersi una persona mal gestibile come Pietro senza fare la fine di Nadia, aiutando lui e Nadia a essere felici per quello che possono a distanza. Vuole ritagliarsi un ruolo nel suo cuore, o meglio nella sua testa, un ruolo di amica disinteressata. E' una donna intelligente, dunque dubita del cuore di Pietro latitante in tutti i suoi rapporti perchè anaffettivo- e vuole aiutarlo da lontano, dato che la sua vicinanza è pericolosa. Però questo rapporto richiede fiducia e la confessione iniziale comporta paura. Da qui la difficoltà ad andare avanti. E' ovvio che occorre un salto nel buio: la scelta a priori della fiducia da parte di Pietro. In fondo, Teresa gli ha già chiaramente dimostrato di tenere a lui e di non essere una minaccia. Ma la sfiducia può ribaltare le cose.
Il libro ha un incipit bellissimo, una trama insolita. Emerge una scrittura da maestro e una trama un po' lontana dalla vita, un po' astratta. Le relazioni di Pietro sono poco credibili dato che passa da un amore all'altro nel giro di poche righe e questo disturba il lettore che vorrebbe credere a quello che gli viene raccontato ma non può. Perciò il testo è più un gioco intellettuale piacevole che un racconto verosimile. Probabilmente non si sforza nemmeno di esserlo, all'autore piace più l'idea astratta e la scrittura della vita.

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Gialli, Thriller, Horror
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    18 Dicembre, 2019
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Cullen Post e i Guardian Ministries

Torna in libreria John Grisham con un personaggio fuori dagli schemi e tutto da scoprire. Il suo nome è Cullen Post e il suo più grande traguardo è stato quello di creare la Fondazione denominata Guardian Ministries per garantire una difesa a tutti coloro che sono stati ingiustamente condannati. Raggio d’azione, Florida. Due le collaboratrici fidate a cui si aggiunge un altro personaggio con un passato molto particolare e che a sua volta è stato tra i primi ad essere salvato da una condanna sproporzionata e a suo danno. Come sopravvive la Fondazione? Con i proventi ricavati da benefattori che ne stimano l’attività e l’impegno.
Laureato in legge, prete della chiesa episcopale, con un matrimonio finito male alle spalle e un carattere estremamente particolare, Mister Post è consapevole delle difficoltà e delle contraddizioni intrinseche a quella società in cui vive e fatta di una dicotomia che vede agli antipodi la massima ricchezza e di contro l’estrema povertà. Anche per questo motivo non poteva sottrarsi alla difesa di Quincy Miller, giovane di colore scampato per miracolo alla pena di morte ma comunque destinatario di una condanna all’ergastolo per la presunta uccisione di un avvocato dai dubbi traffici che, una ventina di anni prima, gli aveva fatto perdere la causa di divorzio. Tuttavia, nella ricostruzione dei fatti tanti sono gli elementi che si contraddicono e che dunque fanno pensare ad un omicidio commesso da altri e attribuito al capro espiatorio per eccellenza. Ma come muoversi in quello che è un terreno intriso di mine ed altamente pericoloso? Perché dietro la facciata si celano loschi traffici che indisturbati continuano a palesarsi e che vedono coinvolta una rete molto ampia e fatta di autorità locali e poliziotti corrotti fin nel midollo. L’opera di ricostruzione deve avere luogo partendo da quei testimoni e dalle loro false dichiarazioni, deve avere luogo ripartendo da quei documenti contraffatti o nascosti o alterati a seconda delle circostanze più eterogenee.
Che dire, in questo legal thriller gli elementi che hanno portato a far amare Grisham ci sono tutti. La trama è molto originale e solida, i personaggi ben costruiti e capaci di conquistare per la loro grande eterogeneità e diversità rispetto alle canoniche figure che siamo abituati ad incontrare, le vicende sono ben articolate e lo stile narrativo è rapido e incisivo.
L’opera, inoltre, lascia molto spazio all’aspetto legale più che a quello thriller. Vengono ampiamente descritte le fasi di preparazione e di rianalisi del processo, vengono articolate le varie e nuove tecniche investigative nonché le pratiche più e meno comuni di escussione dei teste per ottenere quella determinata x o y prova risolutiva mentre difettano gli aspetti più tecnicamente thriller.
Forse non il miglior libro di questo autore ma certamente il migliore degli ultimi anni. Una lettura consigliata sia agli amanti del genere che non.

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Romanzi storici
 
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archeomari Opinione inserita da archeomari    13 Dicembre, 2019
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Qualunque artista sogna di cambiare il mondo

Qualunque artista sogna di cambiare il mondo, di migliorare la vita e l’anima degli altri, con le proprie opere. E io, a modo mio, l’avevo fatto”.

Plautilla Briccia, figlia dell’eclettico ed inquieto Giano Materassaio, racconta la sua vita in prima persona, dai primi ricordi dell’infanzia agli ultimi momenti . Un testamento di forza, di coraggio, di passione per l’arte e di desiderio di riscatto sociale. Ultimo lavoro di Melania Mazzucco, una scrittrice italiana tra le più amate ed apprezzate (oltre che pluripremiate) che torna al suo cavallo di battaglia : il romanzo storico.

Dal concepimento alla stesura di questo romanzo la scrittrice ha speso più di un decennio di ricerca in vari archivi e biblioteche. Sul sito Einaudi la Mazzucco ha reso disponibile un fascicolo di 27 pagine di bibliografia dei luoghi, delle persone, delle opere citate, per gli scrittori e gli studiosi che vorranno avvalersene per approfondimenti, poiché tutti i personaggi, anche quelli minori, sono realmente esistiti.

Il libro è abbastanza voluminoso, ma la lettura è veramente godibile ed interessante la trama. È uno di quei romanzi che fanno compagnia e che dispiace terminare.

La narrazione si snoda in un doppio filo temporale: quello principale e più ampio che comprende le vicende di Plautilla dal 1624 al 1678 e quello più piccolo degli “intermezzi” (così chiamati nel libro) posti alla fine di ogni capitolo che narrano gli eventi dell’estate della Repubblica romana del 1849, con Garibaldi che, dopo essere passato per porta San Giovanni era volto all’inseguimento delle truppe dell’esercito napoletano. I capitoletti “lampo” degli intermezzi hanno la loro ragion d’essere nella presenza dell’ imponente Villa Benedetta, la grande Villa, il sogno di Plautilla chiamata dai soldati che lì si rifugeranno, il Vascello, per via della sua forma ad imbarcazione. Potete ammirare la Villa e le opere di Plautilla Briccia negli inserti illustrati del libro, che rendono prezioso il volume, graficamente ben curato.

Un’opera di grande respiro, sia per la ricchezza di personaggi in cui si imbatterà Plautilla, sia per la poderosa ricostruzione storica. La rigorosità è protagonista insieme all’architettrice: personaggi calati perfettamente nell’epoca e nel contesto di una Roma barocca del Seicento, l’epoca dell’arte fastosa e capziosa, l’epoca in cui la Chiesa cattolica rispose alla “sfida” della riforma luterana costruendo chiese e cattedrali maestose e imponenti, per riconquistare i suoi fedeli catturandoli col piacere delle immagini e dei racconti visivi. Un terreno narrativo fertile per raccontare di intrighi, di miserie, della quotidianità della morte, di bigotteria e di libertinaggio, di pittori “posseduti dal colore” come Pietro da Cortona e il Bernini che dominano la scena artistica e culturale della Roma di quel secolo.
È questo il contesto in cui vive la nostra “architettrice”, la nostra Plautilla. Educata dal padre, uno scrittore di libelli molto amati dal popolo, snobbato dagli ambienti aristocratici, la protagonista non solo riuscirà ad uscire dall’umile ruolo di decoratrice di arredi, ma, grazie all’aiuto di Elpidio Benedetti, giovane abate al seguito del famoso cardinale Mazzarino, si farà strada tra le famiglie più importanti di Roma dipingendo quadri a tema religioso fino a realizzare il suo sogno più grande :

“Diventare architetto, (...) trasformare un disegno in pietra, un pensiero in qualcosa di solido, perenne. Tirar su una casa. Scegliere le tegole del tetto e il mattonato del pavimento. Immaginare facciate, cornicioni, architravi, logge, scale, frontoni, prospettive, giardini. Per quanto ne sapevo, una donna non l’aveva mai fatto. Non esisteva nemmeno una parola per definirla”.

Ma come in tutte le grandi cose, c’è un prezzo alto da pagare, un sacrificio grande e, per una donna, un percorso ancora più difficile e doloroso. “L’arte non si concilia col fardello del matrimonio” le aveva detto suo padre e lei non potrà mai scoprire la gioia di essere amata nel senso pieno del termine, di avere tra le braccia un figlio, carne della propria carne, che non sia uno dei figli della sorella Albina, morta dopo il settimo parto. La Mazzucco ha una penna versatile e scorrevole che sa descrivere anche le scene più crude e dolorose, i particolari più cruenti e realistici di un mondo dove la morte faceva parte della quotidianità delle famiglie, dove i bambini che riuscivano a superare i cinque anni di età potevano sperare di diventare adulti, dove le donne invecchiavano a trent’anni per i troppi parti, tenute lontane dal mondo della cultura perché considerate inferiori all’uomo intellettivamente. La storia di Plautilla, riesumata dalla polvere dei secoli, ci viene restituita in tutta la sua straordinarietà dalla penna di Melania Mazzucco insieme ai colori ed ai fasti dei personaggi che hanno fatto la storia di Roma e dell’arte barocca.

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La lunga attesa dell’angelo, Melania Mazzucco
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Romanzi autobiografici
 
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    13 Dicembre, 2019
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L'atelier di una fabbricante d'angeli



Questa donna non finisce mai di stupirmi, ha la capacità di spogliarsi completamente e di rimanere così, nuda, inerme e disarmata al centro di una grande piazza piena di gente, ignara del freddo e degli sguardi altrui, perché assolutamente consapevole della sua nudità e dell'importanza del suo gesto.
Questo fa la Ernaux con ogni suo libro.
Ci offre la sua vita.
Ogni volta un pezzettino in più, ogni volta un dolore diverso.

Queste pagine sono tremende.
Ci raccontano di una notte del '64 in cui, nella stanza 17 dello studentato femminile a Rouen, una giovanissima Annie ha vissuto un'esperienza di vita e di morte.
Quella dell'aborto.
Clandestino.
La disperazione di una ragazza di 23 anni alla ricerca di qualcuno che l'aiuti a commettere "un reato", disposta a tutto pur di non avere quel bambino, anche infilarsi dentro un ferro da calza, da sola...senza però avere il coraggio di andare fino in fondo.
Quando si spegne ogni speranza di trovare un medico disposto ad aiutarla, non le rimane altro che affidarsi ad una "fabbricante d'angeli"...una mammana...una donna che, in qualche modo, l'ha fatta nascere come altro da sé, ha fatto di lei una donna diversa.
Una donna che, in una sola notte, ha perso il corpo della sua adolescenza, un corpo vivo e segreto, un corpo tutto suo, e si è ritrovata esibita, divaricata,  abrasa...esposta al giudizio.
Sì, perché questo libro non è semplicemente il racconto di un aborto, ma molto di più...è la voce di tutte quelle donne a cui è stato negato un diritto, che hanno rischiato (ed anche perso) la vita per rivendicare una scelta inalienabile.
Privarle di tale diritto è semplicemente "violenza".
La violenza di dover fare tutto da sole, e in fretta: trovare qualcuno disposto ad infrangere la legge, trovare i soldi, ingoiare in silenzio tutto il dolore, e sperare di non morire dissanguate sul tavolo di una cucina o in un bagno per studentesse...

Viviamo ancora oggi in una società che guarda l'aborto, seppur legale, come "il male", come omicidio...e la gravidanza, anche quando non è desiderata, come una benedizione, un regalo, qualcosa per cui gioire...sempre e comunque.
E non è così.

La Ernaux ci dona, come sempre alla sua maniera, affilata, e senza nessun artificio letterario, un'esperienza che, passando attraverso il suo corpo, si fa universale e tocca la sensibilità di tutti.
Per qualcuno questo racconto potrà essere irritante, fastidioso, addirittura osceno, ma l'autrice ci dice: "se non andassi fino in fondo nel riferire questa esperienza contribuirei a oscurare la realtà delle donne, schierandomi dalla parte della dominazione maschile del mondo".
Questo libro sarà esposto al giudizio esattamente come lo è stato il suo corpo all'Hotel-Dieu, la notte in cui l'hanno salvata dall'emorragia...
Questo libro è proprio come la sua scrittura: necessario.


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...a chi ama la scrittura affilata e diretta della Ernaux.
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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    13 Dicembre, 2019
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Storie di avventurieri

Vendo tutto e mi trasferisco su un'isola tropicale, aprirò un bar o qualche altra attività e mi godrò la vita in infradito, costume e una bevanda fresca in mano ammirando su una spiaggia bianchissima le tonalità di blu di un mare incontaminato. Lì la vita è più semplice, il costo della vita basso etc etc... Eh, in quanti non l'abbiamo pensato almeno una volta nella vita?! Pensiero frequente, soprattutto nei momenti più difficoltosi in cui si vuole cambiare radicalmente la propria vita... ecco, se dovesse far nuovamente capolino questo pensiero intimo, leggete questa breve raccolta di racconti e presto cambierete idea. Apprezzerete le difficoltà attuali e sicuramente vi aiuterà a reputarvi fortunati.

"Sono storie di gente che quando era partita era piena di entusiasmo, di vita, di speranze, di progetti, e che i tropici hanno ridotto in uno stato che... Che cercherò di spiegarvi più avanti! Capite allora perché, durante i miei viaggi, mi è rimasto un debole per gli adorabili falliti in Francia? Quasi dei falliti da commedia, falliti fortunati, insomma, in confronto ai falliti dell'inferno..."

Con uno stile asciutto ma anche agghindato di immagini poetiche e nostalgiche, la presente raccolta di Simenon, frutto dei suoi viaggi "esotici" in cui è stato testimone diretto o indiretto delle sventure raccontate, si presenta come una raccolta molto compatta, quasi come se fosse un breve romanzo sviluppato sul tema della sfortuna (da cui si collega anche il titolo "La cattiva stella") che spesso accompagna chi si avventura in queste imprese, infatti l'autore preferisce chiamarli avventurieri e non falliti perché "Erano uomini che aspiravano a una vita più vasta, più libera, e che non hanno esitato a lasciare tutto per tentare l'avventura.". In molti scritti oppure nelle leggende, questi avventurieri tornano in patria ricchi, da eroi insomma ma nei suoi viaggi Simenon non ne ha incontrati nemmeno uno, anzi, tutto il contrario.

"Non c'è niente di più triste per me che vedere, in una regione popolata di negri, di indios o di canachi, un bianco, uno dei nostri, ridotto in uno stato più miserabile del più miserabile degli indigeni. In questi casi si crea una solidarietà di razza. Ti vergogni per l'Europa, per te stesso."

Una sorta di inno agli illusi avventurieri che, nonostante il coraggio e la tenacia, non hanno minimamente realizzato i loro progetti ma sono andati o andranno incontro a una morte ignobile. Un velo di tristezza alleggia dunque tra le righe ma riesce a essere smorzato da situazioni che risultano comiche perché paradossali e grottesche, come ad esempio l'usanza delle donne indigene (tra l'altro bruttissime) di salire in cima a una palma per far vedere le loro "grazie" nel minimo dettaglio per conquistare l'uomo che desiderano, che a sua volta dovrebbe arrampicarsi a raggiungerle. C'è anche del macabro in alcune scene e l'ambientazione si presenta spesso soffocante dall'umidità e dalla calura, fitta di foreste impenetrabili e di insetti inclementi che non danno mai tregua, un ambiente respingente e selvaggio contro il quale è difficile vincere. Non solo l'ambiente è ostile ma lo è anche la società che seppur selvaggia è comunque presente, costituita da leggi, gendarmi ed esattori e tu da straniero parti svantaggiato. C'è chi ce l'ha fatta, ma molto pochi e la differenza rispetto a chi fallisce a Parigi o a Londra è che nel primo caso il fallito è morto, impazzito o rinchiuso in qualche galera tropicale, nel secondo caso magari non farà grande carriera ma almeno potrà diventare un uscire o un venditore di biglietti autobus e vivere in una città colorata da luci di caffé, godere del sorriso di una bella ragazza e contemplare una bella giornata primaverile.

"Ecco ciò che più mi premeva dire, ciò che secondo me bisogna dire: è finita l'epoca in cui il mondo era troppo grande per l'uomo. Il mondo è diventato troppo piccolo, e in Africa come in Asia, nel Pacifico come in pampa, l'avventuriero si sente stretto all'angolo. Gendarme ed esattore! Tutto il resto è letteratura, e cattiva letteratura perché manda allo sbaraglio tanti bravi ragazzi, che meriterebbero di meglio."

Un penna sapiente quella di Simenon che crea il giusto equilibrio tra descrizioni ambientali, approfondimenti psicologici e sociali, personaggi ben descritti a volte in pochissime righe ma molto incisive, utilizzando una prosa limpida e priva di retorica.

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C.U.B. Opinione inserita da C.U.B.    09 Dicembre, 2019
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Vade retro

Giovanna allontanati, non dovresti ascoltare voci nascoste da porte socchiuse.
La bimba che sei stata sta sfuggendo. Domani sarai turbata, lacerata, confusa.
Annasperai in un passato impostore alla ricerca di radici, riflessa nello specchio l’immagine di colei che portava sul dorso la lettera scarlatta. Cosa e’ stato di noi e cosa ne sarà.
Il mondo degli adulti si dischiude veloce su un panorama di piccole e grandi bugie, dolore e delusione forgiano la donna che incarnerai.

Letta l’opera omnia di Ferrante, l’apprezzai quando eravamo in pochi, rispetto ad oggi.
Non sempre erano letture stellari, ma io l’amavo. Amavo l’elettricità. Le scosse che mi sferzavano ad ogni libro e con lei, con loro, io pure mi ferivo e crollavo e soffrivo e poi risorgevo e stavo meglio.
Una scrittrice verace, vitale, viva.
Poi quest’ultimo romanzo e mio malgrado devo constatare, di nuovo e con orrore, di quanto sia mortificante la differenza tra un autore famoso ma non glorioso, che scrive per passione e per virtù ed un autore che ha raggiunto un successo sfavillante e scrive per sfamare il momento propizio.

Esclusa la partenza briosa, il libro narra con uno stile piatto ed oltremodo ripetitivo una carrellata di luoghi comuni. I dialoghi sono di una banalita’ imbarazzante, i personaggi sono privi del taglio realistico per cui l’autrice mi era ben nota.
Napoli, che si presta alla prosa e alla poesia pure di un analfabeta, qui trapela solo per un breve tratto di grigia periferia e poi e’ uno stradario arido ed asettico. Mancano l’arte, gli odori, i sapori, i rumori, i colori. Siamo a Napoli, senza Napoli.
Pruriginosi i profili delle donne che ne emergono, confinati in un mondo di poligamia maschile. Cornute e mazziate, perennemente ingannate, fragili, promiscue nell’accettare l’uomo condiviso, arrese al martirio di colombella abbandonata. Colte e non scolarizzate, egualmente esanimi sotto lo stesso cielo ombroso.

A meta’ strada tra un romanzetto per adolescenti e la trasposizione di un corposo fotoromanzo anni Novanta, si presta senz’altro benissimo quale copione per la prossima telenovela sudamericana in mondovisione.
Scritto dal Re Mida del momento, lascio l’uovo d’oro a chi apprezza il freddo metallo.
Io torno volpe per pollai, a stanare la letteratura che vive di esseri animati, di paglia e del tepore di un uovo che senza clamore, se ho fame, sa pure sfamarmi.

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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    08 Dicembre, 2019
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L'ispettore Francesco Bagni

Torna l’ispettore Francesco Bagni, già protagonista de Trilogia della città di M e La strategia del gambero, ora in Anello di piombo. L’ispettore, creatura di Piero Colaprico, è nato in Svizzera, è un ottimo e deduttivo investigatore, ma è anche un uomo profondamente solo, in preda ad un dolore sofferto, perenne, senza sbocchi. Infatti:
“Non aveva paura, Bagni . Provava in quel momento una profonda solitudine. Una solitudine assoluta, nella quale s’avvolgeva sin da piccolo. Non era un problema essere solo. Il problema era che intorno a lui, e alla memoria di Nesi, si stava delineando una sigla misteriosa e fetente, chiamata Anello.”
Un dolore, una mancata elaborazione di un lutto particolare: quella del suo maestro e mentore Nesi Sebastiano, detto Tanone, morto anni prima mentre stava conducendo un’inchiesta assai delicata. Infatti indagava sulla strana morte dello psichiatra Eleuterio Rupp, ucciso a Milano negli anni Ottanta. Chi voleva la morte di uno psichiatra all’apparenza irreprensibile? Forse la moglie,
“Bella come una montagna di ghiaccio”,
o c’è dell’altro? Perché poco dopo scompare un libro dal suo studio? E quale significato ha la riproduzione dell’uomo Vetruviano posizionato alle spalle nello studio dello psichiatra?
Tutti quesiti che il suo defunto superiore affida ad un diario che Bagni sta affannosamente, anni dopo, leggendo, cercando di arrivare, finalmente, a fare chiarezza. Si scontra però con i segreti, le omissioni di uno stesso Stato che non riconosce più come suo:
“aveva parlato della teoria del Doppio Stato: uno Stato legale, che mostra la sua faccia, la sua debolezza e la sua forza; e uno Stato occulto, illegale, dove non contano i ruoli ufficiali, ma altri poteri.”
Una lettura avvincente, scritta adoperando uno stile che coinvolge e trascina con curiosità. La descrizione di uno spaccato di vita passata, che però tutt’ora presenta lati oscuri ed inquietanti:
“ Da quando il comunismo stava crollando come sistema. Da quando quel balordo del papa polacco era sfuggito all’attentato dei bulgari, da quando Cosa Nostra era diventata un sostegno ingombrante e imbarazzante, da quando Giulio Andreotti era stato fottuto da Bettino Craxi e il ministro degli Interni, primo o poi, non sarebbe stato più espressione della parte di Democrazia Cristiana più legata al mondo della Nato. Sia i vecchi equilibri sia uno come lui contavano sempre meno.”
Una bella lettura, trascinante e fascinosa, precisa e coinvolgente. Un testo che fa riflettere sui tanti misteri che ancora attanagliano il nostro bel Paese.

