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Il silenzio delle ragazze
 
Il silenzio delle ragazze 2020-02-17 10:48:48 FrancoAntonio
Voto medio 
 
3.3
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
3.0
Piacevolezza 
 
3.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    17 Febbraio, 2020
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Il pianto corale delle troiane

“Cantami, o Diva, del Pelide Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei”. Quanti di noi hanno imparato a memoria questi versi? E quanti di più hanno anche solo sentito nominare il ratto di Elena, le gesta di Ettore, la saggezza di Nestore, l’astuzia di Odisseo, l’audacia dei due Aiace, il dolore di Andromaca, lo strazio di Priamo?
Che si sia letta l’Iliade, faticosamente tradotto Omero o soltanto udito il racconto della guerra di Troia, sono tutti fatti di dominio pubblico, al punto che anche i registi hollywoodiani si sono sentiti in diritto di sfruttarli e, magari, storpiarli a loro piacimento.
Però la "storia ufficiale" che ci viene narrata è quella tramandata dai greci, i discendenti di coloro che vinsero la guerra: gli achei maschi. Mai nessuno, sino a oggi, aveva tentato di dar voce a chi la sua versione mai ebbe l’opportunità di farla udire: le donne sconfitte, le abitanti di Troia e delle città alleate, fatte schiave dagli invasori.
Chi, meglio di Briseide, già regina di Lirnesso e, poi, schiava di Achille e casus belli del dissidio tra il Pelide e Agamennone, poteva farsi portavoce del dolore di questa umanità sofferente e violata? Ne “Il silenzio delle ragazze” l’A. si cimenta in questo interessantissimo esperimento, molto in linea con le rinnovate istanze di parità di trattamento tra uomo e donna.
Così si diventa partecipi della ipotetica storia di questa giovanetta. Prima sposa-bambina di Minete di Cilicia. Poi spettatrice della caduta di Lirnesso, dove Achille fa strage tra gli abitanti. In seguito “premio” dato in dono all'eroe acheo e oggetto della contesa tra questi e Agamennone. Infine testimone degli strazi che la guerra produce equamente tra i vinti e tra i vincitori sino al crollo finale di ogni speranza assieme alle mura di Troia.

