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Cronache marziane
 
Cronache marziane 2013-08-04 20:23:12 Todaoda
Voto medio 
 
3.0
Stile 
 
2.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
Todaoda Opinione inserita da Todaoda    04 Agosto, 2013
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Biancaneve e le ceneri dell'umanità

Marte come redenzione, redenzione dell’uomo dai suoi peccati, dal suo egoismo, dalla sua stupidità. Marte come fuga, via di fuga dell’uomo dalle brutture da egli stesso create, dalla violenza, dalla guerra, dai mostri partoriti dalla sua mente
Marte come utopia del bello, del perfetto, del paradiso.
Bradbury fa osservare al lettore il miraggio della perfezione, di quello che potrebbe essere, di quello che era stato il pianeta prima dell’avvento del genere umano, glielo fa conoscere, capire, vivere con un prodigio di luce riflessa. Nel libro Marte non è più il quarto pianeta dal sole, ma il ricordo della Terra, quello che il nostro caro vecchio Mondo era prima che vi comparissimo, prima che potessimo definirlo “vecchio e caro.”
L’uomo dalla sua Terra, stupida, violenta, assassina osserva e brama l’incorruttibile perfezione del pianeta rosso, è naturale che egli aspiri a raggiungere quella perfezione, quell’equilibrio, che aspiri a raggiungere Marte. E quando finalmente grazie al progresso della tecnica riesce a mettervi piede, tutto inizia… tutto inizia a rovinarsi.
Già perché la stupidità, la brama di potere, la corruzione non sono prerogative della Terra, ma sono prerogative dell’uomo che ha stanziato il suo regno sul terzo pianeta creandolo a sua immagine e somiglianza. Il viaggio, la conquista della nuova terra, non servono a mondare i peccati della natura umana, anzi, caso mai a rinvigorirli, poiché sul pianeta di Bradbury sì può vivere, sì, ma in condizioni estreme e in tali condizioni l’uomo non migliora, si estremizza. Le passioni diventano manie, il rispetto diventa devozione, l’istintiva aspirazione al buono e al bene diventa prevaricante imposizione di una dottrina di vita, di chi pretende di essere nel giusto e costringe gli altri a seguirlo. E’ naturale che sia così, lo si è sempre fatto sulla terra, la storia ci insegna. E’ naturale nel vero senso del termine: è tipico della natura umana imporre invece che accettare, estremizzare la logica del sociale decontestualizzandola e trasformarla in legge da applicare rigorosamente e non più da interpretare con giudizio, o ancor peggio spostare il baricentro di ogni rapporto civile squilibrandolo in proprio favore, camuffando sistematicamente i termini dell’equazione del vivere civile sottraendo sistematicamente gli addendi al prossimo, agli altri uomini, per il successo e la vittoria personale. No, Marte è una chimera che affascina e illude, ma l’uomo di Bradbury (ahimè così simile al vero) è già spacciato poiché non impara dai propri errori, anzi con testardaggine e arroganza non li riconosce neppure portandoseli dietro ovunque metta piede. A nulla serve fuggire dalla Terra constatatene le brutture, a nulla serve ripudiare la propria Creatura: è la mente del dottor Frankenstein che bisognerebbe ripudiare, è da se stesso che l’uomo dovrebbe fuggire.
L’uomo secondo le Cronache di Bradbury arriva su Marte e da quel momento Marte, come prima la Terra, incomincia a morire. I nativi del pianeta, i marziani, dapprima non riconoscono neanche quella assurda forma che è l’uomo, poi imparano a riconoscerlo a conoscerne i semi della follia e così anche per loro, i marziani, sembra non esserci scampo, non tanto perché sono destinati ad estinguersi ma perché (ben peggio) sembrano destinati a diventare come l’uomo. Ma la genetica ha la meglio: loro sono pur sempre Marziani e all’ultimo, in un ultimo atto di inumano altruismo, si redimono e, dagli esseri superiori quali sono, consegnano all’uomo il giocattolo che gli piace tanto: Marte, la proprietà del pianeta.
L’infantilismo e l’ingenuo materialismo umano avevano fatto sì che appena gli astronauti avevano messo piede sul pianeta rosso pretendessero, cerimonie, fanfare e applausi, perfino le chiavi del pianeta e i marziani prima di estinguersi completamente gliele consegnano. Il momento è epico, non perché suona come una resa del marziano al potere terrestre, come una vittoria della specie terrestre, ma come il padre sfinito che accontenta il figlio capriccioso, o meglio ancora (o peggio, a seconda dei punti di vista) come il padrone stanco che consegna l’osso al cane maleducato che continuava ad abbaiare e sbavare per un premio che non merita. Questo sembra dirci Bradbury: noi avremo anche vinto, ma è una vittoria di Pirro, poiché la vera battaglia va combattuta contro noi stessi, contro la nostra stupidità.