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A chi voglia approfondire il personaggio dell'ispettore Francesco Bagni può leggere: Trilogia della città di M e La strategia del gambero
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    08 Dicembre, 2019
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L’insonnia uccide

Non è certo il miglior Tahar Ben Jelloun quello che è tornato di recente in libreria, ancora una volta accompagnato dalla casa editrice “La nave di Teseo”, a circa un anno di distanza dalla pubblicazione de “La punizione”. Stavolta, la vicenda narrata si presenta del tutto diversa rispetto a quella autobiografica del romanzo dello scorso anno che ci aveva reso partecipi di quanto accaduto allo stesso autore quando era studente e a tanti altri giovani come lui nel Marocco della metà degli anni Sessanta, sotto il regno di Hassan II.
Anche “Insonnia” ci riconduce nel Paese maghrebino, dove uno sceneggiatore di Tangeri combatte, stremato, una lotta ormai quotidiana contro il suo cronico stato di veglia. Trama, per certi aspetti, non priva di originalità né di ingredienti mirati ad alimentare la curiosità del lettore, dal momento che l’anonimo io narrante protagonista, per riuscire a dormire, inizia a uccidere periodicamente, cosa che sembra concedere requie alle sue notti. Pur non essendo un delinquente, e tutt’altro che un uomo malvagio, cinico o insensibile, si ritrova all’improvviso dentro una spirale di morte (violenza, in questo caso, non risulta il termine più appropriato) che sembra creargli dipendenza ai fini del sonno. Per riposare ha bisogno di uccidere, anche se lui stesso non si definisce un assassino, ma un “acceleratore di morte” poiché le sue vittime, uomini e donne, sono per lo più persone di età avanzata, già moribonde con un piede nella fossa, al cui capezzale fa di tutto per trovarsi al momento cruciale dell’ultimo respiro; dà persino prova di sapersi fermare in tempo quando dubita che l’ora fatale sia giunta per l’apparente morituro di turno. Inoltre, come si accorge ben presto, più sono alti il livello sociale e il prestigio della persona di cui lui accelera il decesso, più i suoi PCS (punti credito di sonno) aumentano a dismisura garantendogli mesi, se non anni, di soddisfacente riposo notturno.
Attraverso una serie di bizzarre avventure, spesso al limite dell’improbabilità, Tahar Ben Jelloun ci racconta una storia di cui – secondo il parere della sottoscritta che pur adora questo grande scrittore – si sarebbe potuto fare tranquillamente a meno e che, alla fine, non lascia profonda traccia di sé. Siamo lontani dal livello qualitativo di romanzi come “Partire”, “Au pays” e il già citato “La punizione”, per non parlare del noto “Creatura di sabbia”, giusto per restare nell’ambito della sola narrativa. Non sono per niente d’accordo con la critica francese (France Inter) che ha definito questo nuovo lavoro dell’autore in questione “sorprendente e incalzante”, presentandolo addirittura come romanzo rivelazione dell’anno: il ritmo, tutt’altro che incalzante, si perde in una narrazione non sporadicamente piuttosto lenta, carica di riflessioni, ricordi e, a tratti, persino farneticazioni dovute all’insonnia. Del resto, chi ne soffre, in genere, non è proprio scattante. Anche del Marocco in sé, al contrario di quanto avviene in altri suoi libri, Ben Jelloun ci consegna poco o niente, semplicemente uno sfondo incolore che, fatta eccezione per qualche nome arabo e chiari riferimenti islamici, avrebbe potuto essere quello offerto da qualsiasi altro luogo. No, Tahar Ben Jelloun, che ho imparato ad apprezzare ormai da tempo, questa volta non entusiasma né convince appieno, capace com’è di ben altre prove.
Nel complesso, dunque, una lettura senza troppe pretese, di mero intrattenimento, buona magari a riempire, perché no, la notte di chi soffre d’insonnia.

“[…] La notte è così. Non abdica mai, piena di risorse e di tormenti. E io non sono in grado di trattare con lei. In fondo, nessuno ne è capace. Non è assumendo forti sonniferi che si vince la partita.”

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Romanzi
 
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archeomari Opinione inserita da archeomari    04 Dicembre, 2019
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Ritorno alla letteratura del viaggio

A partire dalla fine dell’Ottocento ad oggi la letteratura ha smesso di essere “letteratura del viaggio” per diventare invece “letteratura della fine del viaggio”. Con i mezzi di trasporto e, ancora di più, la rivoluzione digitale, la grande metafora del viaggio che ha alimentato le più grandi opere dell’umanità -poemi epici, la Divina Commedia, il Milione (per citarne solo pochi e rimanere in Europa...) ha perso col tempo il suo “valore di esperienza essenziale che aveva nelle società tradizionali” , come conoscenza, come crescita, a anche fuga ed evasione (rimando all’interessante fascicolo I rivista letteraria “L’asino d’oro”, maggio 1990, “Fine dei viaggi: spazio e tempo nella narrativa moderna”).
Peter Handke in questo nuovo libro, da lui definito “ultimo epos” come si legge nella seconda di copertina, riprende, sotto certi aspetti, il significato del viaggio, dello spostamento fisico, a piedi, alternato a brevi “strappi” di percorso su rotaie, in cui il cammino diventa scoperta o ri-scoperta, diventa un percorso interiore ed intimo.
Con uno stile inconfondibile, falsamente agile e diretto, poiché apparentemente scorrevole, ma che risulta poi denso di immagini, di simboli e di rimandi, costringe il lettore a concentrarsi sulle pagine, a rileggere molti passi sia perché superbamente poetici, visionari e paesaggistici, sia perché dalle righe irraggiano significati che richiedono ulteriori riflessioni.
Un ritorno alla letteratura come scoperta, ma con originalità.
L’ambientazione e la collocazione temporale sono contemporanee, ci sono riferimenti ad episodi della storia mondiale recente, strizzatine d’occhio alla cinematografia e alla musica moderne, ma le vicissitudini della “ladra di frutta” sono come marginali a tutto ciò. La narrazione è in prima persona: l’io narrante, un uomo in là con gli anni, decide di mettersi in viaggio, di lasciare la sua “baia di nessuno” e tornare ai luoghi del suo passato. Contemporaneamente anche una giovane donna, chiamata “la ladra di frutta”si mette in viaggio per ritrovare la madre, una bancaria in carriera che aveva deciso di abbandonare il suo lavoro. Due cammini che si sovrappongono generando coincidenze, esperienze uniche, epifanie, barlumi di vita autentica, veri e propri rapimenti dell’anima.
Già dalle prime pagine si respira un Handke meno cupo e funerario rispetto a ‘Infelicità senza desideri”, la sua penna crea magiche sinestesie che attivano i sensi del lettore: primi piani naturalistici, brevi però, si alternano ai pensieri e si inseriscono nel tessuto della storia. Indimenticabile l’immagine estiva con cui inizia il romanzo: tutto comincia con una puntura di ape, ai primi giorni di agosto

“Era - anche questo come sempre - un giorno di sole, almeno nella tarda mattinata, di inizio agosto, ma non ancora un giorno torrido, con un azzurro invariabile, alto e sempre più alto nel cielo. Neanche l’ombra di una nuvola -e se pure ce ne fosse stata una: ecco che si era già dissolta. Soffiava un vento leggero, tale da mettere le ali ai piedi, come spesso in estate veniva da ovest e ci si immaginava che dall’Atlantico si diramasse nella baia di nessuno. Non c’era rugiada da asciugare. Come accadeva già da una settimana buona, gironzolando la mattina presto per il giardino non si avvertiva nemmeno un sentore di umidità sulla pianta dei piedi, per non dire poi tra le dita”.

La puntura d’ape è il segnale: è ora di partire, è tempo di rimettersi in cammino e così l’io narrante decide di mettersi in viaggio e a raccontarci della “ladra di frutta”, anche lei in viaggio. Questa fantomatica creatura, ricostruzione di una fanciulla fuori dall’ordinario, che da bambina rubava frutta che trovava a portata della sua mano, da ogni ramo in cui capitava di imbattersi, è calata nel suo tempo (ama il rap, usa uno smartphone), ma allo stesso tempo è un’outsider, vive ai margini, è “invisibile”. Ed Handke gioca molto sulla visibilità/invisibilità di questa giovane, ora notata dalle persone, ora dimenticata, ora viva e reale ora personaggio immaginario. Ed anche il tempo, nonostante gli agganci ed i riferimenti con la contemporaneità sembra sospeso, anzi sembra completamente assente. Ci sono momenti in cui il tempo non conta...sembra di vivere in un sogno e Handke è il maestro dello straniamento.

“Già: per l’ennesima volta nella mia vita avevo visto proprio quelli che mi erano più vicini, e, mi si presentavano davanti in carne ed ossa, come dei fantasmi, totalmente diversi, particolarmente pallidi, estranei, anzi, proprio per il loro particolare vivo pallore, come persone particolarmente diverse. Anche coi miei figli mi è capitato (...)”


In questo libro il viaggio della “ladra di frutta” assurge a metafora dell’esistenza: il lutto, un’amica di infanzia ritrovata, l’amore, l’essere figlia. Un romanzo in cui il simbolico gesto di rubare un frutto e di non essere visti assume significati più profondi del piccolo furto in sé.

Nel romanzo tornano i paesaggi (e termini) cari all’autore: la Piccardia, la Gare Saint Lazare, Courdimanche, la “baia di nessuno” , e, seppur soltanto nominata , la Sierra de Gredos, cui l’autore dedica un’opera interessante “Le immagini perdute ovvero attraverso la Sierra de Gredos” (al momento fuori catalogo, in attesa di ripubblicazione Guanda).

Un libro che ha tanto da raccontare.

“La ladra di frutta” è un romanzo complesso, che merita, come le grandi opere del passato, una rilettura anche a distanza di tempo, un libro universale che, sono sicura, non smetterà di parlare alle future generazioni.

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Romanzi storici
 
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ALI77 Opinione inserita da ALI77    01 Dicembre, 2019
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UN VIAGGIO NELL'ITALIA MEDIEVALE

Ho sempre sentito parlare molto bene di Matteo, autore della mia stessa città Padova, ma non avevo mai letto nulla di suo fino ad ora.
Le sette dinastie è un romanzo storico, ambientato nel basso medioevo, la narrazione parte dal 1418 e arriva al 1476, raccontandoci la vita di ben sette famiglie. Queste sono al potere di alcune delle più importanti città dell'Italia di quell'epoca, quali: Milano, Venezia, Ferrara, Firenze, Roma e Napoli.
Il libro parte da un'accurata ricostruzione storica che ci porta a conoscere le dinamiche che si instaurano in queste dinastie, gli intrighi e le alleanze che si creano per riuscire a mantenere il potere e a non farsi sopraffare o sconfiggere da un'altra famiglia rivale.
La base del romanzo parte dalla storia, da eventi veramente accaduti, certamente la narrazione in alcuni punti è romanzata, in quanto è impossibile sapere con esattezza come si siano svolte veramente le cose, ma l'autore anche in questo, è riuscito a rendere le vicende credibili e verosimili.
Le dinastie di cui si parla nel libro sono: Visconti/Sforza, Condulmer, Estensi, Medici, Colonna, Borgia e Aragonesi.
Nel corso del libro ci sono delle famiglie che vengono affrontate in maniera più approfondita, come ad esempio quella dei Visconti/Sforza o dei Condulmer, mentre altre come i Medici o gli Estensi hanno un ruolo meno rilevante.
Il destino di queste famiglie si incrocia, con una serie di alleanze, tradimenti, intrighi e trattative tutto condito da una buona dose di crudeltà e di guerra.
La figura che mi ha colpito di più è quella di Filippo Maria Visconti, un uomo che i libri di storia non ci avevano descritto così, il duca di Milano era tutt'altro che un aitante e affascinate combattente, ma piuttosto era un codardo, un ipocondriaco e aveva dei vistosi problemi fisici alle gambe. Era ossessionato dall'essere ferito, non usciva mai dal suo castello ed era pieno di spie ed erano talmente tante, che non sapeva più chi gli era fedele e chi no.
Un uomo che lasciava combattere gli altri invece di essere in prima linea, ma con tutti questi difetti fisici e psichici, trovo alquanto difficile un suo coinvolgimento diretto durante la guerra.
Fa uccidere la prima moglie, mentre la seconda la rinchiude in una torre, ma riesce a trovare l'amore con la sua amante Agnese del Maino che gli darà la sua unica figlia Bianca Maria.
Un'altra foto sempre del mio profilo Instagram
La narrazione prosegue con gli anni, facendoci conoscere e ripassare la storia, che probabilmente avevamo studiato male e con poco gioia, quando andavamo a scuola.
Certo, se la storia fosse raccontata in questo modo ci verrebbe voglia di approfondire e di studiare il medioevo e sarebbe anche piacevole.
Un altro tema che mi ha incuriosito leggendo questo libro è il ruolo delle donne in una società così maschilista. Le donne non avevano voce in capitolo, ma riuscivano ad essere determinanti e a influenzare gli uomini con cui avevano delle relazioni amorose.
Basti pensare ad Agnese del Maino e alla figlia Bianca Maria, che sono riuscite con la loro intelligenza, astuzia e anche bellezza ad imporsi in un mondo fatto da uomini, anzi alcune volte i loro personaggi e la loro evoluzione era più interessante rispetto ai protagonisti maschili.
Bianca, in particolare, mi ha sorpreso: seppur all''apparenza sembrava essere molto fragile, in realtà si è dimostrata una donna determinata, con una volontà di ferro. Lei andava a combattere in prima linea, a fianco del marito Francesco Sforza per riconquistare Milano, dopo la scomparsa del padre Filippo Maria Visconti. Questa ultima parte non è romanzata, perché sono stati trovati dei modelli di armatura fatti in base alla corporatura di Bianca.
La figura della donna sebbene non sia mai stata ricordata nei famosi libri di scuola che vi dicevo prima, ora in questo testo viene rivista e messa in luce come merita.
La scrittura di Matteo è sicuramente molto scorrevole, riusciamo ad appassionarci alle vicende e ad essere affascinati da un mondo così lontano ma che fa parte della nostra storia, delle nostre origini.
Ho trovato la ricostruzione storica molto dettagliata, accurata e verosimile e sono rimasta molto colpita dalla descrizione anche dei costumi che indossavano all'epoca, quindi c'è stato sicuramente un lavoro di studio e di ricerca molto approfondito.
I dialoghi sono realistici e plausibili, certo alcune parti sicuramente sono romanzate ma è possibile che i fatti si siano svolti in un modo molto simile.
Ho apprezzato i capitoli brevi che hanno sicuramente dato maggior ritmo alla storia, che non risulta essere lenta o pesante.
Immagino che sia stato molto difficile gestire la scrittura di sette dinastie, in questo credo che il testo sarebbe stato ancora migliore, se l'autore si fosse soffermato solo su alcune famiglie oppure su una sola, come aveva fatto in precedenza con la saga dedicata ai Medici.
Questo libro risulta fin da subito molto interessante, l'autore credo sia un ottimo narratore e romanziere, in grado di raccontare e far conoscere la storia non annoiando il lettore, anche se il romanzo storico non è il nostro genere preferito.
Una scrittura appassionate e incalzante che permette di seguire le varie vicende con interesse e anche curiosità.
Matteo è un autore preparato, poliedrico che riesce ad essere convincente e a descrivere con maestria, un mondo così lontano da noi, ma ancora così affascinante e tutto da scoprire.

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    01 Dicembre, 2019
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Azione e non molto di più

Tiepido. È il primo termine che mi viene in mente pensando a questo romanzo. Sì, mentre leggevo ho avuto l'impressione che Lansdale non si sia sforzato poi molto; che abbia scritto questo romanzo in un giorno di noia in cui non aveva nulla di meglio da fare. Il titolo stesso: "Elefante a sorpresa", non ha molto a che vedere con "l'indagine" che Hap e Leonard si trovano ad affrontare; tutti i romanzi dei due investigatori avrebbero potuto intitolarsi cosi. Forse anche Lansdale ha trovato difficoltà a scegliere un titolo per questo romanzo che, in fondo, ha una trama debole: è più una sequela di scene d'azione senza alcun mistero né indagine. Hap e Leonard, nel bel mezzo di uragani e diluvi universali, difendono a suon di pallottole la testimone oculare di un omicidio, perseguitata da un boss della Dixie Mafia.
Punto. Il romanzo è null'altro che questo.
Mi ha dato la sensazione di uno di quei film d'azione che vai a vedere per divertirti un paio d'ore, ma che oltre questo non lasciano molto altro. Ora, se stessimo parlando di un altro autore, dalle limitate capacità e che si offre a un certo tipo di pubblico (senza molte pretese), sarebbe anche accettabile. Ma parliamo di Joe R. Lansdale, maledizione; un uomo che ho scritto romanzi di altissimo livello come "Paradise Sky". Anche lo stile è molto scialbo, sottotono, seppur scorrevole. Certo, la serie di Hap e Leonard è sempre stata un po' cosi: scanzonata, semplice, in certi tratti esagerata, ma devo dire che, forse, di questo loro ritorno si poteva anche fare a meno. Lo dico da grande estimatore di Lansdale: Joe, torna a mostrarci quello che davvero sai fare... e se è necessario, sì, lascia perdere Hap e Leonard; per un po' almeno!
Signori, mi rendo conto che questa recensione potrà risultare estremamente breve, ma giuro che non c’è molto altro da dire. Dunque, se siete fan sfegatati di Hap e Leonard, magari leggetelo; in caso contrario, direi di passare oltre.

“Tu prova a mettere la speranza da una parte e la merda dall’altra, e vedrai dove penderà la bilancia.”

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    30 Novembre, 2019
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La Repubblica de' Noantri

Come abbiamo imparato sui banchi di scuola, il 1848 fu un anno cruciale nella storia del nostro Risorgimento. In quei mesi si rafforzò in molti italiani la speranza di un mondo nuovo, in cui le potenze straniere fossero finalmente cacciate dal Paese e l’Italia divenisse uno stato unitario e democratico.
L’immaginario Folco Verardi, protagonista di questo romanzo, è uno dei tanti giovani che, abbagliati dal mito dell’unificazione, si unirono a frotte in improvvisati eserciti di volontari che combatterono nella I Guerra d’Indipendenza.
Folco aveva lasciato il suo lavoro di garzone di fornaio a Ravenna e si era arruolato nella Legione dei Volontari Pontifici che, sotto il comando del generale Durando, era partita per portare aiuto alle truppe di Carlo Alberto nella sua guerra contro l’Impero Austro-Ungarico.
Aveva partecipato alle battaglie di Vicenza dove il Corpo di spedizione si era battuto con valore e abnegazione, ma quando, il 29 aprile 1948, Pio IX aveva tolto il suo appoggio all’intervento e richiamato le truppe, lo sconcerto lo aveva preso. Come tanti suoi commilitoni era tornato a Roma nella speranza che non fosse già tutto finito. Qui aveva trovato una città in subbuglio e in aperto contrasto con la nuova politica conservatrice imposta dal Primo Ministro Pellegrino Rossi. Ed è qui che lo troviamo all’inizio del romanzo.
Assieme a tanti popolani romani sarà testimone dei successivi avvenimenti a partire dalle turbolente riunioni sediziose in taverne e magazzini, sino all’assassinio del Rossi; dall’instaurazione della Repubblica Romana all’elezione dell’Assemblea Costituente per giungere sino alla successiva, disperata lotta dei ribelli contro la restaurazione del potere temporale del Papa.

In questo suo romanzo Vittorio Evangelisti ci mostra la tragica, gloriosa epopea della Repubblica Romana vista dal basso, attraverso gli occhi candidi e ingenui di Folco, cioè nel modo in cui avrebbe potuto viverla uno qualunque dei tanti popolani che si votarono anima e corpo a quella causa, magari senza neppure comprenderne i più profondi ideali così come concepiti e propugnati dai vari Mazzini, Garibaldi, Saffi o Armellini.
Non è difficile immaginare lo stesso A. calato nei panni di quel immaginario garzone di fornaio, mentre si aggira per le piazze e le borgate di Roma e diviene testimone, talvolta anche in modo inconsapevole, di quegli storici avvenimenti come un muto, ammirato osservatore.
L’intento che l’A. si era prefisso, quindi, è nobile e ben concepito: mostrare la storia dalla parte della moltitudine di coloro che, normalmente, sono costretti a subirla pure quando, come in questa occasione, avrebbero l’opportunità di scriverla e far sentire la propria voce in capitolo. Purtroppo, e spiace davvero rilevarlo, detto lodevole obiettivo non è stato seguito da una altrettanto efficace realizzazione.
Al romanzo manca una vera trama che si distingua dalla mera, diligente esposizione dei fatti di cronaca di quei mesi e dall'elencazione puntigliosa dei personaggi storici coinvolti nell’azione. Folco ci appare un personaggio piuttosto sciapo, privo di alcuna caratterizzazione. È poco più che un paio d’occhi e di orecchie, un tramite che ci rende edotti dei vari accadimenti di cui si trova ad essere casualmente spettatore o che apprende nel letto di qualche procace ragazza o ai tavoli delle osterie che frequenta con solerte impegno tra bevute epiche e riepilogo di tutta la gastronomia romana (forse anche di quella che verrà inventata un secolo dopo!).
Gli eventi ci sono raccontati in modo apatico, pedantemente spento, come potremmo leggerli su un libro di storia per le scuole medie. Solo nelle fasi finali dell’assedio è dato trovare un po’ di pathos e partecipazione emotiva; troppo tardi e troppo poco, ahimè.
Il resoconto, indubbiamente, è accurato e sin troppo pignolo: insomma ci dà contezza che l’A. si sia ampiamente documentato prima di prendere la penna in mano, ma resta privo di passione e senza alcun approfondimento psicologico o sociologico. Anche i personaggi storici agiscono sulla scena come pallide comparse di una rappresentazione precisa, ma statica. Lo stile, anonimo e senza nerbo, non contribuisce ad accendere l’attenzione del lettore. Ogni tanto si ha l’impressione di incappare pure in qualche clamoroso falso storico. Uno tra tutti: può mai un popolano semianalfabeta disquisire di comunismo e di idee “comunistiche” quando il “Manifesto” di Marx era stato pubblicato pochissimi mesi prima a Londra? In generale, poi, l’A. fatica a dissimulare le sue simpatie politiche. Così fa agire e parlare i suoi personaggi come ci si aspetterebbe da un nostro contemporaneo. Pur riconoscendo che fu proprio in quei mesi che sbocciarono i germi di tutte le future istanze democratiche nel Mondo attuale l’approccio è decisamente anacronistico in quel contesto. Se è vero che Folco è l’alter ego dell’A. troppo spesso il secondo influenza il modo di sentire e di agire del primo.
Tuttavia non sono questi gli aspetti che più deludono, quanto, appunto, la narrazione monocorde e priva di emozione: per accendere gli animi e la fantasia non è sufficiente inserire qua e là i versi di qualche famoso inno patriottico o un’ode risorgimentale, come si farebbe a conclusione di una riunione di partito. Né qualche fervorino ideologico è sufficiente a dar corpo e anima ai personaggi e rendere vivo il racconto. E' sotto questo profilo che il libro mostra le maggiori carenze.
In conclusione la lettura è piuttosto noiosa, poco coinvolgente che si fa fatica a portarla a termine. Ciò è un vero peccato perché l’argomento era estremamente stimolante e poteva portare a risultati molto più accattivanti.
________________
Per chi già conosce bene l’opera di Evangelisti conviene segnalare che questo può essere considerato una sorta di prequel della trilogia “Il sole dell’avvenire” dove ritroviamo la famiglia Verardi, negli anni successivi ai fatti qui narrati.

