Narrativa straniera Romanzi La festa del Caprone
 

La festa del Caprone La festa del Caprone

La festa del Caprone

Letteratura straniera

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Urania Cabral, figlia dell'ex presidente del Senato di Trujillo, torna in patria dopo trentacinque anni e, dalla sua stanza dell'Hotel Jaragua parte per un viaggio nella memoria, per una non rinviabile chiusura dei conti con il passato. Di continuo, però, cede la scena ad altre voci protagoniste e a un irrefrenabile bisogno dell'autore di percorrere il tempo, avanti e indietro con incalzanti flash back. Ne viene fuori una ricostruzione dal vivo dell'attentato in cui il Chivo (Trujillo) perse la vita, ma soprattutto un quadro della condizione umana a Santo Domingo, quando la corruzione era un obbligo e il libero arbitrio non era più praticabile.



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La festa del Caprone 2025-09-03 13:26:09 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    03 Settembre, 2025
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INDAGINE SU UNA DITTATURA

“Per la sua cartografia delle strutture del potere e per le sue immagini acute della resistenza, della rivolta e della sconfitta dell’individuo.” (Motivazione del Premio Nobel per la Letteratura assegnato nel 2010 a Mario Vargas Llosa)

“Trujillo, uno dei dittatori più infami del XX secolo, governò la Repubblica Dominicana fra il 1930 e il 1961, con implacabile e spietata brutalità. Trujillo […] era un mulatto sadico, corpulento, dagli occhi porcini, […] che arrivò a controllare praticamente ogni aspetto della vita politica, culturale, sociale ed economica della RD grazie a una potente (e ben nota) miscela di violenza, intimidazione, massacri, stupri, cooptazione e terrore. Trattava il paese come una piantagione, di cui si considerava il padrone assoluto. Di primo acchito poteva sembrare il tipico caudillo latinoamericano, ma il suo potere raggiungeva estremi che pochi storici o scrittori hanno saputo cogliere, e nemmeno, a mio parere, immaginare. Era […], un personaje così bizzarro, così perverso, così spaventoso che neppure uno scrittore di fantascienza avrebbe potuto inventarlo. Famoso […] per aver monopolizzato ogni porzione del patrimonio nazionale (cosa che lo trasformò rapidamente in uno degli uomini più ricchi del pianeta); per aver messo in piedi uno dei più grossi eserciti dell’emisfero (…); per essersi scopato ogni femmina sexy che gli capitava sotto tiro, migliaia e migliaia di donne, comprese le mogli dei suoi collaboratori; per aver richiesto, anzi, preteso una venerazione assoluta da parte del pueblo (lo slogan nazionale, per esempio, era “Dio e Trujillo”,[…]); per aver governato il paese come un campo d’addestramento dei Marines; per aver privato amici e alleati del lavoro e di ogni possedimento senza alcun motivo; e per le sue capacità quasi soprannaturali.” (Junot Diaz: “La breve favolosa vita di Oscar Wao”)

