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LA GRAZIE FERITA
Non c’era donna al mondo che sapesse danzare con la sua stessa grazia, leggera come l’aria, soffice come la seta. La danzatrice di Seul è un romanzo che ti prende per mano con delicatezza, ma non ti risparmia il dolore. L’autrice adotta uno stile che sembra muoversi a passi di danza: morbido, circolare, ma capace di colpire al centro. La protagonista è una figura delicata ma magnetica, sospesa tra la tradizione che la stringe e il desiderio di reinventarsi, con un’identità che si frantuma e si ricompone tra Corea, Giappone e Francia, in un’epoca di tensioni che ruba il respiro. La scrittura è elegante, quasi musicale. Ogni pagina sembra scolpita nella nostalgia, con quella malinconia che non pesa ma accompagna, una scrittura che lascia che siano i silenzi, le attese, gli sguardi a raccontare ciò che le parole non riescono a contenere. Pur non essendo un romanzo storico, ma un’opera contemporanea, in queste pagine c’è anche molta Corea: la sua storia ferita, le sue contraddizioni, la sua bellezza. Non come sfondo esotico, ma come pelle viva. È una terra che soffre e che pretende, che spinge i suoi figli lontano e poi li richiama indietro, sempre con una sorta di malinconico possesso, con catene invisibili che possono però spezzare lo spirito. Ed è proprio questa tensione a dare al libro la sua vibrazione più intensa. Si esce dal romanzo con la sensazione che la vita in quell’area del mondo sia un mosaico irregolare, fatto più di vuoti che di pienezze, ma comunque capace di generare bellezza. Una bellezza fragile, come tutto ciò che ha dovuto attraversare la tempesta per continuare a esistere. Il libro ha uno stile lirico, misurato, intriso di malinconia, è uno di quei libri che non urlano, ma lasciano un’eco, senza lasciarsi confinare in un’unica prospettiva. La storia di una donna che prova a danzare sopra le crepe del suo tempo, e che in quelle crepe trova, paradossalmente, la propria verità.





