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Sono sinceramente incerto se consigliarlo o meno. L'argomento meriterebbe sicuramente: purtroppo la storia della Repubblica romana è piuttosto negletta e un "ripasso" non sarebbe inopportuno, ma il risultato finale non è dei migliori, disgraziatamente.
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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    20 Novembre, 2019
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Viaggio in Giappone

"Le antiche famiglie di luoghi remoti, comprese quelle prive di una storia illustre, custodiscono leggende e tradizioni uniche tramandate di generazione in generazione."

Inizia con questa frase "La foresta d'acqua" dello scrittore giapponese Kenzaburo Oe, premio Nobel per la letteratura nel 1994. Ambientato tra Tokyo e una "piccola valle immersa nella foresta" dell'isola Shikoku il libro, fortemente autobiografico e scritto in prima persona, parla dell'intenzione di uno scrittore ormai oltre settantenne, Choko Kogito alter ego di Oe, di scrivere un ultimo romanzo sulla prematura scomparsa del padre decine di anni fa, annegato nel fiume in piena. In realtà questa sua intenzione lo tormenta da anni ma è sempre stato bloccato dalla madre, custode di una valigia in pelle rossa contenente tutto il materiale appartenente al marito e che per il figlio avrebbe rappresentato il materiale necessario per la creazione del "romanzo dell'annegamento". A dieci anni della morte della madre finalmente ne entra in possesso... Questo è il filo conduttore, il sentiero d'ingresso nella foresta di Kenzaburo.

"Un particolare che ho notato man mano che passano gli anni e si invecchia è che si viene pervasi sempre più del desiderio di sistemare le cose nel miglior modo possibile senza lasciare niente di irrisolto." Kogito ha un passato irrisolto, trasformato in un sogno che lo tormenta da una vita - o forse un incubo?- in cui suo padre si trova in una barca nel fiume in piena e il figlio non riesce a raggiungerlo. Un padre "amato disperatamente", visto come un eroe negli occhi del figlio, fa un gesto incauto, incompreso e come conseguenza finisce come preda di un fiume vorace. A questo tormento interiore cerca di mettere fine attraverso appunto la scrittura di un romanzo, ma sarà forse la via più efficace e migliore per tutti? "Pensavi, grazie al tuo nuovo romanzo, di restituire l'onore al nostro povero padre e di cancellare il senso di colpa del ragazzino che quella notte tornò disperato a riva nuotando come un cagnolino? In che modo, in concreto? E nutrivi forse la vana speranza di ottenere come per magia una chiave per risolvere tutti i problemi semplicemente passando in rassegna il materiale contenuto nella valigia di pelle rossa?"

Non viene sviluppata soltanto la storia del padre di Kogito e del loro rapporto ma anche quella del legame fragile che unisce Kogito e suo figlio Akari, affetto da una malformazione sin dalla nascita. A questi si aggiunge un altro personaggio cardine, l'attrice teatrale Unaiko, anche lei alle prese con la resa dei conti di un passato turbolento e che porta come tematica la lotta contro l'abuso sulle donne e sui bambini, sviluppata nella terza e ultima parte del romanzo. La forza e l'importanza delle donne per la famiglia e per gli uomini in generale, viene notata durante tutto il percorso del libro, Kenzaburo dandole ampia voce.

La cosa che più mi è piaciuta in questo libro è stata l'ambientazione. Mi sono sentita letteralmente trasportata in Giappone ogni volta che aprivo il libro, come se facessi un viaggio e in più con una guida turistica perché oltre alle belle descrizioni paesaggistiche vengono spesso narrati anche miti locali, tradizioni e storia, elementi saldamente legati agli abitanti. Si respira anche un'atmosfera calma, rispettosa e i personaggi sono sempre pacati ed educati nonostante ci sia qualche momento di alta tensione eppure non perdono mai l'equilibrio interiore, tra sussurri e inchini hanno luogo tempeste. Credo che Kenzaburo sia un ottimo veicolo della cultura autoctona giapponese per il resto del mondo. Un'altra cosa che mi ha piacevolmente colpita di Kenzaburo è la sua vasta cultura europea e i suoi frequenti riferimenti letterari, cita addirittura Céline con una sua frase "Teniamo alta la testa, su, coraggio!", autore che per stile e argomenti lo trovo diametralmente opposto a Kenzaburo eppure...

Ci sono però degli aspetti che personalmente ho gradito un po' meno e mi hanno reso la lettura un po' faticosa. A partire dallo stile. Sebbene sia scritto in prima persona, l'autore da pochissimo spazio ai suoi pensieri espressi in modo diretto (e quindi più coinvolgente per il lettore) ma crea piuttosto delle situazioni di dialogo tra lui e i vari personaggi e sono questi ultimi a esprimere ciò che secondo loro l'autore prova o ha provato in passato. Quindi la voce dello scrittore, nonostante sia il personaggio principale, si fa sentire attraverso le altri voci con le quali lui dialoga: la moglie, la sorella Asa, Unaiko e così via. A un certo punto anche uno dei personaggi glielo fa notare. "Tu non dici granché e resti perlopiù in silenzio ad ascoltare, non riesco mai capire cosa ti passi per la testa.", si "tira le orecchie" da solo in pratica. Sebbene sia una modalità valida come tutte le altre a me ha reso la lettura meno coinvolgente di quanto sperassi proprio perché non sono riuscita a entrare in empatia con il personaggio principale. Altro aspetto che ha peggiorato ulteriormente la situazione è stata la prosa che, seppur elegante, troppo artefatta, "burocratica" quasi a piccoli tratti come se fosse un compitino, che allontanava ancor di più i miei tentativi di raggiungere la mente del personaggio e di sentirmi coinvolta. Questa prosa lineare, pacata, sì elegante ma che non osa quasi mai, nel bene o nel male, determina un ritmo di lettura costante e prevalentemente lento.

Alto elemento per me disturbante, oltre allo stile, è stato l'egocentrismo dell'autore. Tutto ruota attorno a lui, ai suoi bisogni e alle sue opere. Addirittura è presente una compagnia teatrale di cui Unaiko appunto ne fa parte, che si occupa di mettere in scena esclusivamente la sua opera leggendo e rileggendo tutti i suoi testi, come se fossero una Bibbia. La moglie, la sorella, Unaiko, tutte in punta di piedi attorno a lui a servirlo e riverirlo anche quando viene meno ai suoi doveri di marito e padre, preoccupate sempre a fare in modo che lui stesse bene e se qualcosa gli viene rimproverato il rispetto e la reverenza non mancano mai. Stessa cosa succede quasi con tutti gli altri personaggi, tant'è vero che ho pensato "Dio esiste ma tranquillo, non sei tu!". L'egocentrismo va benissimo, ma poi quando è sorretto dallo stile sopramenzionato, diventa noioso, fastidioso, inutile e si tende a perdere l'interesse per continuare la lettura. Alto aspetto per me negativo è la ripetizione, dettata più da questo suo egocentrismo che da una esigenza stilistica: intere scene vengono continuamente ripetute appesantendo la narrazione.

C'è un momento all'interno del romanzo in cui mi sono detta "ecco che ci siamo! ora si decolla!" perché l'autore si lascia un po' andare e mi richiamava le crisi epilettiche di Dostoevskij fonte di ispirazione, la memoria involontaria di Proust e in generale il rapporto arte-malattia nella letteratura:

"Quei farmaci erano molto potenti, perciò cercavo di farne uso il meno possibile ed ero consapevole che avrei fatto bene a smettere al più presto. Quando riaprivo gli occhi prima dell'alba, a distanza di poche ore dall'assunzione, mi ritrovavo in preda di un prodigioso "risveglio della memoria" (...). Non potevo fare a meno di chiedermi se quel enorme attività cerebrale fosse in qualche modo collegata all'energia stupefacente che si accompagnava agli attacchi di vertigini, e avevo la netta sensazione che quel recente malessere racchiudesse in sé un più ampio significato."

...però il ritmo non è mutato di molto. Ho trovato invece molto poetico il finale, che, seppur tramite un terzo personaggio comparso nella seconda metà del libro, chiude a cerchio il tema dell'annegamento del padre, trasmettendo nelle righe finali un senso di risoluzione e sollievo.

Per concludere lo vedo adatto a chi vuole viaggiare con la mente in Giappone e vuole immergersi sulla sua cultura e la sua storia, a chi ha già letto Kenzaburo perché dentro si ritrovano tutte le sue opere, ma anche a chi ha letto "Il cuore delle cose" di Soseki, libro ampiamente trattato all'interno di questa opera.








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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    18 Novembre, 2019
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Vera, Nina, Ghili, e Rafael

Nel suo ultimo romanzo “La vita gioca con me”, David Grossman ha raccontato, in forma liberamente romanzata, la storia di Eva Pani? Nahir, una donna conosciuta e stimata in Iugoslavia, che era stata internata nell'isola di Goli Otok, uno dei gulag di Tito. Eva e Grossman erano legati da una forte amicizia e lei voleva che lo scrittore trasformasse in romanzo la vicenda che aveva vissuto e che raccontasse anche la storia di sua figlia, Tiana Wages. E così l'autore ha dato vita ai personaggi di Vera e Nina, che animano questo intenso romanzo accompagnate dagli altri due protagonisti della narrazione, Ghili e Rafael.
Vera è una donna forte, profondamente viva ed energica, ha raggiunto la ragguardevole età di novant'anni e in quella occasione tutta la sua famiglia si è riunita per festeggiarla. La narratrice di questa storia è la nipote di Vera, Ghili, una donna ormai prossima alla quarantina che ci racconta della sua famiglia molto particolare attraverso un diario, quaderni scritti a mano su cui annota ricordi, idee, intuizioni, pensieri. Alla festa per il novantesimo compleanno di Vera torna in Israele Nina, figlia di Vera e madre di Ghili, una persona tormentata ed estremamente fragile, che non ha mai superato il trauma subito a sei anni e mezzo, quando, nella Iugoslavia degli anni Cinquanta del Novecento, suo padre morì e sua madre fu internata nel campo di rieducazione sull'isola di Goli Otok. Nina sembra essere capace soltanto di rifiutare le persone che più l'hanno amata e che le sono state più vicino: soprattutto Rafael, il suo compagno e padre di Ghili, che ha trascorso tutta la vita con l'intenzione e il desiderio fortissimo di amarla; ma anche la figlia Ghili, da lei abbandonata a soli tre anni e mezzo; e la madre, verso la quale prova un risentimento antico e coriaceo per averla
lasciata sola quando fu deportata sull'isola di Goli Otok. Eppure il legame fortissimo tra Rafael, Ghili, Nina e Vera rimane vivo e profondamente intenso, nonostante la lontananza, l'abbandono, il rifiuto, il tradimento. E quando Nina ancora una volta mostra la sua fragilità, ed è costretta a chiedere aiuto alla sua famiglia perché le sta accadendo qualcosa che non potrà affrontare da sola, i quattro decidono di intraprendere un viaggio speciale. Andranno in Croazia, nella cittadina natale di Vera, ?akovec, e successivamente sull'isola di Goli Otok, dove la donna era stata segregata per circa tre anni. Un viaggio che li porterà a ricercare le loro origini e l'origine del loro legame, così indissolubile ed allo stesso tempo così carico di risentimento, segreti inconfessabili e amarezza. Potranno rievocare l'infanzia di Vera, l'amore che l'aveva unita così profondamente al padre di Nina, Miloš, ripercorrere l'itinerario che l'aveva portata sull'isola di Goli Otok, sentire la sua sofferenza, comprendere o condannare le sue scelte. L'idea è quella di realizzare un documentario sulla storia di Vera da poter rivedere nel futuro: per non perdere del tutto la memoria del passato, per riappropriarsi finalmente delle scelte, anche sbagliate, che hanno segnato la loro vita per sempre.
Un romanzo coinvolgente, che tratta i temi della memoria e del ricordo come base per poter costruire un futuro migliore. E che ci fa riflettere sulla natura dei legami familiari: indissolubili, necessari ed imperfetti, sublimati e scalfiti dalla vita ma che rimangono una priorità della nostra umile umanità.

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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    18 Novembre, 2019
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Un'ultima avventura per Max Gilardi


Ho letto con molta emozione e commozione l’ultimo libro edito da Elda Lanza dal titolo La terza sorella. Il libro è uscito edito giovedì 14 novembre a pochi giorni di distanza dalla morte della stessa autrice, avvenuta la domenica precedente. Il testo vede l’ultima avventura dell’avvocato Max Gilardi, felice creatura partorita dall’abile penna di Elda Lanza. L’avvocato, ex poliziotto, dall’intuito sagace e dalla preparazione ineccepibile, ha visto impotente la morte della sua prima moglie, al cui seguito nulla è stato uguale, per cui:
“Non si ama mai allo sesso modo due volte. (…) Con quel corpo tra le braccia al quale non potevo dare aiuto, io ho sperato di morire, di non avere un giorno dopo. Poi la vita prosegue e non ti chiede eroismi.”
Qui è alle prese con un caso coinvolgente, che lo vede più che altro in veste di amico e consulente. Ma chi è la terza sorella di cui si fa riferimento nel titolo? E’:
“la figlia dell’amore. La più amata.”
Si tratta, infatti, di tre sorelle: Elena, Eleonora, Elisa. Tre baronesse, che vivono in un luogo particolare,
“che non era un castello, neppure nelle intenzioni, ma uno strano palazzo a strati, sospeso tra scale e balconate.”
Una di loro, Elena, si è appena sposata con Carlo, con testimone di nozze proprio l’avvocato Gilardi. E’ felice, serena. Quando in una tragica notte viene uccisa con un grosso ferro conficcato in gola. Chi ha potuto commettere un atto tanto brutale? Chi la voleva morta, lei che non aveva nemici? Forse che la sua felicità era fonte di invidia in chi non poteva avere un tale benessere? Chi poteva odiarla tanto?
Un bel mistero e
“Storie un po’ oscure”,
che affondano le radici nella storia di una famiglia benestante, in un passato lontano, mai dimenticato. Una storia che cova odio nel profondo, trascinato a lungo nel tempo. Dalla signora “gentile ed elegante” un’ultima vicenda che affascina con il garbo che le è sempre stato consono e che trascina il lettore in un vortice coinvolgente di emozioni e sentimenti.

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Consigliato a chi ha amato tutti i libri di Elda Lanza.
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lapis Opinione inserita da lapis    17 Novembre, 2019
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Road to Ruin

"Perché dovevi arrivare tu a farmi sentire così solo?"

La felicità è una droga, la più potente, la più distruttiva. Dopo averla assaggiata, ne vorrai ancora, e ancora, e ancora. Eppure, avresti dovuto saperlo, Harry, che la felicità è uno stato di emergenza che non può durare. Sono secondi, minuti, giorni, e dopo, non resta altro che rimpianto, vuoto, astinenza. E neanche tutto l’alcol del mondo riuscirà a ingannare il dolore.

Dal giorno in cui l’amata Rakel lo ha lasciato, questa volta per sempre, Harry Hole è ripiombato nel baratro della bottiglia e della depressione. Ed è proprio in questo momento che il destino lo metterà di fronte al caso più complesso, brutale e straziante della sua intera carriera. Perché questa volta dovrà combattere contro il dubbio della propria stessa colpevolezza, contro quelle mani imbrattate di sangue di cui non conserva nemmeno un ricordo, contro la paura di essere diventato un mostro. Allora il bisogno di un colpevole diventa l’unica ragione di vita, e la caccia non è mai stata così torbida e disperata.

Ottima la penna, le pagine procedono con intrigante fluidità, nonostante la strabiliante ricchezza di sfumature, dettagli e indizi che l’autore dissemina lungo il cammino. Non ci si annoia, con Harry Hole. Sarà la coinvolgente miscela di investigazione e vicende umane, che si addentra senza sconti nell’abisso di passioni, fallimenti e colpe di ciascun personaggio. Sarà la grintosa e oscura atmosfera, alimentata dalla profonda malinconia di un protagonista il cui fascino sta proprio nella vulnerabilità e nella capacità di aggrapparsi all’unica cosa che lo può tenere a galla, il suo fiuto di poliziotto e il suo inossidabile senso di giustizia. Sarà la trama sapientemente disegnata con geometrico rigore, in cui sospetti e vicoli ciechi, diversivi e colpi di scena si stratificano con linearità e limpidezza. Impossibile perdersi, impossibile non appassionarsi perché c’è davvero tanta umanità in questo thriller.

“Il coltello” rappresenta il mio primo incontro con il famoso poliziotto scandinavo. Il romanzo può sicuramente essere letto anche senza avere una conoscenza pregressa di questa serie, come è capitato a me, regalando una compagnia piacevole e appagante. A mio avviso però una storia come questa, che si gioca tutta nell’universo emotivo e personale del protagonista, merita di essere letta all’interno di un percorso. Arrivata all’ultima pagina quindi, consiglierei a me stessa e a chi come me non ha familiarità con Harry Hole, di tornare all’inizio della serie. Non è mai troppo tardi, in fondo.

“Sto dormendo. E finché dormo, finché riesco a restare nel sogno, potrò continuare a cercarlo. Ma ogni tanto, come adesso, ho la netta sensazione che venga meno. Devo concentrarmi e dormire, perché se mi sveglio... Mi renderò conto che è vero. E allora morirò”.

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    12 Novembre, 2019
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A volte non serve cercare oltreoceano

Devo cominciare questa recensione con un'ammissione di colpa. Chi segue le recensioni che scrivo sa che spesso prediligo gli autori stranieri. Spesso ci si fa affascinare dai nomi: Michael Connelly, Jo Nesbø, Jeffery Deaver, o per rimanere nell'ambito dei "thriller legali" un certo John Grisham.
E spesso ci si rimane delusi.
Quest'ultimo libro di Gianrico Carofiglio è la dimostrazione che in casa abbiamo degli ottimi autori, che a volte si rivelano più meritevoli di lettura di "quelli che hanno il nome famoso". Certo, Gianrico Carofiglio non è l'ultimo arrivato, ma devo ammettere che mi ha davvero stupito.
Cominciamo dallo stile, che è la cosa che più mi ha colpito: accurato, coinvolgente, riflessivo, a volte adornato da una sottile ironia utile a stemperare; capace di dosare perfettamente dialoghi e narrazione. Dalla spiccata capacità di emozionare e fare riflettere, risulta evidente che l’etichetta di “autore d’intrattenimento” a Carofiglio sta più che stretta, e infatti credo non possa limitarsi a questo. L’autore non strizza continuamente l’occhio al lettore, non vuole farlo contento a ogni costo con scelte banali volte a regalargli una leggerezza passeggera; l’autore vuole lasciare il segno. Non ha paura di soffermarsi su verità scomode e difficili da digerire, a volte angoscianti; perché è consapevole che questo spingerà il lettore a fermarsi a ponderare quel che ha appena letto, regalandogli l’impagabile sensazione di aver letto qualcosa di vero, non contraffatto da artificiosi addolcimenti. La dolcezza c'è come c'è nella vita: a piccole dosi, senza ignorare i momenti difficili che a quella dolcezza danno una marcia in più.
La figura dell’avvocato Guerrieri è praticamente viva: un personaggio così ben reso da poter credere di incontrarlo, un giorno o l’altro, lungo la strada di casa. Afflitto da dilemmi, vittima di debolezze e capace di piccoli atti d’eroismo , Guerrieri è un personaggio in cui ogni lettore può vedere una parte di sé stesso e (sono sicuro) anche l’autore ha messo moltissimo del suo essere.
Insomma, non so più che dire per farvi capire che sì, “La misura del tempo" è un romanzo da leggere e Carofiglio un autore da approfondire.
O almeno io lo farò.

La storia di questo romanzo ruota tutta su Iacopo Cardaci, ragazzo accusato dell'omicidio di uno spacciatore e già condannato in primo processo. La madre dell'accusato è una vecchia fiamma dell'avvocato Guerrieri, al quale si rivolge per il processo in appello. Incapace di dire di no a Lorenza e resosi conto dell' inefficacia della difesa che lo ha preceduto, Guerrieri decide di prendere in carico questo lavoro, nonostante sia chiaro fin da subito che le speranze di ribaltare la sentenza siano ridotte al minimo.
Mai scontata, mai banale, questa storia si legge in un attimo e, in certi tratti, è anche capace di emozionare.
Consigliatissimo.

“Quando sei giovane e pensi a un mondo e a un tempo in cui tu non esistevi, la cosa non ti turba. Perche' la storia sembra dotata di una direzione implicita che porta fatalmente al momento in cui sei tu a irrompere sulla scena. Il mondo senza di noi prima di noi è una lunga fase preparatoria. Il mondo senza di noi dopo di noi invece è semplicemente il mondo senza di noi. Finché appare lontano riusciamo a placare l’angoscia dell’idea. Ma io so che fra qualche settimana, al massimo qualche mese, non ci sarò più e il mondo continuerà a esistere, senza nemmeno una increspatura. Senza nemmeno un sussulto. Voi piangerete, ma poi dovrete occuparvi delle questioni pratiche e smetterete di piangere. E comunque sarete sollevati che questa sofferenza non ci sia più. Potrete distogliere lo sguardo e occuparvi di vivere. Come è giusto. E tutto sarà finito.”