Se da una parte si può ragionevolmente sostenere che Gabriel Garcia Marquez, con “L’autunno del patriarca”, abbia scritto il romanzo definitivo sui totalitarismi che nel Novecento, come un terribile cancro, si sono avvicendati in gran parte del continente centro e sudamericano, creando un personaggio immaginario e indimenticabile, atemporale fino a sfiorare l’eternità ed eccessivo al punto da contenere in sé i molteplici tratti che hanno contraddistinto i vari caudilli del mondo reale, dall’altra non si può negare che sia stato Mario Vargas Llosa a perlustrare con instancabile caparbietà tra le pieghe della Storia per affrontare nelle sue opere le pagine più nere, ancorché meno conosciute, delle feroci dittature e delle sanguinarie autocrazie latinoamericane, da quelle di Manuel Odria nel Perù di “Conversazione nella Catedral” a quella di Carlos Castillo Armas nel Guatemala di “Tempi duri”, passando per quella di Rafael Leonidas Trujillo Molina nella Repubblica Dominicana de “La festa del Caprone”. In quest’ultimo romanzo lo scrittore peruviano ci ha consegnato il ritratto impareggiabile di una tirannia il cui aspetto più tremendo e spaventoso non è stato tanto quello delle violenze, delle torture, della corruzione e della sistematica spoliazione di un’intera nazione, quanto quello dell’asservimento assoluto di un popolo al suo capo, a cui aveva ciecamente consegnato corpi, anime e coscienze. Il culto della personalità di Trujillo, elevato al rango di un vero e proprio dio in terra (un dio terribile ma giusto, feroce ma munifico), aveva dato luogo a una acquiescente docilità e a una servile reverenza tali che i suoi sudditi, nonostante le atroci ingiustizie cui erano stati sottoposti per anni, erano giunti ad assuefarsi all’orrore (un esempio tra i tanti, stranamente poco conosciuto al giorno d’oggi, è l’eccidio di circa ventimila immigrati haitiani, passato alla storia con il nome di “massacro del prezzemolo”) e addirittura, obnubilati da una pervasiva ed asfissiante propaganda, ad amare il loro dittatore. Non è un caso che la congiura raccontata dal romanzo di Vargas Llosa, che porterà alla morte di Trujillo, non è mai stata una rivoluzione popolare (perché i dominicani rimasero fino alla fine fedeli al regime e si presentarono in massa a rendere omaggio al feretro del “Padre della Patria”) ma una cospirazione nata all’interno della classe medio-alta (rappresentanti dell’Esercito, funzionari della pubblica amministrazione), per motivi in gran parte personali (umiliazioni subite, persecuzioni familiari, ecc) più che ideali e politici. L’attentato a Trujillo è il centro intorno a cui ruota tutto il romanzo, conferendogli quell’appassionante ritmo da thriller politico, capace di avvincere il lettore e di tenerlo incollato per tutte le sue quasi cinquecento pagine. Vargas Llosa segue come un’ombra i personaggi coinvolti nell’omicidio di Trujillo, tanto nelle ore che lo hanno preceduto quanto in quelle successive della repressione e della spietata caccia ai responsabili. Ma a caratterizzare veramente il romanzo, a renderlo così unico e difficile da dimenticare, è a mio avviso la sua parte “moderna”, quella che descrive il ritorno a Santo Domingo dopo trentacinque anni di volontario esilio negli Stati Uniti di Urania, la figlia di un potente uomo del governo trujillista poi caduto in disgrazia. La donna visita il vecchio padre malato e il resto della famiglia, con cui aveva troncato tutti i rapporti, in una sorta di definitiva chiusura dei conti con il passato. L’odio di Urania per suo padre emerge lentamente, progressivamente, e il disvelamento repentino dei motivi che lo hanno provocato ha l’effetto di un pugno nello stomaco, tanta è la crudeltà di quello che è successo nel lontano passato della donna, allora ragazzina di quattordici anni, la cui verginità era stata a sua insaputa offerta dal genitore in sacrificio al Capo per cercare di riguadagnare la sua benevolenza perduta. L’abilità in qualche modo “perversa” di Vargas Llosa è di farci percepire l’orrore all’improvviso, quasi alla fine del libro, e di renderci contemporaneamente consapevoli, retrospettivamente, che quell’orrore era sempre stato lì fin dall’inizio, solo che non ce ne eravamo accorti, distratti dalle tante circonvoluzioni della trama. Così è in fondo anche per la storia della Repubblica Dominicana (ma, a ben vedere, anche delle tante dittature, siano esse centro-sudamericane o meno), la quale da un lato mostra un volto benevolo e tranquillizzante (come quello dell’ex modello Manuel Alfonso, assurto ad elegante e raffinato ambasciatore della nuova Repubblica, o quello del colto poeta Balaguer, nominato da Trujillo Presidente della Repubblica perché estraneo alle vicende più ambigue del regime), dall’altro cela al suo interno il suo aspetto irrimediabilmente luciferino, bestiale e mostruoso.
Siccome “La festa del Caprone” è un’opera di Vargas Llosa (e persino una delle sue più rappresentative, se non addirittura delle sue più memorabili) non può stupire più di tanto il fatto di trovare in essa i tratti caratteristici dei romanzi che lo hanno reso famoso, ossia la commistione di presente e passato, di storie individuali e di Storia collettiva, e persino i “dialoghi telescopici” innestati l’uno sull’altro pur avvenendo tra persone e in tempi diversi. E’ vero che qui lo stile è molto meno avanguardistico rispetto alla celebre “Conversazione nella Catedral” (addirittura nella sua prima metà il libro è rigorosamente tripartito, con le parti relative a Urania, a Trujillo e ai congiurati disposte in un rigido schema 1,2,3,1,2,3, e così via), pur tuttavia bisogna riconoscere che la maestria dell’autore nel tenere costantemente viva la suspense e nel creare spiazzanti e spericolati colpi di scena non viene mai meno. Vargas Llosa riesce inoltre magistralmente nell’intento di descrivere quell’atmosfera asfissiante e tossica di una nazione in ostaggio del suo leader e in preda al fatalismo e alla paura, un’atmosfera talmente incistatasi nello spirito della popolazione che neppure la morte del tiranno riesce a dissipare completamente, tanto è vero che la stessa Urania è costretta con amarezza a riconoscere alla fine, quasi rivivesse una sorta di incubo ricorrente di cui non ci si può mai liberare del tutto, che “c’è ancora qualcosa di quei tempi che è nell’aria da queste parti”. Questa frase può ben sintetizzare il monito che Vargas Llosa ci ha lasciato con le sue opere, vale a dire che la democrazia, la libertà e i diritti civili e politici non sono poi così scontati e definitivi, ed il passato, mai completamente sepolto, può sempre riemergere in qualsiasi momento per ristabilire il regno dell’odio, dell’oppressione e dell’oscurantismo.

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Mario Vargas Llosa: "Conversazione nella Catedral"
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La festa del Caprone 2016-11-21 15:32:03 Jari
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Jari Opinione inserita da Jari    21 Novembre, 2016
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Incubi da una dittatura morente

Su tre differenti piani narrativi si intrecciano le vite dei membri dell'elite di una dittatura al tramonto, degli eroici cospiratori che quella dittatura contribuirono a far crollare e di una delle tante vittime del regime, che 35 anni dopo la sua fuga torna nel suo paese per affrontare i suoi antichi fantasmi, di cui veniamo a conoscenza solo nell'ultimo, sconvolgente capitolo. Sullo sfondo, la Repubblica Domenicana di inizio anni 60, governata da decenni con pugno di ferro dal "chivo" Trujillo e da un sistema di potere popolato da figure fra il grottesco, il sadico ed il patetico, con poche eccezioni, fra cui quel Balaguer che saprà con intelligenza e senso dello stato traghettare il paese verso la democrazia. Romanzo di eroismo civile e di condanna delle degenerazioni del potere. Appassionante. Da leggere.

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