Passano gli anni, i marziani “finalmente” si sono estinti ma anche l’uomo sulla Terra è prossimo all’estinzione, pochi, pochissimi riescono a fuggire, fuggire già ma per dove? Ancora verso quel pianeta, ormai abbandonato dal genere umano, che tanto in passato aveva promesso. Quei pochi, una famiglia, forse due, tornano di nuovo all’utopia, ad Utopia, su Marte. Il pianeta è disabitato, deserto sono solo in quattro (forse cinque), forse arriverà qualcun altro, ma son talmente pochi che non si daranno fastidio, che non riusciranno sottrarsi gli addendi dell’equazione del vivere civile in società, sono gli ultimi sopravvissuti di quella che era stata la Terra, gli ultimi uomini, gli ultimi terrestri, anzi ormai gli ultimi marziani.
E le cronache terminano con questa trasformazione finale che implicitamente porta con se l’incertezza del futuro, il dubbio. Gli uomini sono diventati marziani: significa che finalmente si sono evoluti? Che hanno compiuto il passo successivo verso quel cammino che li porta alla deificazione a cui tanto aspirano? O semplicemente significa che ora Marte è spacciato?
Leggendo le cronache non si coglie al volo tutto il significato del libro, è solo riflettendoci a posteriori che si riesce a comprenderne la sua profondità, ma questo è per via della genialità dell’autore o è l’ennesima riprova di quanto affermava Hermann Hesse quando sosteneva che i libri una volta scritti e pubblicati assumono molti più significati di quanti lo scrittore originariamente aveva concepito, uno diverso almeno per ogni lettore?
Forse entrambe le cose, forse ne l’una ne l’altra, tant’è vero che questo dubbio amletico (anzi Hessiano) non si concretizzerebbe neanche se non fosse per un particolare dettaglio che per certi aspetti, da alcuni, può essere considerato un pregio ma che assolutisticamente io sono propenso a considerare un difetto: lo stile.
Lo stile di Bradbury nelle Cronache, come lui stesso afferma in un dialogo del libro, è una personale rivendicazione di libertà della fantasia contro il realismo letterario imperante negli anni cinquanta, sulla Terra. Bradbury descrive Marte con toni favoleggianti, arricchendolo di paesaggi incantati, creature meravigliose, personaggi idilliaci. Forse il suo intento è quello di creare un forte contrasto con la rovina e la miseria della terra, ma se si forza troppo la mano, non solo si rischia di perdere credibilità, si rischia di perdere anche la misura: se due luoghi sono entrambi pittoreschi o entrambi grigi e asfittici uno può essere più bello dell’altro, uno può essere più brutto, ma se uno è un paradiso e l’altro è un immondezzaio il divario è troppo grande, non possono neppure essere paragonati, e chi vive nell’immondezzaio il più delle volte non aspira al paradiso perché non riesce neppure ad immaginarlo.
E’ questo il problema del romanzo, forse figlio della mentalità dell’epoca, è tutto troppo stereotipato: la Terra fa schifo, i prodotti dell’uomo sono delle aberrazioni che sopravvivono all’uomo stesso, la stupidità del genere umano non ha limiti, mentre Marte con la sua florida natura (prima dell’avvento umano appunto) è perfetto, i marziani sono simbionti con ciò che li circonda e vivono in armonia con il pianeta. Stupendo, ma come potrebbe (se così fosse) “un pover uomo” sepolto dalla sua stessa immondizia anche solo sognare un pianeta così, aspirare ad un livello di vita che rasenta la perfezione? O più pragmaticamente in una società in rovina dove trova i soldi per compiere una migrazione di massa verso un altro pianeta? D’accordo è una favola ma è priva di sfumature. Dove sono le mezze tinte del mondo? I toni di grigio della realtà?
Ah già Bradbury è contro il realismo, dunque deve essere tutto bianco o nero, bene o male.
Può essere che abbia ragione, ma se il libro vuole essere una critica alla società contemporanea deve trarre da essa, dalla sua cruda realtà, appunto dal suo realismo, altrimenti diventa una critica qualunquista, demagogica, come quella dell’uomo ben inserito che va dal barbone in strada e gli dice “datti da fare che così diventi ricco.” Possibile forse, ma alquanto improbabile, fondamentalmente corretto, ma alquanto discutibile.
Facile criticare senza mettersi sullo stesso piano. Nel medesimo modo Bradbury sembra che pontifichi sulle miserie dell’uomo senza mettersi sul suo stesso piano, quasi volesse stimolarci a rispondergli: “facile criticare gli uomini se sei Marziano.”
D’accordo poi l’anti – realismo ma Bradbury eccede in fantasia. Se si narra di un’umanità condannata all’estinzione nel prossimo futuro i toni non possono essere quelli di Biancaneve e i sette nani, i toni devono essere scuri, profeticamente lugubri altrimenti il messaggio perde di efficacia, Philip K. Dick lo sapeva bene quando scrisse “Ma gli androidi sognano pecore elettriche” (e molte altre opere).