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    12 Novembre, 2019
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La porta come metafora della vita

Con il suo ultimo romanzo “La seconda porta”, Raul Montanari si conferma, ancora una volta, scrittore di talento, acuto osservatore della realtà che ci circonda, di cui fa un’analisi minuziosa ed equilibrata.
Attraverso l’uso originale della metafora della porta, egli pone a confronto due mondi diversi e contrastanti, quello di Milo, il protagonista, e quello di Adam, rifugiato e fuggiasco. La porta, infatti in sé ha una duplice funzione: da una parte stabilisce un contatto con il mondo esterno, dall’altra può escluderlo. Essa, dunque, può essere mezzo di crescita se aperta a esperienze diverse e molteplici, ma al contempo garanzia di sicurezza se chiusa a ciò che è estraneo e che costituisce motivo d’inquietudine.
Da qui il tema centrale del romanzo, una riflessione ben articolata sul problema dell’immigrazione, dell’accoglienza, dei rapporti con chi si considera “diverso” per religione, per etnia, per orientamento sessuale. È un discorso che comprende valutazioni basate su un concetto di pietas diverso in ogni individuo e valutazioni più generiche che attengono più specificamente alla politica.
Non a caso Montanari afferma: “Quelli che sono favorevoli all’accoglienza devono fare discorsi complessi, spiegare che l’ondata migratoria non si può arrestare, ma solo gestire, magari risalire alle responsabilità dell’Occidente [……] dire che il mescolarsi di razze è cosa positiva […..]. I populisti di destra fanno un discorso semplicissimo: questa è casa nostra, stiamo bene senza di loro, cacciamoli fuori. Stop. [….]”
Il rapporto Milo – Adam offre all’autore l’opportunità di valutare tutte le difficoltà reali che il tema dell’immigrazione solleva, al di là di ogni retorica o di paternalismo, che rischierebbe di degenerare in un buonismo ipocrita. Adam, infatti viene visto nei suoi lati positivi, senza però trascurare né i suoi difetti né le sue colpe. Così la generosità di Milo si alterna a momenti di diffidenza e sfiducia, specialmente nel momento in cui si trova a dover gestire situazioni di potenziale violenza.
Nonostante la serietà del tema centrale del romanzo, il racconto è alleggerito dal susseguirsi di eventi che creano suspense e rendono la lettura scorrevole e piacevole.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    07 Novembre, 2019
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La spia che odiava la Brexit

Nat è un agente del Secret Service di mezza età. Sono venticinque anni che recluta e gestisce spie nell'Europa orientale e, quando viene richiamato a Londra dall'ultima missione in Estonia, si aspetta un decoroso pensionamento o un ricollocamento in qualche comoda sine cura dell’amministrazione inglese. Invece viene assegnato a un nuovo incarico nella sede londinese dell’Office. Quello che gli affidano è un dipartimento decisamente secondario, chiamato da tutti, spregiativamente, il “Rifugio” perché, lì, ci sono solo agenti accantonati dalle altre sezioni in quanto ritenuti privi di alcuna rilevanza. Inaspettatamente, però, al Rifugio si troverà di fronte a due scottanti situazioni.
La prima riguarda la sua giovane collega Florence. Lei si batte con ostinata determinazione perché i Capi approvino una strettissima sorveglianza su un faccendiere ucraino che sposta enormi quantità di soldi di provenienza quantomeno dubbia, con la complicità di potenti società della City. Riuscirà a far accettare il suo piano?
La seconda riguarda il Sergei, giovane russo-georgiano arruolato come agente dormiente dal suo Paese, ma che, sin dal suo sbarco in Inghilterra, ha dichiarato di voler disertare. Quando Mosca, finalmente, si ricorda di lui e gli chiede di attivarsi, Nat viene subito avvisato e intuisce che dietro all'operazione, di cui il ragazzo è solo uno dei tanti ingranaggi, c’è una degli agenti più in gamba di tutta la Russia la quale, forse, si appresta ad arruolare un funzionario inglese di spicco, pronto a tradire. Per Nat potrebbe essere il classico “colpaccio” che rilancerebbe tutta la sua carriera.
In parallelo a queste vicende lavorative Nat conduce una vita abbastanza ordinaria che divide con la moglie Prue, valente avvocato, specializzata nelle cause “etiche”, la figlia Steff, irrequieta diciannovenne contestataria, e il gioco del badminton per il quale ha una vera passione che, in passato, gli è stata pure utile per reclutare spie all'estero.
Sarà proprio nel suo club di badminton che Nat farà la conoscenza col ritroso Ed. Apparentemente si tratta di un ricercatore ventottenne che lavora per una agenzia di comunicazione. Ha sfidato Nat, campione del circolo, e in breve ne è divenuto l’avversario fisso in una serie di accanite partite. Ma è soprattutto nel relax del dopo partita che Ed si apre e sfoga tutto il suo risentimento contro la follia della Brexit, contro Trump (che paragona a Hitler), contro tutta la classe politica inglese, che considera corrotta e idiota. Chi è effettivamente Ed? Solo un giovane frustrato e deluso dal mondo in cui vive o è qualcos'altro?

È raro che una spy-story possa divenire un libro di valenza politica, ma da Le Carrè ci si può aspettare questo e altro. Nei suoi libri non si susseguono inseguimenti, mirabolanti avventure alla James Bond o suspense che si taglia col coltello. Le spie sono spesso pingui burocrati. Le vicende procedono piano con l’indolenza con cui si verificano, normalmente, le circostanze della vita. Ma più che in altri romanzi la nostra vita reale viene portata allo scoperto e diviene giocatore di primo piano nella narrazione.
Questa affermazione è quanto mai vera per ciò che riguarda questo romanzo. Un vecchio proverbio sentenzia che ne ha uccisi più la penna che la spada. Se il detto potesse applicarsi alla lettera, probabilmente Le Carrè sarebbe sotto processo per tentato omicidio plurimo. Infatti, quest’ultima sua opera, distribuita in contemporanea europea, è una vera arma puntata contro molti personaggi di spicco della scena politica internazionale. Evidentemente l’A., aveva così tanti sassolini nelle scarpe che se li è dovuti togliere tutti contemporaneamente; scegliendosi bersagli davvero grossi da colpire.
Attraverso la bocca dei suoi personaggi scarica tutto il suo livore contro l’attuale politica mondiale a cominciare da quella del suo Paese e dei suoi compatrioti favorevoli ad abbandonare l’Unione Europea, per passare a coloro che (ufficialmente in modo legale) guadagnano riciclando i capitali delle varie mafie (russa, ucraina, georgiana, etc.). Continua occupandosi dell’attuale amministrazione americana (vero bersaglio del libro e attaccata con pesantissimi epiteti) senza risparmiare colpi bassi a quella russa. Raramente mi è capitato di leggere un libro, che non fosse un mero libello politico, così pieno di invettive e violenti attacchi contro personaggi di spicco della politica mondiale viventi e operanti.
Abilmente Le Carrè non prende posizione, perché le ingiurie escono ora dalla bocca di Ed, giovanotto manifestamente disadattato e nevrotico, ora da quella di una vecchia spia in agiato ritiro a Karlovy Vary (quindi da personaggi immaginari e, in quanto tali, non incriminabili), ma è difficile pensare che quelle espresse non siano le opinioni personali dell’A.. C’è da immaginare, perciò, che questo romanzo farà parecchio discutere, soprattutto in un Regno Unito ancora squassato dall'incertezza sulla Brexit e che andrà alle urne tra poco più di un mese. Anzi non è affatto escluso che l’intento di Le Carrè sia pure quello di dare una scossa ai suoi compatrioti.
La trama, nello stile dell’A., non è incalzante, ma la tensione, che le vicende narrate dallo stesso Nat fanno intuire, è palpabile, anche se, spesso, è solo interiore ai personaggi; non è fatta di gesti eclatanti, ma è suggerita da accenni, da brevi frasi.
Il climax finale è emozionante anche se ci conduce ad una fine che non è una vera fine, ma forse solo un inizio di qualcosa di diverso. Ma, in fondo, non sono così tutte le vicende della nostra vita?
Insomma un libro decisamente accattivante che vale la pena leggere anche, se non soprattutto, per l’attualità dei temi trattati, si condividano o non si condividano le idee espresse dai personaggi.

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ovviamente a chi ama Le Carrè e il suo stile garbato, ma anche a coloro che vogliono leggere un libro spionistico vero, e credibile.
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siti Opinione inserita da siti    02 Novembre, 2019
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Persi per sempre

Ennesimo inedito del grande Singer restituito a quasi trent’anni dalla morte al pubblico mondiale e in Italia per iniziativa della casa editrice Adelphi che, avvalendosi della professionalità di Elisabetta Zevi, il cui nome non ha bisogno di presentazioni, e della traduzione dell’altrettanto affermata e brava Elena Loewenthal, permette di conoscere meglio la produzione del premio Nobel per la letteratura, 1978. È l’ennesimo scritto in yiddish, la lingua madre, mai rinnegata e anzi elevata a statuto letterario, la lingua di tutta la sua produzione, un patrimonio culturale da coltivare e tenere vivo in terra straniera a ricordare un mondo perduto ma ancora pulsante. Sono gli anni sessanta, quelli della rivoluzione culturale giovanile, quelli compresi più nel dettaglio fra la fine del dicembre 1967 e il maggio 1968, a vedere l’uscita a puntate sul quotidiano yiddish di New York ??Forverts?? di questo bel romanzo sotto lo pseudonimo Yizkhok Warshavski, quello usato per la produzione ‘popolare’ oltre che per i pezzi giornalistici.

E forse è vero, troviamo in quest’opera una prosa più dimessa, una struttura più sobria, quasi un fare didascalico, una minore tensione narrativa, un intreccio tutto sommato prevedibile, ma la penna del grande Singer è ben riconoscibile e restituisce una dimensione più americana, avvicinabile al migliore Malamud e oserei dire anche al più feroce Simenon. Una miscela di ebraismo e di americanità che rende questa lettura estremamente moderna e avvincente, senza peraltro tralasciare, ma anzi nutrendosi, fin nella sua essenza più profonda, della cultura ebraica che l’ha partorita.

È infatti la storia di tanti polacchi, ma due in particolare, il ricchissimo Morris Kalisher e lo sfaccendato Hertz Minsker, il nostro ciarlatano, che, negli anni del secondo conflitto mondiale, prima del coinvolgimento degli USA nella guerra, proliferano nel grande sogno americano, tutti sfuggiti dalle adunche grinfie della sanguinaria mano nazista. Sono immigrati, chiaramente identificabili eppure ben assimilati, spesso hanno ripudiato il loro credo e vivono lontani dalla legge della Torah e lo avrebbero fatto a prescindere dalla loro condizione. Sono esseri finiti, tremendamente umani, pieni di limiti e dalla condotta riprovevole; qualcuno si è arricchito, molti vivono di espedienti, altri confermano la loro indole che ha come comune matrice l’identità del perseguitato, dell’esule senza requie, talvolta dell’apolide. Si arrangiano come possono in un’ America, e qui New York ne è il simbolo perfetto, che accoglie ma divora, inglobando in uno sterile capitalismo i destini di un pullulare di persone che si sviliscono in esistenze frenetiche e vuote e in un materialismo senza speranza sfociante in un inevitabile ateismo. Il pensiero del destino dei propri connazionali chiusi nei ghetti, costretti alla stella gialla, tradotti forzatamente in campi di lavoro o di sterminio, qualche volta si affaccia nelle loro coscienze, le ripulisce blandamente, resettandole per il successivo abominio. Il maggiore rappresentante di questo tormentato modo di vivere è lui, il ciarlatano: si nutre di teorie che mischiano edonismo spinoziano a misticismo cabalistico, condito di un pizzico di idolatria, a saldare, confondendoli inevitabilmente, piacere e religione. È un grande amatore, un temprato simulatore, il peggiore traditore. Si dibatte nell’eterno dubbio esistenziale, il dubbio gli è necessario per affermare che scienza e religione sono parte di un’unica verità della quale ancora nessuno è stato messo a parte. Tanto vale allora buttarsi nella parapsicologia …

La trama insomma, capirete, è presente e pure gradevole, ma è debole pretesto per intessere una brillante tragicommedia, una vera e propria pantomima che si nutre del variegato e brillante modulo della commedia degli equivoci, rendendo gradevole una lettura che è puro atto di denuncia della condizione dell’ ebreo moderno. Chi è costui? Non solo il ciarlatano, sarebbe troppo comodo! L’ebreo moderno non ha niente da invidiare al nazista, “siamo tutti nazisti, nazisti circoncisi”, lo pensa Morris, lo conferma Hertz, vermi senza dio, votati al dio denaro, alla solitudine inghiottiti e divorati dalle splendide luci della città, meritano certo, gli ebrei, l’ennesima trappola per topi che la moderna civiltà offre nella dorata America.
Ritratto amaro e impietoso , se i toni lievi della commedia non hanno sortito l’effetto contrario, umoristico e paradossale, dell’ebreo perso per sempre. Aldilà della specificità culturale e storica, fa sorridere amaramente il comune destino di ogni uomo sulla terra, con la netta differenza che forse noi, un cantore così della nostra disfatta non lo abbiamo se non andando fino ai tempi di Dante.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    31 Ottobre, 2019
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Tra autobiografia e critica sociale spietata

«Un atteggiamento tossico sembrava esondare da ogni post o commento o tweet, che ci fosse davvero oppure no. Si trattava di un fastidio del tutto nuovo, qualcosa che non avevo mai provato prima – e si accompagnava a un’ansia, a un senso di oppressione che provavo ogni volta che mi arrischiavo ad andare in rete, la sensazione che in un modo o nell’altro avrei commesso uno sbaglio per il semplice fatto di condividere ciò che pensavo a proposito di qualcosa. Tutto ciò sarebbe stato impensabile dieci anni prima – l’idea che un’opinione potesse diventare qualcosa di sbagliato – ma in una società inferocita e polarizzata c’era chi veniva bloccato a causa delle proprie opinioni e perdeva follower perché veniva percepito in modi che potevano essere inesatti. […] Come se nessuno sapesse più distinguere un essere umano da una serie di parole digitate su un touchscreen. Il clima culturale in generale pareva incoraggiare il dialogo ma i social media erano diventati una trappola e quello a cui in realtà miravano era silenziare l’individuo.»

L’idea di scrivere un nuovo romanzo, a distanza di ben trent’anni dall’uscita del primo, nasce in Ellis nel 2013 mentre si trovava in autostrada dopo aver trascorso una settimana a Palm Springs con un’amica con cui era stato al College negli anni ’80. Anni ben diversi da quelli attuali, anni in cui andare a scuola o non andarci, guardare un programma o un altro alla tv non aveva la stessa risonanza, protezione e ovattamento di oggi.

«Non fregava niente a nessuno i quello che guardavamo o no, di come ci sentivamo o di cosa desideravamo, e non eravamo ancora stati incantati dalla religione del vittimismo. Paragonata a ciò che oggi viene considerato accettabile ora che i bambini sono ipercoccolati fino all’inettitudine, era l’età dell’innocenza.»

Anni in cui comprese che non l’essere vincenti ma l’essere “frustrati, disillusi e feriti rendeva il piacere, la felicità, la consapevolezza e il successo sia più tangibili sia palesemente assai più intensi”. Ma adesso chi è Bret Easton Ellis oltre che “il cattivo” per eccellenza che divulga coscientemente sui vari canali social impressioni, considerazioni, provocazioni e pensieri? Come non far ciò, d’altra parte, in un’epoca in cui la libertà di parola si è evoluta al punto tale da diventare una cd. “responsabilità di parola” all’interno della quale viene abnegato ogni confine tra pubblico e privato tanto che ogni individuo si sente legittimato a proferir tutto ciò che passa per la mente? Il risultato pertanto del fenomeno è che i confini del che cosa è possibile o meno raccontare si sono talmente dilatati da raggiungere estremità vacue, non limiti.
E questo in un certo senso è quello che fa Ellis: analizzare il fenomeno radicato in una società fatta ormai di luci, neon, apparenze, oggetti scintillanti, droghe, alcol, sesso, estremizzazioni, feticismi e cercare di trovarne una spiegazione. Perché la prima impressione che emerge dalla lettura di “Bianco” è che, in questa lunga disamina che parte proprio dagli anni della sua giovinezza, passando a quelli che sono stati gli anni del successo, ci si stia trovando di fronte ad una spiegazione del perché Bret sia una persona così schietta e “stronza” o del come un uomo della sua età non riesca a far i conti con questo mondo così radicalmente cambiato a fronte del “quando si stava meglio” anche se in verità si stava peggio.
Per poter davvero apprezzare “Bianco” è necessario conoscere gli anni ’80 e considerarli quale il momento storico in cui un po’ tutto ha avuto inizio tra alienazioni e ossessioni ed eccessi, è necessario avere consapevolezza, ancora, di quelli che sono stati gli anni ’90 e duemila con tutte le relative conseguenze fino alla crisi economica del 2008 e il seguente decennio.
L’obiettivo di Ellis è senza dubbio quello, dopo aver dipinto un quadro che rappresenta una vera e propria panoramica del presente, di tirare le fila ma senza mai cadere nella rassegnazione o nella depressione. La narrazione è infatti intrisa di disincanto, di cinismo, di entusiasmo. “Bianco” può definirsi pertanto un saggio di critica cinematografica e di critica a quello che sin dal primo capitolo è definito come “Impero”, l’Impero americano.
Quello che avete davanti, se deciderete di leggerlo, è un testo stratificato, con molto da offrire, capace di suscitare riflessioni nel lettore ma che richiede un certo impegno nella sua discoperta. In parte per questa forte impronta autobiografica che lo caratterizza, in parte per la necessaria chiave di lettura che richiedere di applicare per essere apprezzato e compreso nelle sue varie sfaccettature, in parte per questa serie di tematiche scottanti che tratta.
Un saggio che consiglio a tutti coloro che cercano scritti di sostanza, attuali e volontariamente provocatori e a tutti coloro che vogliono interrogarsi sulle cause del tempo che viviamo.

«In passato, nell’ormai lontana epoca dell’Impero, gli attori potevano tutelare le loro identità scrupolosamente progettate ed enigmatiche in modo più facile e completo rispetto al giorno d’oggi, in cui tutti viviamo nel mondo digitale dei social media e dove i nostri telefoni catturano senza filtri istanti che una volta restavano privati e ciò che ci passa spontaneamente per la testa può venire tradotto in una frase o due su Twitter.»

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archeomari Opinione inserita da archeomari    31 Ottobre, 2019
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Un uccellino contro i naufragi della vita

Sandro Veronesi è uno scrittore pluripremiato. Tutti si ricorderanno del romanzo “Caos calmo” che, oltre allo Strega, ha vinto altri due premi internazionali ed ha avuto anche una famosa trasposizione cinematografica con Nanni Moretti e Isabella Ferrari. Io però mi avvicino per la prima volta a questo autore, attirata dal titolo e dalla seconda di copertina dove si legge : “un romanzo potentissimo , che incanta e che commuove, sulla forza struggente della vita”.
In effetti ho trovato una storia e una scrittura potente, a volte leggera, che ripercorre tutte le pagine del romanzo.
Perché un colibrì a dare il titolo all’opera?
Perché un uccellino, il più piccolo uccellino al mondo, con il corpicino e le ali iridescenti, capace di batterle 70/90 volte al secondo, venerato dai Maya che credevano fosse l’incarnazione dei guerrieri del sole? Perché questa scelta?
Perché il colibrì, che passa la vita a consumare tutta la sua energia per battere le ali senza muoversi, sospeso nell’aria, è simile al protagonista del nostro romanzo, Marco Carrera. Da ragazzino la madre lo chiamava “colibrì “ per via della sua corporatura e della sua altezza, di molto inferiori alla media dei ragazzi della sua età, un “gap” che recupererà con una cura a base di ormoni e che nel giro di pochi mesi gli farà conquistare prodigiosamente 16 cm di altezza!
Specialista in oftalmologia, Marco, all’inizio del libro, si trova, da un giorno all’altro, nell’occhio del ciclone di una serie di disgrazie: lo psicologo che segue Marina, sua moglie, entra nello studio e gli comunica una brutta notizia che stravolgerà l’apparente serenità delle sue giornate. Sua moglie chiede il divorzio ed è già incinta di un altro. Da quel momento parte una narrazione a ritmo serrato, con sequenze dialogate (pochissime, due o tre, solo quando Marco conversa con Carradori, lo psicologo della ex moglie che interverrà poi quasi alla fine del romanzo), discorsi indiretti liberi (tantissimi), poche descrizioni, molte sequenze riflessive, mai pesanti, perché condite da quella ironia che genera un’amara risata.
Le disgrazie sono veramente tante, lutti atroci, malattie terribili-lo stesso Veronesi ha confessato di aver interrotto la stesura del libro per curare un cancro - , amori assoluti e difficili, amicizie che non ti aspettavi. Ma come reagisce Marco?
Come il colibrì, l’antico guerriero Maya reincarnato in uccello, che nonostante le avversità si tiene sempre ben fermo, fedele a se stesso, ai suoi valori e consuma tutte le sue energie per mantenere quella posizione di sopravvivenza.

“E anche tutto l’amore che è stato sparso per il mondo, tutto il tempo che è stato sperperato e tutto il dolore che è stato provato: era forza, tutto, era potenza, era destino, e puntava lì.
- I lupi non uccidono i cervi sfortunati, Duccio - dice- Uccidono quelli deboli”.
-
Questa consapevolezza è l’unico modo per non soccombere alla “dittatura del dolore”.