Anni fa avevo apprezzato moltissimo “Il canto di Troia” dell’ottima Coleen McCullough, dove l’autrice australiana aveva provato a raccontare i fatti spogliandoli dal mito, sbattendo fuori dalla vicenda gli dei e le loro intrusioni inopportune, limitandosi a narrare una storia di uomini con le loro imperfezioni, i loro limiti e le loro pulsioni. Prendendo in mano questo volume speravo di trovarmi di fronte a una operazione similare che mi facesse ascoltare l’altra campana, quella degli sconfitti, anzi, delle donne sconfitte e umiliate.
Probabilmente le mie aspettative erano troppo alte e sono andate deluse: la Barker non s’è rivelata adeguata al compito che, lo riconosco, era difficile. Per rendere concrete e tangibili le sofferenze di Briseide e delle altre si sarebbero dovuti calare i personaggi nella loro dimensione umana. L’A., invece, non avuto il coraggio di abbandonare il mito dal quale si discosta solo a corrente alternata rifiutando alcuni fatti non meno incredibili di altri che, invece, accetta placidamente. Così ci viene ammannita una versione riflessa del racconto omerico, cioè vista attraverso uno specchio (troiano) che un po’ distorce e un po’ offusca. Conseguentemente dalla lettura non apprendiamo molto di più di ciò che già sapevamo: che Achille conserva la sua natura semi-divina ed è iroso come un cane idrofobo; Agamennone è un tiranno privo di raziocinio e uno stupratore arrogante; Odisseo è subdolo e intrigante; Patroclo è gentile e quasi femmineo. Non ci vengono forniti approfondimenti o giustificazioni (credibili) per questi caratteri stereotipati.
Il racconto che ci fa in prima persona Briseide perde rapidamente di mordente e diviene una ripetitiva e monotona lamentazione contro la crudeltà achea e sul suo stato servile di “cosa” nelle mani degli invasori. Ha lo stesso ritmo monocorde del coro delle tragedie greche. Invece di essere il filo conduttore della storia ne diviene solo l’accompagnamento di sottofondo mentre questa resta, sostanzialmente immutata, quella cantata da Omero. Gli unici sentimenti di cui ci fa partecipe la ragazza sono il rancore nei confronti di coloro che la tengono schiava, il rimpianto per i privilegi perduti e una generale misantropia contro i maschi arroganti. I commenti delle altre ragazze sfiorano la banalità quando non sono cicalecci pettegoli.
L’A., non essendo riuscita a liberarsi dal retaggio omerico e immaginare come potessero essere andati concretamente gli eventi, ci pone di fronte a situazioni che sfiorano la comicità involontaria: l’offerta dei cento tori sacrificali per Apollo imbarcata su un’unica galea? Ma se le pentecontere del XIII secolo a.C. a stento potevano ospitare un centinaio di uomini seduti stretti ai remi. L’esercito acheo, forte di cinquantamila guerrieri, accampato per nove anni davanti a Troia, che vive nel dissoluto spreco di ogni bendidio sol grazie alle razzie nel contado, quando nessuno (assedianti o assediati) si dà la pena di coltivare il terreno ormai trasformato dai continui movimenti di truppe in acquitrino fangoso?
Davvero imbarazzanti, poi, sono i falsi storici che occhieggiano tra le righe. Le navi achee vengono ormeggiate calando in mare le ancore collegate a pesanti catene di (si presume) rarissimo e costosissimo ferro. La battaglia tra le opposte schiere è immaginata come una guerra di posizione stile Verdun 1916, con il fronte che si sposta ora verso l’accampamento acheo ora verso le mura della città con tanto di trincee scavate nel fango. L’armatura di Achille ci viene descritta più simile a quella del Gattamelata che a quella che, presumibilmente, poteva indossare un guerriero dell’età del bronzo, pur ricco. Non vale neppure un commento il fatto che i Mirmidoni cantino versi tratti dal Faust di Christopher Marlowe.
Anche i sentimenti e gli stati d’animo dei protagonisti più che analizzati sono enunciati in modo assertivo e ripetitivo, quasi che l’insistere sui vari concetti li renda più accettabili.
In definitiva da un lato si deve riconoscere il fine meritorio del romanzo, il quale conserva una sua non disprezzabile valenza come metafora della condizione femminile nelle guerre degli uomini. Ma esso risulta spesso noioso e scarsamente credibile. In tal modo l’empatia che saremmo portati a sentire per le vittime di quella guerra (anzi, di tutte le guerre) appare annacquata mentre i passaggi belli, le suggestive descrizioni, le riflessioni profonde, che pure non mancano, si perdono in una narrazione talvolta piatta, talvolta artificiosamente ridondante e aulica, in genere poco coinvolgente.

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Commenti

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L'ho iniziato giusto ieri sera, ora che ho letto la tua recensione sono curiosa di ultimarlo.
Dalla tua bella recensione mi sembra di capire che forse varrebbe la pena rileggere "Le troiane" di Euripide.
In risposta ad un precedente commento
FrancoAntonio
17 Febbraio, 2020
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Vorrei precisare una cosa: non è un brutto libro e non vorrei aver scritto una recensione troppo dura, ma effettivamente mi aspettavo di più. Molto di più.
Mi ha dato abbastanza fastidio, ad esempio, che Briseide non provi tanta compassione per lo stato delle schiave che già lo erano anche sotto i troiani. Teme di finire al loro stesso livello, ma, tutto sommato, continua a ritenerle inferiori. Come a dire io, prima, ero una regina, loro sempre schiave erano, quindi, inferiori...
Poi l'invenzione sulle perversioni sessuali di questo o quel personaggio, ma che c'entrano?
In risposta ad un precedente commento
FrancoAntonio
17 Febbraio, 2020
Segnala questo commento ad un moderatore
Grazie per l'apprezzamento. Purtroppo non ho mai letto "Le troiane" (forse ne ho tradotto alcuni brani al liceo, ma sono passati i secoli...), certi che Euripide aveva una visione estremamente moderna e non è escluso che sia riuscito a entrare in sintonia con le antiche nemiche sconfitte.
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