Se si vuole criticare la società, e con essa dunque la realtà da lei creata, i toni devono essere realistici, non reali, altrimenti non sarebbe fantascienza, ma realistici; se si vuole parlare di Marte come la nuova frontiera, come il punto di riferimento per la società sofferente, occorre un realismo descrittivo che ne esponga il bene con termini passionali, profondi e il male con termini crudi, dolorosi, ma occorre anche che essi siano indissolubilmente legati l’uno all’altro altrimenti il termine di paragone con la nostra Terra non regge.
Bradbury fa nominare ad un suo personaggio delle Cronache Hemingway come esemplificazione di tutto quello a cui egli stesso si oppone: il realismo.
Per carità ognuno ha diritto alla propria fantasia nella misura che ritiene più opportuna, ognuno può creare la propria scrittura ad immagine di quello che ha dentro, vuoi che sia un meraviglioso ed equilibrato mondo incantato, vuoi un vivida, concreta, poco equilibrata realtà , ma Hemingway su una cosa aveva ragione, cito: “…gli scrittori si forgiano nell’ingiustizia come si forgiano le spade.” Nell’ingiustizia, nelle sofferenze, nel dolore e nell’odore della realtà. Senza un minimo di ingiustizia e di dolore il paradiso marziano è incredibile.
Parlare di realtà usando toni fantastici è un controsenso, sperare di convincere qualcuno di una realtà tanto profetica quanto fittizia usando toni irreali è un’assurda illusione.
No personalmente ritengo che se l’intento di Bradbury scrivendo le Cronache è il medesimo che ha mosso Orwell quando ha scritto 1984 o Huxley quando ha inventato il Coraggioso Nuovo Mondo (come suona male in italiano), se l’intento è il medesimo, ritengo avrebbe dovuto mantenere uno stile più equilibrato e comprensivo, se non di tutti, di almeno di alcuni dei molteplici aspetti della vita e al contempo più cupo e disincantato.
Sempre che questo fosse l’intento di Bradbury; se questo non era, se invece valesse completamente la teoria di Hesse, vero, tutta la mia interpretazione delle Cronache crollerebbe ma il romanzo verrebbe relegato a semplice favola della buona notte.
Dunque ben vengano anche le mie critiche poiché ancora una volta sono la dimostrazione che tutto non è bianco o nero, il libro come la realtà può assumere sfumature di grigio in ogni pagina, in ogni secondo della vita, vuoi appunto per le critiche di un signor nessuno, vuoi per quella scintilla di umana comprensione che lo scrittore, in quanto membro del genere umano, ogni tanto ha per i suoi simili. L’uomo che comprende i valori della vita marziana suona quasi come una redenzione, salvo poi impazzire e sterminare i suoi simili, così come l’uomo che rimasto solo sul pianeta crea automi ad immagine e somiglianza dei suoi cari. Sono redenzioni involontarie, sono le fiammelle tra le ceneri di un’umanità auto combusta, fiammelle sufficienti a illuminare un intero mondo, a redimere l’uomo per il motivo stesso di averle concepite, e redimendolo a contraddire quanto Bradbury afferma prima nel libro.
Lo scrittore che si contraddice, com’è umano, così umano da risollevare tutta la sorte della specie che lui critica, peccato non sembri rendersene conto.
Infine, come è vero che non tutto il male vien per nuocere, così tutto il libro non è da scartare, anzi certi passaggi, vedi gli ultimi due o tre capitoli, sono degni di rimanere per sempre nella storia della letteratura per epicità e involontaria umanità. E se dovessi dare un giudizio finale all’opera potrei solo dire che non è un capolavoro ma non è neppure un pessimo libro: è un buon libro con aspetti positivi e altri negativi, che creano uno sfumato e contradditorio insieme esemplificazione di quella che è la molteplicità di sfaccettature della mente umana… peccato solo che Bradbury non si accorga di contemplarla.

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Commenti

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Life on mars? Come direbbe Bowie....ma si ..."facile criticare gli uomini se sei Marziano.”
Impeccabile!
In risposta ad un precedente commento
Todaoda
05 Agosto, 2013
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E io che credevo che Bowie dicesse "let's dance put on your red shoes and dance the blues" ...eh eh eh!
In risposta ad un precedente commento
gracy
06 Agosto, 2013
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Anche...Ma quella l'ha cantata molto tempo dopo! :P
Complimenti, bella recensione. Analisi impeccabile!
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