Un romanzo che parla di amore, di dolore, ma soprattutto di forza.
Magistrale la penna di Veronesi che rende originali certe situazioni che potrebbero risultare banali, scontate e ti tiene incollato alla pagina fino alla fine del romanzo. Un sacco di citazioni importanti, musicali, cinematografiche e letterarie, da “La patente “ di Pirandello all’omaggio all’amico Sergio Claudio Perroni, suicidatosi quest’anno a Taormina, uno dei padri fondatori della casa editrice indipendente “La nave di Teseo”, la stessa che ha ripubblicato tutte le opere del Veronesi. A fine libro troverete una interessante postilla dell’autore che spiega come sono nati termini, luoghi e situazioni di questo romanzo.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    28 Ottobre, 2019
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Esilio; una storia troppo spesso dimenticata

Siamo nel 1939, la guerra civile spagnola sta giungendo alla sua conclusione, il clima politico europeo è preoccupante a causa della forza e della devastazione dei regimi dittatoriali che stanno prendendo sempre più campo. Victor Dalmau era entrato nell’esercito repubblicano nel 1936, come quasi tutti i ragazzi della sua età, ed era partito per difendere con il suo reggimento Madrid, in parte occupata dai nazionalisti – come si autoproclamarono le truppe insorte contro il governo – e luogo dove utilizzava i suoi tre anni di studi in medicina per curare i feriti piuttosto che per tenere un fucile in mano nelle trincee. In seguito, era stato destinato ad altri fronti. Fratello di Guillem Dalmau, entrambi erano stati educati in una scuola laica e cresciuti in un piccolo appartamento nel Raval, in una casa della classe media, in cui la musica del padre e i libri della madre avevano sostituito il dogma religioso. I Dalmau non militavano in alcun partito politico, ma la diffidenza di entrambi nei confronti delle autorità e di qualsiasi tipo di governo li portava a schierarsi con gli anarchici. Oltre alla musica, il padre, Marcel Lluìs, aveva trasmesso ai figli la curiosità per la scienza e la passione per la giustizia sociale.
A causa di una grave ferita alla gamba, Victor era stato rimandato ingessato – per grazia di un medico inglese che aveva optato per la steccatura piuttosto che per una diretta amputazione – a Barcellona dove quanto prima si era rimesso in sesto per tornare al lavoro. Al contempo, una grave perdita familiare lo obbliga a far ritorno a casa dove ad attenderlo trova Rose Bruguera, giovane pianista amica di famiglia, allieva prediletta del genitore venuto nel mentre a mancare, e che fino all’intervento del suo salvatore viveva da sola in una Barcellona sempre più pericolosa. Con, nel 1939, il termine della Guerra Civile Spagnola e la vittoria dei franchisti, per i due giovani non c’è alternativa che lasciare la terra natia in quello che è un viaggio che attraversa prima i Paesi Baschi, poi i Pirenei, poi la Francia e infine il Cile, sinonimo di terra promessa e di nuove possibilità. Purtroppo, però, anche a distanza di anni e di integrazione, l’esilio non è finito. Ed è attorno a questo tema che ruota l’intero romanzo dell’Allende, un’opera che fa respirare al lettore le atmosfere dei romanzi del passato dell’autrice, le atmosfere quei libri che con la loro intensità catturavano e conquistavano senza mai, come a discapito di alcuni più recenti, disilludere le aspettative.
Esilio e radici, legami e storia. Una storia dimenticata, una storia di fatto attuale e composta da profughi, accoglienza, perdita, dolore, lasciti, separazione. Una storia che riparte proprio da quel 3 settembre 1939, con quel piroscafo francese “Winnipeg” salpato il 4 agosto dal porto di Pauillac, con destinazione Valparaìso, “lungo petalo di mare”, e con a bordo oltre duemiladuecento fuggitivi dalla Guerra Civile Spagnola. Una spedizione umanitaria possibile, oltretutto, grazie a Pablo Neruda, il futuro Premio Nobel per la Letteratura, che all’epoca ricopriva incarichi consolari tra Francia e Spagna.
La scrittrice porta a termine una vera e propria opera di ricostruzione che va dalle condizioni del viaggio a quelle di maggiore integrazione. Fatti e persone citate e narrate sono reali e quei pochi che sono inventati sono il ispirati a uomini e donne realmente conosciuti e incontrati dall’Allende.
Al tutto si aggiunge una penna precisa, meticolosa, erudita, profonda che accompagna e conduce per mano passo dopo passo nello svolgersi di ogni singolo evento. Il lettore è conquistato da questo scritto così pieno di spunti di riflessioni e di tematiche profonde tanto che giunge alla sua conclusione in tempi molto brevi. Un ritorno alle origini.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    27 Ottobre, 2019
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Ma cos'è la verità

L’ultima intervista è un romanzo autobiografico o pseudo autobiografico scritto sotto forma di intervista, dove la forma dell’intervista è un pretesto per parlare di sé senza seguire un ordine cronologico stretto, saltando soprattutto all’inizio da un argomento all’altro per riprendere più avanti i due fili conduttori principali: il rapporto con la moglie Dikla e il rapporto con la scrittura. Entrambi i rapporti stanno vivendo una grossa crisi, probabilmente le due crisi sono correlate. Entrambe le crisi sono legate al rapporto tra scrittura e vita e tra vita e verità, quindi tra arte e verità. Questo ultimo argomento di discussione, cioè il rapporto arte-verità, andava di moda il secolo scorso, oggi come oggi è difficile che qualcuno sostenga ancora che l’arte debba essere legata alla verità, pena un ruolo minore. Nessuno pretende dallo scrittore che sia assolutamente sincero, ammesso e non concesso che verità e sincerità siano la stessa cosa. Dikla rimprovera al marito di non essere veritiero ma di raccontare troppi segreti di famiglia. In parole povere racconta fatti personali e problemi personali ma senza guardarne in faccia le cause, addomesticandoli a suo beneficio come se volesse fascinare il pubblico per tirarselo dalla sua come si fa nelle famiglie in crisi in cui ogni coniuge cerca di avere l’appoggio degli altri membri della famiglia oppure di usare i problemi famigliari per trarne storie. Del resto questo ruolo di fascinatore lo scrittore se lo rimprovera lui stesso, lo giudica severamente, lo bolla come immorale. Nevo ammette di essere il responsabile dell’ascesa del peggior politico israeliano del quale ha scritto e continua a scrivere i discorsi, discorsi assolutamente vuoti e populisti. In un certo senso l’autore è alla ricerca della verità nella scrittura ma cede facilmente alla fascinazione, al potere che riesce ad esercitare sugli altri e anche al denaro. L’immagine che dà di se stesso è tenera, sentimentale, fedele alla moglie. Ma, nonostante questo si capisce che l’immagine è deformata e falsa per le varie occasioni di tradimento vero o immaginato che descrive. Però come quello che racconta della sua vita ha del falso in sé, così la sua scrittura. Seduce, è formalmente intrigante, con un certo sentimentalismo di buon livello.
Insomma, credo che Nevo si renda conto che la scrittura può essere di più, soprattutto per uno con il suo talento. I grandi della letteratura russa, ad es. Dostoevskij o Solzenicyn hanno fatto della letteratura una forma di ricerca, proprio come Schopenhauer intendeva l’arte. Io credo che Nevo aspiri a qualcosa del genere ma non vuole perdere il pubblico che spesso chiede qualcosa di più commerciale e finto, come il buon politico. Nevo è sempre un sentimental-buonista. Gli unici momenti in cui tira fuori un pizzico di cattiveria è quando parla dei colleghi scrittori, in particolare dello scrittore reduce della Shoah, il cui romanzo di 10 kg di peso, di migliaia di pagine lo insegue come uno stalker, e dello scrittore di gialli scandinavo più fascinoso e commerciale di lui. In un certo senso lui si barcamena tra un modo e l’altro di scrivere senza scegliere una strada o l’altra. Le primissime pagine mi sono sembrate molto molto belle e toccanti cioè più del resto del romanzo. Del resto è molto difficile mettersi a nudo in un romanzo dato che poi all’autore è richiesto di accompagnarlo in giro per il mondo. Io credo che su questo la Ferrante abbia assolutamente ragione, un romanzo non dovrebbe avere la faccia dell’autore cucita addosso. Le parti sulle presentazioni dei romanzi rendono l’idea di come funziona il mercato dei libri e sono abbastanza snervanti. Invece sono interessanti le pagine che rendono l'idea della situazione esplosiva in Israele.

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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    23 Ottobre, 2019
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Una leale comunità canina


Arturo Pèrez-Reverte ha pubblicato numerosi bestseller, tra i quali: Il Club Dumas, Il tango della vecchia Guardia, Il codice dello scorpione, L’ultima carta è la morte. Ora torna con I cani di strada non ballano, un libro surreale ma carico di significati profondi, che ha come protagonisti dei cani di strada.
Protagonista assoluto della narrazione è Nero, un cane che ha passato la sua esistenza a cercare di sopravvivere alle due lotte dei combattimenti tra simili, e di cui, ora che è vecchio, porta con autorevolezza, i segni. Lui è:
“nato meticcio, incrocio tra un mastino spagnolo e un fila brasileiro. Da cucciolo ho avuto uno di quei nomi teneri e ridicoli che mettono ai cagnolini appena nati, ma da allora è passato molto tempo. L’ho dimenticato. E’ da tanto che tutti mi chiamano Nero.”
Con i combattimenti ha imparato il vero significato della sopravvivenza, che conduce a:
“fare ricorso a tutta l’esperienza, al mio sangue freddo e alla forza di volontà che mi restava per non lasciarmi trascinare in quegli abissi oscuri da cui raramente un cane esce”.
Alla sera Nero ed altri si ritrovano al “cosidetto Abbeveratoio” di Margot, un luogo vicino al fiume in cui sversano l’anice dalla vicina distilleria, di cui tutta la loro comunità canina si disseta a più non posso. Ma un giorno si respira aria di grave preoccupazione: sono, infatti, scomparsi il ridgeback Teo e il levriero russo Boris, detto Boris il bello. Che cosa è accaduto? Sono stati catturati? Sono, forse, finiti allo “Scannatoio”, ovvero in un
“inferno dove soltanto la violenza e la crudeltà ti davano modo di sopravvivere.”
Radio Cane trasmette notizie infauste circa la loro sorte. A Nero non resta che intraprendere un lungo viaggio, un lungo percorso avventuroso alla loro ricerca. Tutto all’insegna di un unico principio che regola la loro vita: la lealtà, difficile in quanto
“piacciono quelli che sono leali, e di questi tempi non lo siamo più neanche noi cani”.
Un libro duro, profondo e piuttosto violento. Ho faticato molto nella lettura a causa di una eccessiva crudezza di situazioni, di personaggi e di situazioni descritte. Ad una più attenta riflessione, però, un testo che narra una storia che finisce per essere paradigma, duro e crudo, del vivere quotidiano degli esseri umani, che non concede spazio ai sentimenti né affezioni. Ma in qualche modo anche un messaggio di speranza, in un mondo di sopravvivenza, composto da valori morali fondanti forti e di grande lealtà. Una lettura “bifronte” che induce alla meditazione, anche e soprattutto riguardo ad un universo animale migliore di quello composto dagli umani e senzienti, poiché
“i cani non ballano”
Ma
“sopravvivono con lealtà.” .

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    13 Ottobre, 2019
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“La musica non è un suono ma un concetto” (Schonbe

L’arte, ogni arte, coinvolge sensi e anima di ciascun fruitore. Ciò, ovviamente, a livelli diversi, secondo le conoscenze e le esperienze specifiche di ognuno. Solo alcuni riescono a cogliere e penetrare il vero significato, le sottili sfumature, la specificità di un’opera d’arte. Per giungere a questo occorre uno studio costante e approfondito. Dunque l’arte è accessibile solo a una élite che abbia ad essa dedicato tempo ed energie? No assolutamente no. L’arte è patrimonio di tutti e ogni interpretazione, ogni esperienza da essa derivata aiuta a crescere e ad ampliare la conoscenza del mondo che ci circonda.
In questo libro dal titolo significativo “Assolutamente musica”, significativo perché solo di musica si parla, sciolta, libera da divagazioni in altri campi, Murakami Haruki ha raccolto le conversazioni avute con il grande direttore d’orchestra Ozawa Seiji, sul tema del rapporto tra spartito ed esecuzione, della necessaria sintonia tra direttore e solista, tra direttore e altri elementi dell’orchestra.
I dialoghi svelano l’importanza di certi aspetti dell’esecuzione e dell’interpretazione musicale che sfuggono all’orecchio inesperto dell’ascoltatore, il significato delle pause, la difficoltà di tenere a lungo una singola nota, l’abilità di orchestra e solista ad intendersi. Ogni orchestra suona a modo suo, ha una sua interpretazione d’uno spartito e il suo suono cambia con il direttore, ma mantiene il suo carattere originale, tuttavia il direttore troppo rispettoso del parere dei musicisti va incontro a difficoltà nel dirigere. Dunque è importante la cura del dettaglio, la tempestività con la quale i musicisti colgono la segnalazione del maestro a entrare. Ozawa e Murakami si trovano d’accordo nel sottolineare che lo stile dell’orchestra assomiglia allo stile dello scrittore. Anche per chi scrive la parola e l’insieme delle parole sono musica. Se un componimento letterario non ha musicalità, non ha ritmo difficilmente avrà successo. Non a caso le opere di Murakami sono tutte scandite dal suono di celebri brani.
Il rapporto direttore-musicisti è importantissimo. Il direttore comunica la sua interpretazione dello spartito attraverso una gestualità a lui propria, in un gioco che coinvolge corpo e intelletto, con un risultato unico. Interpretare un compositore vuol dire averne approfondito l’epoca, averne compreso la sua visione del mondo. Qui il dialogo si sofferma sia pure brevemente sulla analogia tra l’interpretazione di un’opera pittorica e un’opera musicale. Non a caso si accenna a Mahler, a Klimt e a Schiele nelle cui opere ben si capisce la rottura col mondo tedesco, la fine di un’epoca.
Murakami e Ozawa si soffermano poi anche su jazz e lirica, concordi sull’importanza e l’interesse di ogni genere musicale, per concludere con un’importante affermazione: “Per creare la buona musica, innanzitutto è necessaria una scintilla, poi la magia. In mancanza di una delle due, niente buona musica.”

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    12 Ottobre, 2019
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Un matrimonio

Tom e Louise sono una coppia in crisi coniugale. Hanno deciso di rivolgersi ad una consulente matrimoniale e tutte le settimane, poco prima della seduta, si ritrovano nel pub di fronte alla casa della terapista per bere qualcosa e parlare un po'.

Il libro di Nick Hornby, “Lo stato dell'unione” è una pièce teatrale e non un romanzo. È costituito quasi interamente dalle battute che si scambiano i due coniugi nel pub prima di entrare dalla consulente matrimoniale, che costituisce l'unica ambientazione. L'autore interviene pochissimo e solo per fornire qualche indicazione didascalica su qualche stato d'animo o sommaria descrizione.

I dialoghi sono taglienti, talvolta ironici, talvolta amari e ci raccontano un matrimonio che sta finendo: Tom e Louise non avevano quasi niente in comune quando si sono messi insieme, a parte le parole crociate e il desiderio di diventare genitori, si sono uniti per formare una famiglia ma cosa li ha tenuti insieme? Il sesso. Ed ora che la stanchezza, i problemi di lavoro dell'uno, la tendenza ad annoiarsi dell'altra li hanno allontanati non riescono più a fare sesso (almeno non fra di loro). Il matrimonio è sull'orlo del baratro: riusciranno a salvarlo? Più che gli incontri con la consulente matrimoniale, saranno decisivi gli appuntamenti preliminari al pub: tra un sorso di vino bianco e una pinta di birra sarà possibile per Tom e Louise sviscerare sogni, dubbi e desideri e dirsi, finalmente con sincerità, cosa vogliono cambiare e cosa vogliono salvare del loro matrimonio.

“Lo stato dell'unione” è un libro che si legge in un soffio, vi strapperà qualche risata e vi trasmetterà un po' di malinconia. L'amore, quando diventa un matrimonio che dura da tanto tempo, si trasforma, cambia e risente della stanchezza, delle insoddisfazioni personali, della difficoltà a comunicare dei coniugi.

“ «No, non... Stiamo uscendo dal seminato. Ma forse è questo che ci aspettiamo da un matrimonio. Una macchina a moto perpetuo che non esaurisce mai l'energia. Però noi abbiamo dei figli, un mutuo, tua madre, mio padre, il lavoro, il non lavoro... Come fa uno a non sentirsi oppresso da tutto questo?»”

Non resta che parlarne in modo brillante e pungente, mescolando la tristezza all'ironia, con leggerezza.

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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    10 Ottobre, 2019
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Non aprite quella porta

"Fendevo l'acqua con il corpo, filando da un'estremità all'altra della vasca come una macchina ben oliata, azionata da gesti precisi, perfettamente concatenati. Quando toccavo la parete facevo una capriola e puntavo i piedi per spingermi nell'altra direzione.(...) Il vigore che mi gonfiava i muscoli mi rallegrava, inanellai le vasche senza contarle. Alla fine, sott'acqua, braccia lungo i fianchi, mi lasciai andare. La testa sbucò dalla superficie, con la bocca aperta per respirare l'aria, le mani trovarono il bordo e, sfruttando lo slancio, effettuarono con scioltezza un sollevamento per tirare fuori dall'acqua il corpo grondante."

Un uomo biondo, una donna bionda con lo chignon, un'altra con i cappelli corti corvini, un bambino biondo, un uomo bruno e una donna formosa dai cappelli rossi, questi sono i personaggi dell'ultimo libro di Jonathan Littell. Niente nomi, solo caratteristiche fisiche. Sette capitoli circolari, in cui viene descritta la stessa storia, però da più prospettive: l'io narrate è ora l'uomo biondo, ora la donna bionda con lo chignon, ora il bambino biondo. Iniziano tutti con l'uscita di un corpo grondante dalla piscina per poi concludersi sempre lì con un preciso tuffo. Nel mezzo, una ricerca, una fuga del narratore dentro un lungo e contorto corridoio buio contente tante porte che danno su vari scenari di vita. In tutti i sette capitoli, questi scenari sono gli stessi e si succedono nella stessa ordine: la vita di famiglia, due amanti in albergo, un monolocale dedicato alla solitudine, una festa di gruppo e infine una scena di guerra. Mutano i personaggi, gli oggetti e le situazioni, penetrano da uno scenario all'altro e subiscono metamorfosi, si sdoppiano, un grido di una scena avrà l'eco in un altra. Ad esempio, nella scena famiglia il bambino biondo gioca nella sua cameretta con dei soldatini giocatolo uccidendoli, nella scena guerra invece il bambino biondo viene crudelmente ucciso dai soldati.

Questa circolarità dei singoli capitoli e la connessione delle cinque scene si estende anche all'insieme del libro. Man mano che si va avanti nel romanzo si percepisce un aumento di intensità di questa fuga nel corridoio buio e le piccole scene si sviluppano da un capitolo all'altro avendo un loro epilogo. Per quanto sia fissa e matematica l'impostazione del romanzo, con ripetizioni anche di intere frasi che il lettore ormai imparerà a memoria e rappresenterà per lui delle linee guida, tipo "tu sei qui" sulle mappe, essa contiene un gioco di specchi, di sdoppiamenti, un labirinto in qui tutto muta e si trasforma: "come il racconto di quell'evento inaudito che adesso sto cercando di costruire, facevo acqua da tutte le parti; fuggivo, ma in me stessa, per sempre libera."

La particolarità di questo romanzo non consiste soltanto nella forma ma anche nel suo contenuto che è caratterizzato da un alto tasso di violenza ed erotismo. Il sesso è presente quasi in tutti i scenari e viene descritto in tutte le sue forme, da autoerotismo a orgie omosessuali. Credo che Littell sia un ibrido tra De Sade e Henry Miller, ci sono delle scene allucinanti che però, prima ancora di disgustare il lettore, incuriosiscono perché inaudite e scritte, secondo me, bene. Eccone un esempio:

"Appoggiai le rotule sul campo di erbe del copriletto e mi voltai: il mio orifizio macchiato di sangue era al centro dello specchio, delineato da due pieghe di carne gonfie, pelose, che scostai e scrollai come vecchi cenci lerci, scoprendo le mucose rosa e l'apertura spalancata che, man mano che vi affondavo le dita, si dilatava smisuratamente, senza limiti, un organo cavo ripiegato su se stesso, senza più alcuna relazione con me. Alla fine tutta la mia mano si ritrovò al suo interno, il polso stretto fra i tessuti spugnosi e sporchi, e mossi le dita, pizzicando i nervi come corde, inviando lungo il mio sistema nervoso i trilli di una musica al tempo stesso priva di timbro e carnale, che si raggruppava qua e là in vibrazioni convergenti prima di implodere, e scoccare di rimando fiotti di luce che mi attraversavano a rimbalzi il corpo svuotato, sparpagliandolo per la stanza. Ciò nonostante il sesso non cessava di rimanere spalancato, ora occupava la maggior parte dello specchio con tutta la sua profondità aperta dalle mie due mani, nera, abissale, alla fine abbastanza grande perché ci ficcassi tutta la testa e la facessi scomparire dentro, seguita dall'insieme dei miei organi che da lì si dispersero nel grande appartamento, lasciando il corpo vuoto disteso sul copriletto verde e oro, una conchiglia bianca e liscia, senza asperità, pura superficie avvolta dal sonno."

Così come mancano i nomi ai personaggi, a loro mancano anche i pensieri, i sentimenti e lo spirito critico. In questo libro, nonostante la narrazione sia in prima persona, tutto viene descritto con assoluto distacco, c'è un silenzio totale della coscienza dei personaggi, delle loro intenzioni, di ciò che reputano giusto o sbagliato,si limitano solo a descrivere il presente "visibile", non esistono legami affettivi non esistono rimpianti o introspezioni, esiste solo "ora" in un mondo estraneo a loro. Solo nel finale, l'autore sembra rompere questo silenzio e lasciare trasparire un messaggio:

"mi sentivo invaso da un vasto senso di futilità, forse, pensavo, se avessi scorto qualcun altro, una figura umana, avrei potuto raggiungerla, avremmo camminato insieme e questo avrebbe forse alleviato un po' i nostri passi, perché anche se non ci fossimo parlati, se non avessimo scambiato nemmeno una parola, avremmo sentito il nostro rispettivo respiro e il suono delle nostre falcate, una presenza, quindi, sarebbe stata lì accanto a me e io accanto a lei, avrebbe avuto un che di vagamente confortante, ma non c'era nulla, nemmeno un'ombra (...)".

Per concludere, è un libro di forte impatto: violentissimo, freddo, osceno, sporco, immorale ma cattura proprio per questo fascino del male e per il modo in cui è stato scritto e che fa la differenza tra un bravo scrittore e uno mediocre. Trasmette un grande senso di solitudine, però, del resto, si nasce e si muore soli, e nel mentre la situazione cambia di poco.

Piccola curiosità: Il sottotitolo” Nuova versione” fa riferimento all’ampliamento del libro originale,” Una vecchia storia”, pubblicato qualche anno prima e contenente i primi due capitoli. La nuova versione ne aggiunge i successivi cinque e secondo me è un esperimento riuscito che incorpora perfettamente la versione precedente e da luce a un nuovo libro, più compatto.

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    04 Ottobre, 2019
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Che stia davvero tornando il King di una volta?

Intendiamoci, "L'istituto" non è un'opera esente da difetti e probabilmente non è neanche lontanamente accostabile a quei capolavori che sono "Il miglio verde", "22/11/'63" oppure "It"; ma è comunque un romanzo che ci fa risentire il sapore del King migliore, quello che l'ha portato a essere quello che è.
Mentre in seguito alla lettura di "The Outsider" poteva sussistere il dubbio che fosse solo una buona uscita in mezzo alle tante recenti delusioni, la lettura di quest'ultimo romanzo ci rivela un King in grande spolvero e fa recuperare speranze ai suoi fan che sperano in altri capolavori che siano al livello delle opere del passato, anche perché a rigor di logica un autore dovrebbe essere come il vino e migliorare col passare degli anni. Ai tempi di della trilogia che aveva inizio con "Mr. Mercedes" sembrava che questo discorso non si applicasse in questo caso, e che il Re fosse precipitato in un rovinoso declino senza uscita.
Questo timore potrebbe essere infondato.
Lo stile di King è coinvolgente e scorrevole come sempre, capace in certi tratti di tenerti incollato alle pagine, anche se ci sono dei momenti in cui la storia tende a rallentare e l'autore a ripetersi. L'originalità della storia e il mistero che la impregna, tuttavia, riescono a stimolare la curiosità del lettore e a spingerlo a non demordere anche nei tratti più lenti.
Come dicevo all'inizio però, quest'opera non è esente da difetti; anzi, direi che ce n'è uno piuttosto evidente che nella mia testa ha un po' sminuito il valore di tutta la storia, perché è su questo presupposto che si regge tutta la trama tessuta dall'autore. Non posso essere più specifico, altrimenti rischierei la lapidazione per "spoileraggio" acuto, ma posso dirvi che un lettore attento e più schizzinoso di me che si accorga della stessa incrinatura narrativa, potrebbe avere una reazione molto meno pacata della mia, che mi sono limitato ad abbassare di un'unità il voto al contenuto.

La storia si concentra su Luke Ellis, ragazzino dodicenne dall'intelligenza talmente straordinaria da portarlo anche a una così giovane età, a presentarsi per i test d'ingresso di due importanti università. Contemporaneamente.
L'intelligenza, tuttavia, non è l'unica peculiarità a rendere speciale questo ragazzino, e saranno proprio le sue altre doti a spingere una squadra di rapitori a uccidere i suoi genitori, rapirlo e portarlo in una struttura detta "L'istituto". Luke si risveglierà in una stanza in tutto e per tutto simile alla sua, se non fosse per la totale assenza di finestre.
In questo Istituto Luke conoscerà tanti altri ragazzi come lui, che vengono sottoposti ai trattamenti più brutali pur di far emergere le loro capacità, che a quanto sostengono i direttori di quell'inferno vengono utilizzati per "il bene della nazione". Cosa può capirne un bambino, per quanto dotato, del bene di una nazione? Come può un bambino anche solo pensare di sacrificare la propria spensieratezza nel nome di qualcosa che non è ancora in grado di capire?
King mette in piedi una storia originale, che potrebbe concludersi con questo tomo o anche dipanarsi in nuove pubblicazioni. Certo, occorrerà impegno per dare nuova linfa a una storia che sembra averci già detto molto di quel che aveva da dire, ma potrebbe valerne la pena.

"C'era un aggettivo per definire le persone come lei, ed era: fanatica. Eichmann, Mengele e Rauff erano scappati, seguendo la loro natura di codardi e di opportunisti, ma quel fanatico del loro Führer era rimasto e aveva preferito suicidarsi. Luke era quasi certo che, avendone l'opportunità, quella donna avrebbe fatto altrettanto."

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    23 Settembre, 2019
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Il ritratto vivido della Barcellona inizio '900

Il suo nome è Dalmau Sala, è figlio di un anarchico giustiziato dalle autorità, esiliato e poi deceduto a causa delle torture subite, vive con la madre Josefa e la sorella Montserrat e presta i suoi servigi presso il maestro Don Manuel proprietario della “Manuel Bello Garcìa. Fabrica Azulejos”, un luogo che, superata l’insegna in ceramica azzurra e bianca, si estende tra vasche e seccatoi, magazzini e fornaci. Si tratta di una fabbrica di medie dimensioni specializzata nella realizzazione di lavori in serie e nella realizzazione di pezzi speciali disegnati o immaginati dagli architetti e dai capomastri per gli edifici o per i tanti esercizi commerciali, botteghe, farmacie, alberghi, ristoranti e locali vari che facevano della ceramica l’elemento decorativo per eccellenza. Questo è il lavoro di Dalmau: disegnare, creare progetti originali poi prodotti in serie che entrano a far parte del catalogo della ditta nonché concretizzare e sviluppare i progetti ideati dai capimastri nella costruzione di case e negozi, spesso soltanto abbozzati, o ancora, realizzare i modelli che i grandi architetti modernisti presentano a lui già perfettamente elaborati. Il disegnatore, di umili vesti e origini, lavora in uno studio accanto a quello del maestro, dispone di uno spazio proprio in cui disegnare piastrelle con motivi orientaleggianti, dai fiori di loto, alle ninfee, ai crisantemi. Aveva perfezionato l’abilità nel disegnare fiori seguendo vari corsi nella scuola della Llotja di Barcellona, dove era entrato all’età di dieci anni, una scuola che comprendeva dall’aritmetica, alla geometria, al disegno figurato, geometrico e orientale, al disegno applicato alla produzione industriale.

«In definitiva, aveva imparato tutto quello che c’era da sapere sulla posa di piastrelle e mosaici, finché, a soli diciannove anni, grazie ai suoi meriti era diventato il primo disegnatore e progettista di Don Manuel. Invidie e rancori, ovviamente, non erano mancati in una fabbrica dove a molti costava fatica obbedire a un giovane che neanche si presentava in abiti eleganti, con tanto di cappello, e che, fino a poco tempo prima, lavorava in ginocchio accanto a loro; tuttavia, il talento e la professionalità di Dalmau avevano ben presto dissipato i malumori»

Follemente innamorato di Emma Tàsies, una donna abile nei lavori in cucina e per questo impiegata in una trattoria, dai seni grandi e sodi, il ventre piatto, la vita stretta e i fianchi tondi, una donna voluttuosa e molto ben proporzionata, il viso ovale dagli occhi grandi e castani, labbra carnose e zigomi pronunciati e naso dritto, deciso che ne annunciava il temperamento e il carattere determinato e indipendente, Dalmau è preoccupato per le stesse ideologie rivoluzionarie che la caratterizzano e che sono proprie anche della sorella.
Siamo a Barcellona nel 1901. La vita dei protagonisti è caratterizzata da grandi tensioni sociali; la miseria delle classi più deboli si scontra con il lusso delle classi più forti, con la rivoluzione industriale e le sue continue e inarrestabili evoluzioni, con il sopraggiungere di una nuova e rivoluzionaria stagione artistica, quella del Modernismo. Le classi operaie non rifuggono agli scioperi, alle proteste, anche se ciò può comportare un prezzo molto alto da pagare. Montserrat, a sua volta anarchica come il padre e il fratello maggiore dei tre, Tomàs, di fatto soltanto una libertaria che aspira al bene comune e ad abolire la schiavitù degli operai affinché tornino ad essere liberi, un’ingenua idealista, lo constaterà sulla propria pelle nel momento in cui verrà arrestata e condotta nel carcere di Amalia, luogo dove subirà molteplici violenze, anche sessuali. Come tirarla fuori? Come salvarla da quell’accusa di ribellione e di aggressione a un soldato che aveva addirittura graffiato oltre che colpito tanto da finire sotto la giurisdizione del tribunale militare e non più civile? C’è soltanto una persona che può aiutare la donna e quella persona è Don Manuel che, come ha salvato Dalmau dall’obbligo militare pagandone l’esonero, può intervenire a favore della diciottenne ma ad una sola condizione: la sua conversione al cattolicesimo.
Da questi brevi assunti ha inizio “Il pittore di anime” un romanzo ricco di spunti di riflessione e stratificato che conduce il lettore alla riscoperta di un periodo storico di grandi mutamenti fatto di luci e ombre che si susseguono ed intersecano tra loro.
L’autore non si risparmia nella narrazione, riesce a ben bilanciare le vicende storiche con quelle dei personaggi che in un crescendo costante invitano a proseguire nella riscoperta delle vicende in quello che è un romanzo emozionante in cui non mancano i sentimenti, non manca la solidarietà, non manca l’amore, non manca il cambiamento. L’impressione del conoscitore man mano che il testo si apre nelle varie danze è proprio quella di trovarsi innanzi ad un quadro che viene dipinto pennellata dopo pennellata. L’opera si dipana in un lasso temporale ampio, tocca molteplici problematiche, affronta la crisi economica, affronta la povertà, il corpo privato della sua dignità per la sopravvivenza, affronta la menzogna, la malattia, la voglia di riscatto, la vendetta personale, la ribellione, l’ingiustizia e molto molto altro ancora. I personaggi sono tutti magistralmente costruiti e le descrizioni delle ambientazioni che li accompagnano per mano rendono il componimento ancora più vivido e veritiero nella mente di chi legge. Il tutto partendo dalla dicotomia tra lotta operaia e classe ricco borghese incrollabilmente di fede cattolica, il tutto partendo dalla dicotomia tra ribellione alla grigia tradizione e società in evoluzione.
Il risultato è quello di uno scritto godibilissimo, che si fa divorare, che cattura pagina dopo pagina e che mantiene alta la qualità delle opere a firma Ildefonso Falcones. Diverso da opere quali “La cattedrale del mare” ma non per questo a loro inferiore. Tra le pagine il Falcones a cui siamo abituati si ritrova interamente, in ogni suo corollario e in ogni sua sfumatura. È un volume, ancora, che ricorda, a tratti, lo stile e l’impostazione di Ken Follett ne “La trilogia del Novecento” e per questo mi sento di consigliarlo a tutti coloro che amano il romanzo storico nonché i libri di sostanza e di spessore.

«Bisogna andare avanti, ma non credo che tornare al monumentalismo, all’architettura che cerca una bellezza monumentale o addirittura la manifestazione del potere, e che alla fin fine si sottomette ai dettami della politica, sia paragonabile al Cubismo o al Surrealismo, che sono le massime espressioni dell’indipendenza e della libertà interpretativa dell’artista. Nel Noucentisme e nelle altre correnti simili che si diffondono in tutta Europa, le istituzioni si arrogano il diritto di promuovere l’arte pubblica, l’arte urbana, e lo fanno secondo la loro ideologia, che ancora una volta tentano d’imporre al pubblico» p. 673

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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    15 Settembre, 2019
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Un semplice primo amore

Quando ho letto la trama di questo libro sono rimasto piuttosto incuriosito: mi fa sempre un certo effetto veder citare determinati autori, e leggere il titolo “Mattatoio n.5” di Kurt Vonnegut mi ha fatto ben sperare riguardo questa storia, spingendomi a leggerla. Tuttavia, come succede con marchette, fascette e affini, anche la trama può essere ingannevole. Mentre nella mia mente immaginavo una storia di formazione in cui i libri(quelli belli) hanno un ruolo fondamentale, mi sono ritrovato a leggere niente altro che la storia di un primo amore adolescenziale, che non ha molto di originale e in cui i libri non hanno il ruolo che avevo sperato.
Certo, lo stile dell’autore è scorrevole(e ci mancherebbe, considerando il genere a cui si è rivelato appartenere), ma manca di quel qualcosa che può distinguerlo dalla miriade di altri libri simili. Non ho letto l’altro libro dell’autore che, stando alla fascetta dovrebbe aver venduto milioni di copie, ma dovesse essere simile fatico a spiegarmene il motivo.
Non si può dire che Nicholls sia stato una rivelazione, insomma, tuttavia c'è da dire anche che non prediligo il genere.

La storia è completamente incentrata sulla figura di Charlie Lewis, fresco diplomato e non certo con lode. Ragazzo che si autodefinisce piuttosto anonimo, che vive una situazione familiare non facile e non fa altro che vivere la vita piuttosto passivamente, senza una vera passione che gli infiammi l’anima. Il suo unico passatempo è divertirsi in modi piuttosto "estremi" in compagnia del suo gruppetto di amici.
L’estate in cui la scuola finisce, tuttavia, si rivelerà piuttosto densa di avvenimenti: lo porterà ad allontanarsi dai suoi vecchi amici e, casualmente, incontrare quello che sarà il suo primo amore: Fran Fisher. Quella che inizialmente sarà una cotta lo spingerà a far parte di una compagnia teatrale, la Compagnia del Bardo, che sta lavorando per mettere in scena Romeo e Giulietta. Qui Charlie incontrerà anche molti dei suoi ex compagni, con i quali stringerà rapporti che durante la scuola non si sarebbe mai sognato. Questa nuova esperienza porterà Charlie a sbocciare, non senza difficoltà, introducendolo nel nuovo mondo dell’età adulta.

"[...] per me il primo amore è come una canzone, una stupida canzoncina, la senti e pensi, non voglio sentire più nient'altro, qui c'è già tutto, questa è la melodia più bella che sia mai stata scritta. Poi cresci e non lo metti più quel disco, ora sei più tosta, e smaliziata, e hai dei gusti più raffinati... Ma quando la senti per radio, be', è ancora una bella canzone. Proprio bella."

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    14 Settembre, 2019
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La voce di Briseide

«Alle donne si addice il silenzio»

Se è vero che la storia viene raccontata e tramandata dai vincitori, è altrettanto vero che per molti secoli la letteratura ha avuto la voce quasi esclusiva dei maschi. Alle donne si richiedeva di essere sottomesse, di arrendersi placidamente alla propria sorte e soprattutto di essere silenziose. Mai soggetti narranti, al massimo oggetti vuoti ed esteriori di racconti con protagonisti gli uomini.

Pat Barker ha cercato, ai nostri giorni, di restituire invece una voce a quei soggetti della letteratura che nell'Antichità non l'hanno potuta avere: le donne appunto. Possiamo così leggere una riscrittura dell'Iliade fatta dal punto di vista di Briseide. Quante volte, leggendo questo classico dei classici, questa storia immortale che ha sconfitto il tempo per innumerevoli generazioni, ci siamo trovati al cospetto di questa ragazza! Una schiava, un premio di guerra del famoso eroe Achille. Quante volte ci siamo soffermati a riflettere su quello che poteva voler dire ciò? Essere una schiava, essere un premio di guerra. Pat Barker ci conduce in questo territorio inesplorato e ci fa rivivere la famosa guerra attraverso la voce atterrita e disincantata di Briseide.

«[...] A furia di ripensare al mio tentativo di fuga, mi ero convinta di aver voluto evadere non tanto dall'accampamento degli achei, quanto dalla storia di Achille; avevo tentato, e non ci ero riuscita. Perché questa, badate bene, era la sua storia: la sua ira, il suo dolore. Che io fossi in collera, che soffrissi anch'io, non importava. E invece eccomi di nuovo lì, ad aspettare il momento in cui lui avrebbe deciso che era ora di andare a dormire: ancora in trappola, ancora imprigionata dentro la sua storia, senza una parte autentica da poter definire mia.»

La narrazione si apre con l'assedio da parte degli achei della città di Lirnesso, alleata di Troia. Ben presto i guerrieri greci la espugnano e uccidono tutti i maschi. Briseide è la giovane moglie del re Minete e, insieme alle altre donne, viene fatta prigioniera e portata come trofeo di guerra nell'accampamento greco sulla spiaggia alle pendici della città di Troia. Sarà scelta come premio da Achille, sarà la sua schiava. Briseide è una sopravvissuta: ha visto morire, trucidata per mano di Achille, tutta la sua famiglia. La sua vita precedente non esiste più, non ha più uno status sociale, parenti, protezione. Ma ciò che è più difficile da sopportare è diventare la concubina dell'assassino dei suoi familiari, dello spietato uccisore dei suoi fratelli, di Achille. Briseide è una schiava, è costretta a servire, curare, assecondare i desideri sessuali dei propri nemici. Inizialmente è fiera ed orgogliosa, e prova repulsione verso altre donne che mostrano condiscendenza e attaccamento verso i greci. Eppure con il tempo ogni confine è destinato a sfumarsi, ogni netta separazione sembra sfaldarsi fra chi condivide la stessa condizione della guerra. É vero, la posizione dei guerrieri achei è ben diversa da quella delle schiave troiane, ma alla fine il destino di tutti è subordinato alla stessa logica violenta e disperata della guerra. Una sorte che accomuna tutti, uomini e donne, vincitori e sconfitti.
É in questo contesto che può prendere vita e diventare reale un sentimento affettuoso verso il proprio rapitore, o un gesto ospitale e rispettoso verso il più acerrimo nemico.

«Tuttavia è alle ragazze che penso più spesso. Arianna, che sul tetto della cittadella mi aveva teso la mano prima di gettarsi nel vuoto. Oppure Polissena, che solo qualche ora prima aveva detto: “Meglio morire sulla tomba di Achille che vivere ed essere schiava”. Sul promontorio soffiava un vento freddo, e io rimasi lì, a sentirmi volgare, stupida e abietta al cospetto della loro fiera purezza. Ma poi il bambino scalciò. Premetti forte una mano sulla pancia e mi rallegrai di aver scelto la vita.»

In conclusione quindi, un romanzo riuscito, che, pur facendoci riconsiderare l'Iliade con uno sguardo diverso, ne conserva comunque la potenza e la grandezza letteraria.

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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    13 Settembre, 2019
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la mitologia del vivere sentimentale


Chiara Valerio, responsabile della narrativa italiana per la casa editrice Marsilio, lavora anche a Rai Radio 3. Il suo ultimo libro è Storia umana della matematica. Ora esce con Il cuore non si vede, un libro di grande classe, scritto con una prosa più che perfetta. Purtroppo il contenuto, la trama non è stata di mio gradimento.
Il libro racconta la storia di Andrea Dileva, che una mattina si sveglia, improvvisamente, accanto a Laura, sua moglie, e scopre di non avere più un cuore. Più avanti si scopre manchevole anche dei polmoni. Come è possibile? Come fa a vivere ugualmente? Lui, quarantenne, professore di greco, ottimo studioso , si ritrova in una situazione paradossale. Lui che vedeva:
“Il futuro d’altronde non era roba per lui. Aveva fatto studi classici e insegnava greco, ea un’autorità, e , a tratti, non gliene importava niente, andava in giro per convegni e si annoiava, formava studenti dicendo loro che senza memoria del passato non esiste immaginazione del futuro e probabilmente, mentre lo diceva e ripeteva, ne era convinto, ma no, il futuro non gli interessava. Si situava , come Borges, in un punto indefinito della decadenza dell’impero romano. Il suo sentimento più persistente era il tramonto.”
Lui che considerava
“la mitologia come l’archetipo di ogni cosa”,
non sa come trovare una soluzione. Ragiona e riflette, affermando di essere
“diventato uno studioso di mitologia ma avrei potuto diventare un cocainomane, così esposto alla polverina che dà allegria. “
Potrebbe cercare una soluzione con Carla, la sua amante. Ma lei a sua volta ha un marito, un figlio, un lavoro e con il suo corpo ha sempre avuto un rapporto altalenante. E allora Simone, suo figlio, che gli è molto affezionato e comprende le situazioni più articolate. Ma lui è un bambino, quel figlio che lui avrebbe tanto voluto avere. Simone:
“era il vaso per tutti i fiori raccolti in solitari e meno solitari anni di studio, (…) era la terra per quelli che lui credeva fiori recisi e invece si erano rivelati capaci di semi e germogli.”
In questo modo si forma intorno alla sua persona un coro di donne che raccontano la loro storia, stupendolo con ironia e passione. Fino al finale, sorprendente e metafora dei tempi moderni.
Un libro che mescola mitologia, l’amore per un passato ricco di cultura, profondo e colto, all’oggi, dipinto come insicuro, fragile, poco coinvolgente e superficiale. Un flusso di coscienza ininterrotto, metafora della fragilità e della sofferenza dei sentimenti e della condizione umana. Un ottimo e perfetto esercizio di scrittura, privo di una trama e di un contenuto coinvolgente.

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Religione e spiritualità
 
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archeomari Opinione inserita da archeomari    09 Settembre, 2019
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Una lettura nuova e una nuova consapevolezza

Dopo “Le ultime diciotto ore di Gesù “ in cui si narrava del processo, della tortura e della morte di Yehoshua ben Yosef (Gesù figlio di Giuseppe), Corrado Augias torna a parlare dei testi religiosi, per la precisione dei quattro Vangeli canonici, ma con un taglio innovativo.
Partendo dell’osservazione di Borges, secondo il quale i testi sacri sono un ramo della letteratura fantastica, Augias affronta la narrazione dei Vangeli lontano dal manto fideistico e teologico, come è suo stile e, insieme a Giovanni Filoramo, emerito professore di Storia del Cristianesimo, ci parla dei vari personaggi del racconto evangelico come se fossero personaggi di una qualsiasi pregevole opera di letteratura.
In effetti le Sacre Scritture, considerando tutto il complesso di testi che formano la Bibbia, comprendono anche cantici e salmi, testi poetici in qualche modo, quindi quale punto di vista migliore per leggere anche i quattro Vangeli?
Questa tecnica permette di focalizzare l’attenzione su figure importanti nella vita di Gesù: i suoi genitori terreni, che risultano alquanto sbiaditi nei testi in esame, suo fratello Giacomo (il termine ‘adelphos’ in greco significa ‘fratello di sangue’, ma la Chiesa, per la difesa del dogma della verginità perpetua di Maria, non ammette tale traduzione), il procuratore Ponzio Pilato, Pietro, i componenti del sinedrio, etc. Senza trascurare però i personaggi che dalle narrazioni evangeliche appaiono delle semplici figurine: Lazzaro, i Magi, Barabba, il famoso e sconosciuto legionario che infierisce sul corpo esanime di Gesù e altri ancora.
Nel libro c’è un paragrafo interessantissimo anche sulla natura, che è sempre sullo sfondo delle azioni di Gesù e che si può leopardianamente interpretare come fredda, distante ed indifferente alle sorti umane.
Questo tipo di lettura, sostenuto dalla cultura storica di entrambi gli autori (innegabilmente profonda quella del professor Filoramo) e che non si concentra più solamente sulle ‘intoccabili’ figure di Gesù e/o di Maria, probabilmente susciterà meno polemiche da parte dei teologi e del mondo intellettuale più o meno cattolico, rispetto a quando Augias pubblicò insieme a Mauro Pesce “Inchiesta su Gesù”. Ma non è detto!

Anche nel caso di questo saggio, come per “Inchiesta su Gesù”, la trattazione si svolge sotto forma di conversazione tra Augias e lo specialista di Storia del Cristianesimo, il professor Filoramo e, come al solito, le domande del primo sono tante, ma le risposte univoche, comprensibilmente, sono veramente poche. Il professor Filoramo, lungi dal fare forzature, ricorre comunque a ipotesi probabili e ben ponderate alla luce del confronto dei vari testi e delle notizie storiche in suo possesso. Molto controverso è lo stesso processo contro Gesù, riportato in maniera diversa dai quattro evangelisti che, probabilmente non sono mai esistiti:

“(...) quegli autori non ci sono. I nomi che identificano i vari testi sono attribuzioni convenzionali o di comodo, non corrispondono a delle persone reali. Per esempio: a seconda di come si collocano Luca e Matteo rispetto al più antico Vangelo di Marco, Matteo si rivolgerebbe prevalentemente ad un pubblico giudeo-ellenistico, per cui le date potrebbero essere gli anni Ottanta per Matteo e gli anni Novanta per Luca”.

Spesso ci sono divergenze tra il loro modo di narrare alcuni eventi e anche in contesti in cui essi sono inseriti.
C’è da aggiungere che Augias, nelle sue conferenze non molto tempo fa, ha detto di non volersi “fidare” troppo dell’evangelista Matteo, perché troppo filoromano e lo stesso papa Ratzinger, da teologo , nel suo libro, “Gesù di Nazareth” (2007) lo dichiarò. Questo per evidenziare quanto sia difficile muoversi con disinvoltura tra i Vangeli canonici, essendoci spesso molte incongruenze tra le narrazioni e la spiegazione a tali incongruenze non è affatto semplice, poiché i Vangeli non vennero scritti immediatamente dopo la predicazione di Gesù: addirittura quello di Marco potrebbe risalire al II secolo, cento anni dopo i fatti narrati!

Colpiscono i rapporti genitori terreni-figlio Gesù, sui quali Augias punta la lente e focalizza alcuni aspetti che noi giudicheremmo atipici: l’irrispettosità a volte di Gesù nei confronti della madre (vedi episodio delle nozze di Cana), l’assenza di tatto nei confronti del padre , Giuseppe, quando nomina “le cose del Padre mio”. Questa rudezza viene giustificata dal Filoramo spiegando che Gesù predicava qualcosa che andava contro le Leggi ebraiche che seguivano i suoi pii genitori, ha esplicazione proprio nell’essenza della natura di Gesù e tutto ciò, quindi, comporta atteggiamenti poco riguardosi nei confronti dei genitori. Lui sa di essere l’Eletto.

Come si è detto, Augias insieme a Filoramo cerca di fare una ricostruzione letteraria dei Vangeli , tant’è che quasi in tutti i paragrafi, all’inizio, c’è una narrazione romanzata fatta dallo stesso Augias (un dilettarsi nella narrativa?) degli eventi che verranno poi trattati. Viene sottolineato anche come alcuni famosissimi particolari dei certe storie, siano in realtà degli espedienti letterari, talvolta di matrice ellenistica: il ballo sensuale di Salomè e la seduzione di Erode, il bacio di Giuda (che altro non è che l’agnitio, il riconoscimento, dal momento che non c’era alcun bisogno di indicare fisicamente Gesù ai suoi aguzzini), la stessa morte di Giuda, narrata però stavolta dagli “Atti degli apostoli” con particolari cruenti...
Lascio a voi altre intriganti scoperte, guidati dalla piacevolissima penna di Augias e la preparazione di Filoramo.


Interessantissima la lettura dei personaggi di Giuda e di Maria Maddalena, certamente le più affascinanti, dopo quella del predicatore Gesù, per tutta una serie di vicende che pochi conoscono, ma che gli autori svelano sottolineando anche la loro forte umanità. Non a caso queste figure hanno alimentato le fantasie di artisti, letterati e registi di ogni tempo, a testimonianza di quanto le Sacre Scritture, al di là del messaggio teologico, offrano anche un godimento letterario.

La letteratura è spesso costruzione, non solo ispirazione e i Vangeli stessi, presi in esame parallelamente tradiscono talvolta delle forzature, superate solo da una spiegazione simbolica e teologica. Ma al di là di questa “rigidità teologica” i protagonisti dei Vangeli sono “personaggi della vita, partecipi, uomini e donne, alla nostra comune condizione di mortali”.

Un interessante saggio dall’elegante veste editoriale, dettaglio che non guasta, con la sovracopertina recante l’eccelsa opera del Masaccio, “Il tributo”, perfettamente in armonia con il contenuto del testo.

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Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Innanzitutto i Vangeli e gli Atti degli Apostoli.
Augias - Pesce, Inchiesta su Gesù
Augias-Cacitti, Inchiesta sul Cristianesimo
Augias, Le ultime diciotto ore di Gesù
Augias-Vannini, Inchiesta su Maria
Giuseppe Flavio, Antichità giudaiche
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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    09 Settembre, 2019
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Aurora e il buio

Torna la profiler Aurora Scalviati in L’ultima notte di Aurora, dopo essere già stata protagonista ne Aurora nel buio e Osservatore oscuro. Aurora è una donna difficile, con un trascorso travagliato, nel corso dell’ultima indagine una scheggia le si è conficcata nella tempia sinistra, soffre di un disturbo bipolare, è spesso alle prese con demoni che la tormentano, e sovente si chiede se:
“Si possa mai uscire dal buio?”.
Non è facile avere a che fare con lei, infatti:
“La tua necessità di tenere tutto e tutti sotto controllo è un mostro bulimico, pronto a divorare ogni cosa.”
Per cercare di superare le sue paure si reca alla conferenza del professor Manni, una autorità esperta di disturbi post traumatici. Lì, nel bagno incontra una strana ragazza, dai lunghi capelli neri, che poco dopo si getta dal terrazzo dell’albergo. Aurora è sconvolta ed è ossessionata dalla visione e dalle ultime parole dette dalla ragazza. Contemporaneamente deve occuparsi di un altro caso intricato: un uomo, Alberto Rivalta, viene trovato morto lungo le rive del Po. L’omicidio è particolarmente efferato, l’uomo, infatti, è stato bendato, torturato e il viso scuoiato. In tasca una strana fotografia di una bambina. Peccato che l’uomo non risulti essere sposato, né tanto meno padre. Ad Aurora non resta che indagare. Ma per farlo ha bisogno di rimettere insieme la sua vecchia squadra investigativa, i Reietti: Bruno, dalla cui morte della moglie non ha più notizie; Silvia ora divenuta guardia forestale, e Tom, l’hacker, esperto informatico. Ma non tutti sono disposti ad aiutarla e a tornare operativi. Non tutti vogliono soffrire nuovamente. E Aurora cosa fa? Come risolvere un
“mosaico che cominciava sempre più a prendere forma, assumendo i contorni di una ossessione?”
Un thriller che procede spedito, ambientato nella bassa emiliana, tra le brume e le nebbie fascinose del Po. Un libro ben analizzato e ben congegnato. Un testo preciso e puntiglioso, sicuramente frutto di un ottimo lavoro di ricerca, che si occupa dei demoni della mente, dell’esistenza di altre forme di vita, oltre la morte, di devianza mentale, di depravazione e di pedofilia. Temi trattati con sicurezza e con conoscenza dell’argomento. La vicenda narrata funge da pretesto per la discussione di temi di forte impatto emotivo, che percorrono tutto il narrato. Una lettura che non può che appassionare e trascinare il lettore negli abissi del buio più concreto, per poi emergere nel chiarore del giorno nuovo. Una bella lettura, intrigante ed avvincente.

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Consigliato a chi ha letto e amato Maurizio De Giovanni e la serie dei Bastardi di Pizzofalcone.
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Romanzi
 
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    09 Settembre, 2019
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Un grande romanzo di attualità

«L’Europa ha pensato di fare una cosa simile con i migranti. Quando la gente saliva sui barconi, l’Europa ha cercato di chiudere il Mediterraneo E quando l’Europa si è accorta che non è possibile chiudere un mare intero e sorvegliare una costa tortuosa lunga migliaia di chilometri, allora ha spostato di nuovo il confine sulla terraferma, questa volta però in Africa. Ha pagato l’Egitto, l’Algeria, la Tunisia, il Marocco e un po’ anche i libici, ma un po’ di meno, ovvio. Perché a tutt’oggi nessuno saprebbe a chi darli i soldi, in Libia. Ma agli europei non è bastato. Anche perché i nordafricani hanno imparato la lezione e si sono messi a riflettere ad alta voce su cosa sarebbe successo se non avessero sorvegliato con attenzione quei confini. Lo hanno imparato dai turchi: grazie a loro hanno visto quanto rispetto e attenzione si riceve a far leva sui migranti. Così gli europei hanno messo mano ad altri fondi e tirato la linea successiva a sud del Sahara. Proprio per questo il sogno di Mahmoud di avere un passatore di prima classe non è più divertente. Perché nel frattempo ci sono soltanto passatori di prima classe.»

Siamo in un futuro non troppo lontano, l’era di Angela Merkel è giunta al suo epilogo, lo scenario che si apre innanzi ai nostri occhi è quello di una Europa chiusa e refrattaria ad ogni forma di accoglienza in cui il sistema degli sbarchi clandestini è stato debellato creando una sorta di frontiera invalicabile già nei paesi del nord-africa: pagando questi ultimi ogni forma di immigrazione è sorvegliata a vista in quanto per poter approdare in un paese europeo è necessario disporre di un passatore di prima classe, di disponibilità economiche non indifferenti e attendere, attendere il proprio turno, attendere di aver ricevuto una sorta di autorizzazione dallo stato ospitante che, come in primis la Germania, ha adottato una soglia massima di richiedenti asilo. Si sono così venuti a creare dei veri e propri lager di milioni di persone che semplicemente aspettano. Aspettano talmente tanto che sarebbero disposte perfino ad attraversare il deserto del Sahara a piedi pur di cambiare la loro condizione.
Nel frattempo, la presentatrice tedesca Nadeche Hackenbusch, nota per le sue partecipazioni a diversi reality show che non ne hanno certamente rivalutato la fama e rivalutata dal pubblico del piccolo schermo per aver portato alla ribalta diverse trasmissioni televisive tedesche grazie al suo impegno sociale, di modeste origini (non ce lo dimentichiamo, eh), dedita all’uso preventivo di botulino, ambiziosa e alla ricerca della vera notorietà, viene ingaggiata per recarsi personalmente in uno dei lager più grandi dove dovrà fare una serie di servizi atti a mostrare al pubblico europeo quel che si nasconde e cela dietro la facciata.

«Naturalmente non promette niente. Conclude la visita all’emittente con disinvoltura, come è nota fare. Ma quando è un’altra volta seduta nella sua limousine e detta alla nuova un capoverso della sua filosofia di vita, è ancora distratta anche se questo non è da lei. Si arrabbia quasi e tuttavia i suoi pensieri tornano sempre al trailer come lo avesse già finito di girare. La voce ferma e lei che dice: “Ospite stasera di Nadeche Hackenbusch: sua santità”.»

L’angelo della televisione, Malaika (come si dice in swahili) che aiuta i poveri, è giunta nei lager. In poche ore la voce si è sparsa, Lionel sa che lei è l’unica occasione per andarsene e spalleggiato da 150mila migranti e dal pubblico televisivo che li sta seguendo si mette in marcia verso l’Europa. Gli ascolti raggiungono le stelle, la pubblicità assicura milioni di entrate, il successo per l’emittente è assicurato. Ma la politica? Cosa fa in tutto questo la politica tedesca? Si muove? Valuta il problema? Riflette sul da farsi? No. La politica tedesca semplicemente si volta e attende. Un’attesa calma, placida, silente che vedrà il ministro dell’interno Leubl obbligato ad una scelta soltanto quando il corteo si sarà talmente avvicinato da costituire un vero problema. Cosa fare? Accogliergli o respingerli?
Ancora una volta, seppur a distanza di sei anni da “Lui è tornato”, Timur Vermes torna ad osservarci da vicino e questa volta si concentra sul tema dell’immigrazione nonché sulle pieghe che la nostra società contemporanea ha preso. La soluzione che viene proposta a questa grande e attuale problematica, che si sostanzia in somme di denaro devolute ai paesi africani affinché questi attuino un vero e proprio ferreo controllo a quelli che sono i flussi sino alla creazione di veri e propri campi di concentramento in piena regola, può da un lato risultare una soluzione assurda, dall’altro suscitare i favori di chi non è favorevole ad accogliere queste persone che sanno benissimo cosa lasciano ma non sanno cosa si troveranno davanti. Dittature, genocidi, povertà, guerre, discriminazioni razziali, soprusi, sfruttamenti di ogni genere sono soltanto alcune delle motivazioni alla base del loro spostamento. Vermes ci obbliga a soffermarci sul tema, ci obbliga ad interrogarci. Il lettore viene conquistato sin dalle prime pagine dall’universo che è stato costruito, divora il componimento eppure, una volta giunto alla sua conclusione, non lo mette via, questo continua ad esistere nella sua mente e continua a ripresentarsi suscitando ogni volta diverse riflessioni. Perché il tema dell’immigrazione è un qualcosa di attuale ma anche perché è un qualcosa di irrisolto e a cui una versa soluzione non c’è perché tante sono le ragioni insite alla base, le motivazioni che ne giustificano l’esistenza, le circostanze che lo rendono possibile. È un macro-problema, complesso e stratificato che qui viene analizzato con una doppia prospettiva, quella tedesca quale rappresentante dei popoli europei, quella dei lager nord-africani, quali rappresentanti dei flussi migratori.
Timur Vermes estende fino ai massimi livelli le circostanze narrate, non teme di destare gli animi, non teme di far storcere i nasi e proprio per questo arriva. Arriva grazie alla sua scrittura scevra, al suo stile limpido e accessibile a tutti, il suo stile ironico e acuto, alla sua attenzione costante verso quello che è il mondo che ci circonda in tutte le sue sfumature e drammaticità, grazie ad un epilogo che lascia un deciso retrogusto amaro.
Un libro per tutti e di tutti, un libro di quelli che vanno letti poco alla volta, gustati e fatti propri. Per riflettere, per guardare alla tematica da una prospettiva diversa.

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FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    09 Settembre, 2019
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Rose e spine per Mina

Gelsomina Settembre, detta Mina, è una quarantenne divorziata, di professione assistente sociale. Svolge la sua attività scarsamente e saltuariamente retribuita in un Consultorio ASL sito in un palazzo fatiscente nei Quartieri Spagnoli di Napoli. La sua lotta quotidiana consiste nel sopravvivere alle GdM (giornate di merda), che il destino le ammannisce con sempre maggiore frequenza, e sopportare stoicamente i suoi due Problemi (entrambi con la P maiuscola). Il Primo, e più assillante, è rappresentato dalla madre Concetta. La donna, sin dalle prime ore del giorno, si aggira minacciosa per casa sulla sua sedia a rotelle - che, con cigolii vari, intona gli incipit di popolari canzoni (sempre diverse a seconda dell'oliatura ricevuta) – e non manca occasione per infamarla e sbatterle in faccia che sta invecchiando e che a quarant'anni suonati non ha ancora trovato un straccio d'uomo che la faccia vivere nell'ozio e nell'agio, per quando lei, pensionata invalida, non ci sarà più. Il Problema Due, invece, farebbe la felicità della maggioranza delle donne ma non sua. Mina, infatti, possiede un seno di esuberante, seducente, prorompente fastosità, del tutto ignaro dell’esistenza della forza di gravità. Ma lei lo umilia dentro maglioni informi o casacche monastiche perché le ripugna il fatto che gli uomini vogliano relazionarsi solo con quell'appendice fisica, che lei aborre, e non con la sua intelligenza superiore.
Le giornate al Consultorio, poi, sono sempre ugualmente frustranti, dovendosi confrontare con donne bisognose di aiuto che non vogliono o non possono essere aiutate e con utenti di entrambi i sessi che cercano solo di eludere leggi che non si possono trasgredire. Poi, saltuariamente, arrivano pure i guai grossi, quelli veri, quelli che non ti fanno dormire la notte, come quello che le rivela la piccola Flor. Ha solo undici anni, ma ormai la vita l’ha fatta maturare in fretta e con gli occhi sgranati dal terrore confessa a Mina che il padre, prima o poi, ucciderà di botte la madre, immigrata peruviana, che per lui non è altro che il comodo capro espiatorio su cui sfogare tutti i suoi improvvisi scatti d’ira cieca. Ma che fare, se la donna non vuole sporgere denuncia, a suo dire per difendere la bambina, e il padre è un delinquente d’alto bordo, forse collegato alla camorra e al traffico illecito di armi?
Il microcosmo di guai e insoddisfazioni di Mina, questa volta, poi, si incrocerà a sua insaputa con un problema ancora più preoccupante: a Napoli da qualche tempo sta operando un metodico serial killer che uccide le sue vittime con un colpo di Luger alla nuca, dopo aver fatto recapitar loro dodici rose rosse, gambo lungo. Apparentemente, non c'è alcun collegamento tra i morti, ma è evidente il nesso tra gli omicidi. Nessun altro indizio aiuta le indagini: i carabinieri e il Pubblico Ministero Dott. De Carolis brancolano nel buio, sinché…

Io ho un personale debito di gratitudine nei confronti di Mina: l’ho incrociata casualmente alcuni anni fa poiché era la protagonista di un racconto (“Un giorno di Settembre a Natale”) inserito in una delle numerose antologie stagionali di Sellerio (“Regalo di Natale in giallo”). È stato solo grazie a lei se ho conosciuto la splendida e immaginifica prosa di Maurizio De Giovanni di cui mi sono immediatamente, perdutamente innamorato.
Purtroppo, dopo quel breve incontro, Mina è scomparsa dai radar dei lettori affezionati dell’A. napoletano, apparendo solo in un raccontino ancor più breve sempre inserito in una miscellanea simile.
Quindi è con gioia che ho appreso l’uscita di questo romanzo interamente dedicato a lei.
Dopo una lunga attesa (inspiegabilmente il volumetto è uscito con oltre un anno di ritardo rispetto alla data inizialmente programmata), finalmente ho potuto leggere questa nuova opera di De Giovanni che si distingue nettamente dalle precedenti, note al grande pubblico.
Infatti, dove i romanzi del Commissario Ricciardi sono ammantati da una cappa di cupo pessimismo e di melanconica poesia, solo raramente diradata dai siparietti comici del Maresciallo Maione con Bambinella, i racconti di Mina sono tutti intessuti su una trama di ironia beffarda, di equilibrato umorismo, di graffiante causticità. In essi emerge più che altrove la filosofia dei napoletani per la quale anche le situazioni più drammatiche, in fondo, non sono mai cose serie e il lato comico della vicenda prima o poi emerge.
Poi, dove la serie dei “Bastardi di Pizzofalcone” appare come una fotografia a forti tinte dei mali di Napoli, le storie dell’assistente sociale pettoruta e dei personaggi che le gravitano attorno, invece, mostrano il lato più scanzonato della città partenopea, quello dove basta un po’ di inventiva, qualche sotterfugio al limite del lecito (o anche oltre questo limite, purché sempre sia a fin di bene) per risolvere “il guaio” di turno, per metterci “una pezza sopra”.
L’unico mio timore era che questo genere di storie non reggesse la distanza. Nel breve respiro di un racconto i vari tormentoni, le reiterate “uscite” di Concetta, del portiere-satiro Giovanni Trapanese, detto Rudy, del ginecologo Domenico Gammardella “chiamami Mimmo”, sono gradevoli e strappano più di un sorriso, quando non una piena risata liberatoria. Ma sulla lunghezza di un romanzo ce l’avrebbero fatta a non annoiare?
Sono stato felice di constatare che lo stile e l’abilità letteraria di De Giovanni abbiano vinto anche questa scommessa: “Dodici rose a Settembre” si rivela senza dubbio un buon libro, divertente, a momenti spassoso, pur trattando, coi dovuti rispetto ed empatia, le circostanze dolorose quando non addirittura tragiche che narra e senza rinunciare a qualche frase che fa meditare.
Forse l’A. ha insistito troppo su alcuni tormentoni, forse alcune battute dopo un po’ perdono di efficacia e freschezza, ma complessivamente l’opera è decisamente gradevole e leggibilissima. I personaggi sono ben delineati anche per chi li incontra per la prima volta e lo stile è (manco a dirlo) impeccabile, ma pure brioso e scorrevole.
Gli unici due nei li ho trovati nella trama più propriamente poliziesca. Infatti il killer delle rose rosse assomiglia decisamente troppo, come tipologia, modus operandi e moventi, a quello de “Il metodo del coccodrillo”. Ciò toglie ogni sorpresa al lettore affezionato al quale sembra di assistere ad un déjà-vu.
Inoltre uno dei pochi colpi di scena di tutto il romanzo va perduto per chi già conosce il personaggio di Mina e i suoi trascorsi familiari e, quindi, se lo aspetta sino dall'inizio. Ma va detto in tutta franchezza che questo romanzo non è un giallo in senso classico: l’indagine di carabinieri e PM fa solo da fondale alle tribolazioni della deliziosa assistente sociale. Lei si muove su un piano narrativo differente ed è su quello che va a posarsi la nostra attenzione. Solo nelle battute conclusive si trova a vivere, suo malgrado, una storia ancor più incasinata di quelle che è normalmente avvezza ad affrontare nelle sue consuete GdM, le quali, poi, alla fine, possono pure mostrare un lato non sgradevole e rivelarsi meno dM di quanto temuto.
In definitiva il romanzo è tutto da godere e assaporare.

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Consigliato a chi ama De Giovanni, a chi ama Napoli e a chi vuol passare alcune ore in compagnia di una storia divertente e gradevole. L'aver letto precedentemente i due racconti d'esordio ("Un giorno di Settembre a Natale" e "Telegramma da Settembre") non è condizione essenziale per la comprensione delle situazioni, anzi, in alcune circostanze spoglia un po' la gioia della scoperta.
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siti Opinione inserita da siti    06 Settembre, 2019
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Due ragazzi del '99

È in libreria dal tre settembre il nuovo romanzo di Marcello Fois, scrittore prolifico che spesso ha fatto oggetto di narrazione la sua terra, la Sardegna, immergendo il lettore in atmosfere e ambientazioni pregne di storia, tradizioni, identità e che altre volte ha scritto sperimentando nuovi moduli letterari e abbandonando lo scenario noto della terra di appartenenza. “Pietro e Paolo” sigla il ritorno alla Sardegna , questa volta quella dei primi anni venti del Novecento, quelli immediatamente precedenti e di poco successivi al primo conflitto mondiale. È proprio la guerra è il fattore che determina il cambiamento del rapporto fra Pietro e Paolo, fra il figlio del servo e il figlio del padrone: sono coetanei e a dispetto della loro diversa estrazione sociale coltivano, crescendo insieme, una bella amicizia. Pietro custodisce il sapere antico, quello della terra, della conoscenza della flora e della fauna, Paolo gode del privilegio di poter frequentare la scuola e accedere al sapere , quello veicolato dalla scrittura, quello spesso snaturato dalla mancata conoscenza della realtà per cui si crede a tutto ciò che dice il maestro. I due bambini scambiano i loro saperi, li barattano, li intrecciano abbeverandosi così di un sapere più completo e traendone giovamento entrambi. Svelare oltre della trama andrebbe a rovinare il piacere di una lettura che fa leva sulla curiosità di capire a cosa allude la voce narrante, di sapere che cosa è successo e quale sarà l’epilogo della vicenda. La struttura stessa della narrazione, scandita da brevi capitoletti con una numerazione a ritroso dal sedici allo zero, accompagna velocemente il lettore alla fruizione dell’opera che ha il pregio di far godere di una buona storia capace di far riflettere sul valore dell’amicizia.

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L'amico ritrovato
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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    06 Settembre, 2019
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Le cose più semplici sono quelle più difficili da

"I cambiamenti climatici non sono un puzzle sul tavolino del salotto cui dedicarci quando siamo liberi e ci sentiamo ispirati. E' una casa in fiamme. Più tardiamo ad occuparcene più diventerà difficile occuparcene (...) ben presto raggiungeremo un livello critico di cambiamenti climatici fuori controllo che renderà impossibile salvarci a prescindere dai nostri sforzi."

Messaggio duro, apocalittico, che tutti noi sappiamo essere vero eppure non ci crediamo e individualmente non facciamo nulla che possa contribuire a un miglioramento dell'ambiente. Nella miglior ipotesi ne parliamo con falso pathos, come se fosse un problema di Marte e non nostro e sono sempre gli altri che devono fare qualcosa: le industrie, lo stato, le scoperte tecnologiche, cosa potremmo mai fare noi, 1 contro miliardi di persone e milioni di industrie? Rinunciare alla macchina e preferire i mezzi pubblici, viaggiare meno in aereo e ridurre il consumo di carne e derivati animali?! In primis la nostra rinuncia individuale avrà impatto zero, quindi perché farla? Inoltre, cosa non meno importante, verremo visti come fanatici, strani, incompresi e magari persino derisi dagli altri, quindi a maggior ragione non ha senso farlo - "non penserai mica di poter salvare il mondo?!" -? Siamo di fronte al paradosso del Comma 22 dell'omonimo libro di Heller: chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo.». Nella nostra attualità il paradosso è: per salvare il pianeta tutti noi dobbiamo cambiare stile di vita, ma se gli altri non lo fanno allora non lo faccio nemmeno io! Un circolo vizioso che include tutti noi e il non agire è una trappola mortale per l'umanità. La soluzione c'è e nel caso dell'emergenza ambientale, l'autore ci invita a tutti a creare la ola, l'onda che travolge anche gli altri a reagire. Però questa ola deve avere un punto di partenza, un personaggio forte o un contesto forte che la scateni e gli dia inizio. Questo stesso libro può essere considerato il tentativo di creare una ola perché Jonathan Safran Foer è uno scrittore incredibilmente capace a suscitare emozioni, a smuovere l'animo con semplicità, non ha scorciatoie e va direttamente al cuore e alla coscienza del lettore che anche in questo caso non rimarrà indifferente.

Questo libro è a metà tra il saggio e il romanzo. Contiene il giusto numero di dati scientifici e tesi scientifiche senza mai annoiare il lettore perché essi sono intrecciati sia con esempi comportamentali realmente accaduti in caso di grandi disastri (esempio la seconda guerra mondiale, l'Olocausto e anche alcuni esempi biblici del vecchio testamento) sia con racconti autobiografici. Crea molti parallelismi e a costo di sembrare ripetitivo va a toccare spesso lo stesso punto ma lo fa sempre in un modo diverso, come se volesse essere capito da tutti e rafforzare bene il concetto in chi lo ha già colto, usando esempi dai più disparati: dai risultati degli sportivi alle Olimpiadi alla creazione dell'ola tra le api. Un libro che non è retorico, non incolpa nessuno e non da le solite indicazioni del tipo "comprate le auto ibride o elettriche" (sulle quali lancia un grande dubbio tra l'altro) o "chiedete ai vostri figli di rispettare il pianeta" o ancora "votate i partiti che ci tengono all'impatto ambientale". Lui prende una lente d'ingrandimento e la pone sulle soluzioni più semplici e alla portata di tutti e soprattutto su quelle che hanno maggior impatto in questa battaglia e che noi non vogliamo prendere in considerazione. Auguro al destino di questo libro di poter essere l'inizio di una ola, perché rappresenta un forte grido all'arresto di questo incontrollabile e inutile consumismo. Bel colpo anche questa volta, caro Foer.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    06 Settembre, 2019
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Impossibile o possibile?

«Penso ancora oggi che l’arbitro sia lo scopo e la funzione dello Stato, permettere ai partecipanti uno svolgimento secondo le regole. È ingenuo da parte mia, le vedo bene le disuguaglianze. Ma continuo ad essere un tifoso dell’arbitro. Per più di mezza vita ho studiato la legge per praticare la giustizia nella forma più vicina all’esattezza. Non è arido il Codice se cerca l’equilibrio dei pesi sopra i piatti della bilancia. Considero il mio lavoro un dovere civile. Ho per la giustizia la devozione che altri esprimono attraverso la fede.»

Impossibile che lei non abbia commesso il reato. Impossibile che io sia accusato del delitto. Due uomini, un magistrato istruttore, un ex compagno, un uomo che durante una scalata in montagna, avvistata una persona precipitare, chiama i soccorsi. Ma perché allora, il funzionario, è così sicuro della sua colpevolezza? Perché sostiene a così gran voce che in verità la caduta non è stata accidentale bensì premeditata? Perché è convinto che sia stato proprio il fermato a spingerlo giù dalla Cengia? Forse perché i due si conoscevano? Forse perché il deceduto quarant’anni prima si era reso colpevole di tradimento denunciando quelli che erano suoi alleati diventando collaboratore di giustizia? Ma a quale scopo? Per quale ragione?

«Chi ha commesso un tradimento ha tradito anche se stesso. Per quanto si convinca di avere fatto la cosa necessaria, ha strappato una parte di sé, dalla sua gioventù. So di un efficiente traditore che accompagnava i carabinieri nei luoghi dove potevano arrestare i suoi compagni, perché erano per lui le persone migliori che aveva conosciuto. Sapeva che sarebbero stati torturati, ma pure tradendoli, continuava a stimarli.»

Una faccenda, quella narrata, che riguarda il detenuto e l’istruttore che rappresenta lo Stato. Un duello tra presente e passato, tra individualità e senso di collettività, di solidarietà, tra valori di un tempo e valori di un altro, tra uomini che hanno vissuto un periodo storico e altri che ne hanno appreso i colori e le sfumature sulla carta, sui verbali. A far da sfondo la montagna, che è anche movente con la sua immobilità, con la sua impossibilità. Un interrogatorio, quello che ha luogo, che non risparmia colpi, che non ha remore, che passa dalla natura alla letteratura citando addirittura Leonardo Sciascia concentrandosi nel periodo in cui quest’ultimo ricoprì il ruolo di parlamentare ed evidenziando come moralità umana e legalità talvolta possano non trovarsi sullo stesso piano.

«Può darsi. Opposto invece è sottolineare la propria presenza, il desiderio ossessivo di lasciare traccia, immagine, espressione. Voler aggiungere il proprio nome all’elenco delle celebrità, così innumerevole da coincidere con l’anonimato. L’ossessione di farsi dichiarare notevole dagli altri non mi riguarda. Sono stato di una generazione che ha agito in nome collettivo perciò considero insignificanti le individualità, le personalità.»

Con “Impossibile” Erri de Luca offre al suo pubblico un romanzo intelligente, di facile lettura ma non di contenuto irrisorio, anzi. Al suo interno, tra lo scontro verbale che prende campo tra i due protagonisti, vengono affrontate molteplici tematiche della nostra società, della sua evoluzione, di quel che è diventata. Già dall’impostazione grafica – viene utilizzato il carattere che soventemente è di uso per la stesura dei verbali in tribunale e non solo – l’opera conquista e lascia il segno. Nel suo scorrimento il lettore più attento viene invitato ad interrogarsi su questioni di grande attualità che dimostrano e confermano la particolare attenzione politica e sociale di uno scrittore non indifferente al nostro quotidiano.

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Mario Inisi Opinione inserita da Mario Inisi    05 Settembre, 2019
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La strada

Questo romanzo di Eggers è veramente molto bello. Ricorda per alcuni tratti Il deserto dei tartari di Buzzati e anche La strada di Cormac, dato che proprio della costruzione di una strada tratta il romanzo. Questa strada viene costruita in un paese presumibilmente africano, devastato da una guerra civile, in cui ancora girano fazioni nemiche. Dovrebbe essere un simbolo di rinascita dopo la devastazione, di pace dato che entrambe le fazioni collaborano alla costruzione, dovrebbe portare vita, aiutare forme di commercio, facilitare la vita alla gente, per esempio ai malati che necessitano di cure mediche disponibili solo nella capitale. Il lavoro viene svolto da una ditta che vuole restare anonima e da due soli dipendenti della ditta 4 e 9. 4 deve guidare l’asfaltatrice e 9 è incaricato di rimuovere gli ostacoli incontrati lungo la strada. 4 e 9 nemmeno tra loro si scambiano informazioni anagrafiche. Queste, sarebbero pericolose, se rese note li metterebbero a rischio di rapimento a scopo di estorsione. La strada viene costruita nel “deserto” cioè in un paese senza infrastrutture, devastato dalla guerra dove la gente vive in estrema povertà e in condizioni igieniche disastrose. Lungo la strada si incontrano tracce della guerra, enormi sacchi neri, carri armati, carcasse di aerei e anche gente che si riunisce, festeggia, accoglie, offre alcolici e cibo locale (scarso) prevandosene. Immagini di morte e di speranza si alternano nel romanzo e sono immagini così forti che sono quasi simboliche. I cumuli di sacchi neri ad esempio, e il bambino fermo nel mezzo della strada. E’ veramente bello come 4, soprannominato Orologio per la sua dedizione al lavoro, si preoccupi del bambino e lo prenda in braccio, gesto notato e apprezzato dai parenti del bambino. Eggers propone come suo solito una storia di amicizia, anzi più storie di amicizia. Una tra 4 e 9, due persone molto diverse, 4 pignolissimo e scrupolosissimo nel lavoro, 9 all’opposto un edonista che sembra far tutto meno che lavorare. Ma racconta anche l’amicizia tra persone di culture diverse e questi incontri sono prima minati dal sospetto poi man mano più tranquilli fino a creare un legame forte. Eggers è molto bravo a far partecipare il lettore all’asfaltatura della strada, a farlo preoccupare del rispetto dei tempi, a fargli scoprire la gente locale, generosa, buona, ospitale, ingenua, come tutti sono ingenui rispetto alla capacità di calcolo delle grandi organizzazioni governative o imprese. E’ molto bello entrare pagina dopo pagina nel mondo di 4, nella sua “musica”, nel suo amore per i bambini, e anche la sua apertura progressiva verso la gente del posto accantonando pregiudizi e paure. Bellissimo poi il contrasto di questa estrema apertura al termine del lavoro, con il finale. Il finale ci riporta alla strada di Cormac, alla considerazione che il vero nemico non è l’uomo ma l’organizzazione. Questa fantomatica organizzazione che lavora assoldata da uno stato perseguendo un fine di lucro non può che prestarsi a essere uno strumento di morte. Questo romanzo ricorda per il clima surreale anche Ologramma per il re, ma secondo me è migliore di Ologramma. E’ veramente un bellissimo romanzo e, in questi tempi di chiusura mentale, un romanzo necessario.

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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    19 Agosto, 2019
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"Il Mediterraneo è..."

È difficile, forse impossibile, provare a dare una definizione chiara e concisa di Mediterraneo, questo Mare Nostrum così affollato di Storia e storie, senza rischiare di perdersi in rivoli di pensieri e osservazioni filosofeggianti. Persino uno scrittore del calibro di Georges Simenon resta, come lui stesso confessa, “con la penna a mezz’aria, in seria difficoltà”, cercando per esso una definizione appropriata.
Prende così avvio, con l’assorto tentativo di completare la frase “Il Mediterraneo è…”, questa nuova pubblicazione dell’Adelphi che intende inaugurare una serie di reportage del celebre autore belga; gli articoli racchiusi tra queste pagine risalgono al 1934, quando furono pubblicati su un settimanale francese durante l’estate del medesimo anno, a seguito di una crociera a bordo di una goletta italiana. È dunque un Simenon in un certo qual modo inedito – di certo, non troppo noto al grande pubblico – quello che qui si svela al lettore, sebbene, anche da cronista, egli non rinunci mai del tutto al suo ruolo di narratore.

“[…] vi prometto che d’ora in poi non mi dimenticherò mai più che il mio mestiere, come diceva Stevenson, è quello di «raccontatore di storie».”

E le storie, infatti, non mancano in questo suo affascinante andare per mare, come quella della donna senza cuore o, ancora, quella dei cugini; storie che viaggiano anch’esse attraverso i flutti correndo, spesso, di bocca in bocca tra i marinai; storie che emozionano, stupiscono, atterriscono a seconda dei casi, dipingendo un’umanità variegata, a volte stracciona e vagabonda in cerca di semplice sopravvivenza, a volte più ricca e organizzata a caccia di affari lungo le coste del Mediterraneo, piccolo mare, anzi “piccolissimo”, in cui si finisce per incontrare sempre le stesse imbarcazioni che “nell’incrociarsi, si fanno dei gran gesti di saluto.”
Dalla costa francese alla Tunisia, dall’isola d’Elba a quella di Malta, ombelico mediterraneo, senza tralasciare Sicilia e Sardegna, la navigazione di Simenon è occasione per parlare di quei singoli luoghi e, allo stesso tempo, di tanti altri; ed è così che, miglio dopo miglio, porto dopo porto, si delinea ciò che è il Mediterraneo: il maestrale che tarda ad arrivare, un “campo di golfi”, un intreccio di profumi, colori e sapori, l’acqua limpida rischiarata dalla luce della luna, banchi di tonni e sardine inseguiti dai pescatori, l’illusione di un approdo che invece si allontana, isole che spuntano un po’ ovunque, l’amaro ricordo di chi è costretto a emigrare verso altri mari e sconfinati oceani… E tanto altro ancora.
Una più che buona lettura, in particolar modo entusiasmante soprattutto nella prima parte, sostenuta da uno stile “narrativo” di alto livello che tratta con identica enfasi pescatori di murene, esche da pesca e bordelli, mentre la scrittura si colora spesso di fine ironia e si fa colloquiale in un tu per tu con chi legge che non può che renderla più coinvolgente.
Corredato di un gran numero d’immagini che si devono alla Leica di Simenon, il libro testimonia anche la grande passione dell’autore per la fotografia, la quale per lui – come ben sottolinea Matteo Codignola nella sua interessante nota conclusiva – altro non era che “una prosecuzione della scrittura con altri mezzi”. In fin dei conti, il Mediterraneo, bizzarra somma delle più disparate cose, non è pur sempre uno o più scatti da conservare nell’album dei ricordi?

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Chiara77 Opinione inserita da Chiara77    06 Agosto, 2019
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Storie di donne

Un sapore amaro caratterizza i vari racconti che compongono questo scritto di Anita Nair, piccole narrazioni che raccontano storie di donne: donne abbandonate, insoddisfatte, sottomesse, donne vittime di violenza, perseguitate, abusate, ma anche donne coraggiose, indipendenti, talentuose.

Il romanzo presenta una struttura un po' particolare: tutto inizia e ruota attorno alla storia di Srilakshmi, che si svolge in India nel 1965; lei è una donna apparentemente appagata, ha raggiunto fama e notorietà come scrittrice, nello stesso tempo è una scienziata, una zoologa che insegna al college. In realtà Srilakshmi è una donna sola, ha rifiutato di sposarsi a 16 anni come hanno fatto le sue sorelle, ha voluto studiare, non ha voluto essere al servizio di un uomo per poter inseguire i suoi autentici desideri. Ha raggiunto il suo obiettivo ma al prezzo di essere continuamente giudicata, in una società ancora fortemente patriarcale e maschilista. Non ha voluto seguire le regole che le avrebbero imposto un marito scelto dalla famiglia, di conseguenza, secondo la morale comune, adesso deve rinunciare completamente all'amore. Così, in un giorno feriale, un lunedì limpido e luminoso, si toglie la vita. La sua anima però non è libera di raggiungere un Aldilà o di reincarnarsi in qualche altra creatura; il suo spirito rimane intrappolato in questo mondo e, per ragioni che non voglio svelare a chi eventualmente vorrà leggere il libro, si ritrova, molti anni dopo la morte, in un albergo di lusso dei giorni nostri, il “Near the Nila”. É in questo hotel che il fantasma di Srilakshmi entra in contatto con le storie di quelle donne di cui parlavo inizialmente. Ed è per questa particolare struttura narrativa che, con “Sapore amaro” possiamo leggere sia un romanzo breve -la storia di Srilakshmi- sia una raccolta di racconti, che ci narrano le vicende di diverse donne, protagoniste di storie difficili, aspre, tormentate, penose, che hanno a che vedere con la condizione femminile.

C'è Urvashi, una donna di mezza età, benestante, insoddisfatta del proprio matrimonio, che viene perseguitata dal suo amante. C'è Najma, giovane insegnante deturpata con l'acido da un uomo che era stato da lei rifiutato. C'è la piccola Megha, bambina di 6 anni violentata da un pedofilo. C'è Brinda, straordinaria campionessa di badminton che ha sacrificato l'infanzia e l'adolescenza per le vittorie sportive. C'è Liliana, una ragazza italiana la cui vita rischia di andare in pezzi dopo aver fatto una sciocchezza ad una festa che è stata ripresa e diffusa su internet. E non è finita qui. Ci sono altre storie, altre vite di donne che vengono raccontate.

In conclusione quindi, una lettura apparentemente poco impegnativa ma in realtà molto stimolante per chi è interessato alla questione femminile nel mondo odierno. Un romanzo che permette di entrare in contatto con alcune storie molto attuali e molto tristi e che lascia un retrogusto particolarmente amaro. Amaro come il sapore di una vespa, inghiottita da una bambina troppo ingenua ed orgogliosa pensando di poter gustare miele dolcissimo e che invece lascia in bocca un gusto particolarmente acre.

«Una mattina, mentre mi trovavo presso l'alveare, una delle api si lanciò contro di me emettendo un forte suono iroso. Come mi si avvicinò, aprii la bocca. L'ape ci volò dritta dentro e io l'addentai, pronta a ricevere il miele di cui la sapevo piena.
Non avevo mai sentito un sapore tanto fetido e acre. [...]»

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A chi è interessato alla condizione femminile.
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Racconti
 
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    02 Agosto, 2019
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Un'inquietante lettura estiva

Sebbene in copertina vengano menzionati Stephen King e Bev Vincent, loro sono soltanto i curatori di quella che è una raccolta di diciassette racconti a tema "viaggi ad alta quota", alla quale hanno contribuito entrambi con un racconto a testa, in mezzo ad altre storie raccontate da autori di tutti i tipi e tempi. Dunque troverete autori leggendari come Arthur Conan Doyle e Ray Bradbury, contemporanei più famosi come lo stesso King oppure Dan Simmons, insieme a penne meno conosciute.
E' ovviamente superfluo soffermarsi sullo stile, data la varietà di autori che differiscono molto tra loro sia per linguaggio, sia addirittura per genere: perché nonostante si soffermino su un tema in comune, alcuni si soffermano più sull'orrore, altri sulla fantascienza, altri sul realismo. Questo però è un punto a favore per quanto riguarda la varietà delle storie: si passerà infatti da storie ambientati in vecchi aerei monoposto, ai grandi uccelli d'acciaio per trasportare decine e decine di passeggeri. Anche la piacevolezza dei racconti è molto variabile: alcuni mi sono piaciuti parecchio... altri avrebbero potuto, secondo me, essere saltati a piè pari. Ci sono alcuni racconti davvero degni di nota che, come è prevedibile, sono quelli scritti dalle penne autorevoli che ho citato prima. Pur non raggiungendo picchi di eccellenza superlativa, questa raccolta può essere un'ottima scelta per delle letture mordi e fuggi tipiche della stagione estiva.

Dunque, se siete persone che hanno già paura di volare, forse questo libro non è proprio quello che fa per voi, considerato che si tratta sempre di storie che non presentano premesse incoraggianti per quanto riguarda il volo; in realtà si può dire che ci vengano presentate tutte le possibili cause che possono portarlo a finire male, nei limiti del normale e anche oltre. Dunque aspettatevi storie cariche d'ansia e tensione; preparatevi a fronteggiare viaggi nel tempo, mostri d'ogni tipo e guasti meccanici di vario genere.
Un'opzione valida per chi cerca qualcosa di leggero da portarsi dietro in spiaggia.

"Se i pionieri dell'aviazione potessero vedere la bellezza e la perfezione dei meccanismi di cui disponiamo oggi grazie al sacrificio delle loro vite!"

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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    25 Luglio, 2019
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Preziose cicatrici



Yoshie è un sopravvissuto.
Era ancora un bambino quando, insieme a suo padre, si trovava a Hiroshima il giorno in cui fu sganciata la bomba atomica.
Era solo un bambino quando si è ritrovato, senza più un padre, in quel luogo,  in quel nulla senza contorni, in cui "tutto era mescolato con tutto".
Era solo un bambino quando, poco dopo, la bomba su Nagasaki si portò via il resto della sua famiglia.
Non rimase più nulla.
"Sua madre e le sue sorelle erano irrintracciabili persino come morte: smisero di esistere due volte".
Yoshie cresce con gli zii, studia e poi cerca di cominciare un'altra vita...e passa tutta la vita a cercare di cominciare altre vite, cambiando continuamente luoghi e persone (da amare), cercando un posto dove poter risultare irraggiungibile a se stesso, dove poter seminare i ricordi, nella speranza di cancellare tutte le cicatrici, ben visibili e ramificate sulla sua schiena e nell'anima.
Parigi, New York, Buenos Aires e Madrid.
Rispettivamente Violet, Lorrie, Mariela e Carmen.
Le città che lo hanno accolto e le donne che lo hanno amato...e perso.
Sono loro che ci parlano di Yoshie, ci raccontano di un uomo silenzioso, solitario, uguale e sempre diverso.
Un uomo a cui manca sempre qualcosa.
E quel qualcosa forse lo troverà molti anni dopo, quando, ormai anziano, si deciderà a tornare in Giappone...e il terremoto/tsunami del 2011, con la conseguente esplosione della centrale di Fukushima, lo obbligherà a fare i conti con tutte le cicatrici che si porta addosso (e dentro) sin dall'infanzia.
Capirà che la soluzione non è nasconderle, queste cicatrici, ma come insegna il Kintsugi, impreziosirle con l'oro...perché ciò che ha subito un danno, ed è sopravvissuto, è ancora più prezioso, più importante.
E lui dovrà cercare il suo oro nei luoghi semideserti delle zone evacuate vicino Fukushima , dove, dopo tanti anni, ritroverà quel "silenzio" che non è semplicemente mancanza di rumore, ma un silenzio specifico, di scomparsa simultanea, un silenzio che è totale assenza.

Pagine dense, dalle quali traspare il lavoro immenso che c'è dietro.

Eppure...nonostante l'interesse per il tema trattato e nonostante la bravura di Neuman (di cui ho apprezzato moltissimo "Parlare da soli", "Le cose che non facciamo" e "Vite istantanee"), ho trovato questo libro a tratti noioso.
Forse il mio limite, perché sicuramente è un limite mio, sta nel fatto che questo non è solo un romanzo, è anche un po' un saggio, indagine giornalistica, ricerca storica, politica, antropologica...mentre io forse cercavo principalmente il risvolto psicologico di un uomo che ha passato la vita a cercare di ricomporre i pezzi della sua identità, di sanare quella frattura interna che lo ha segnato nel suo cammino attraverso un secolo e un mondo ferito.

Comunque un libro importante, che prende posizione e non lascia indifferenti.

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