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Echi in tempesta. L'Attraversaspecchi
 
Echi in tempesta. L'Attraversaspecchi 2022-09-16 16:35:02 FrancoAntonio
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
FrancoAntonio Opinione inserita da FrancoAntonio    16 Settembre, 2022
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Ofelia e la sua eco distorta

Ofelia e Thorn sono riusciti ad aprirsi reciprocamente i cuori, ma non fanno a tempo a godersi quegli attimi di felicità che una tragedia colpisce Babel. Una frana immane inghiotte una delle arche minori su cui sorge la città, trascinando con sé tutta la gente che lì viveva e vi lavorava. Quindi Ofelia e Thorn si rendono conto che devono accelerare la loro ricerca di Dio/Eulalia Diyoh e dell’Altro, il cui conflitto rischia di portare alla distruzione tutte le arche.
Giungono alla conclusione che le risposte che cercano debbano trovarsi all’Osservatorio delle Deviazioni, dove, ufficialmente, verrebbero curati coloro che soffrono di asimmetrie fisiche o psichiche, ma dove, assai più probabilmente, si stanno conducendo strani esperimenti, come il misterioso Cornucopiando di cui nessuno pare saper qualcosa, ma, forse, che è l’origine di tutti i loro guai.
Thorn è stato assegnato all’Osservatorio come Ispettore dai Genealogisti, ma potrà indagare in quell’istituto unicamente dall’esterno. Ofelia, invece, si fa coraggio e si presenta volontariamente come paziente, per poter vedere cosa esattamente viene fatto là dentro. Entrambi, però, rimarranno sorpresi dall’evolversi degli eventi che sembrano preludere alla fine del loro mondo con crolli e voragini che si aprono ovunque e con sempre maggior frequenza nelle ventun arche del loro mondo fluttuante.
Nel frattempo la piccola Vittoria, anzi la sua eco disincarnata, si trova su Terra d’Arco, al seguito di Archibald, l’ex ambasciatore del Polo, ma il legame con il suo corpicino, restato con Berenilde al Polo si fa sempre più esile.

Nei primi tre volumi di questa tetralogia le vicende si erano sviluppate con la lentezza di miele denso che cola da un cucchiaio. In questo libro conclusivo, invece, l’A. ha affastellato una tal congerie di invenzioni (ai limiti di ciò che la fantasia più sfrenata può concepire, quando non si tratta proprio di trovate strampalate) che si accavallano l’una sull’altra al punto da rendere difficile seguire il filo narrativo o quantomeno l’obiettivo che ci si prefigge di raggiungere. Molte vicende sono lasciate a mezzo e non si comprende come si evolvano, alcune soluzioni vengono offerte improvvisamente, senza che siano supportate da una serie di fatti e deduzioni che ne motivino la ragione. Lo stesso rapporto tra Ofelia e Thorn dal freddo glaciale dei primi due romanzi e tre quarti vira sulla passione ardente in modo abbastanza repentino e ingiustificato. In generale non si riesce a comprendere la logica della storia, ammesso che sia stata questa a dettare l’evoluzione dei fatti.
Ammassato tutto questo materiale, nel finale appare evidente l’affanno con cui l’A. cerca di riunire tutte le storie, coordinarle e conciliarle. A mio avviso vi riesce solo in minima parte. Peraltro non fornisce una conclusione, se non proprio ragionevole (cosa impossibile quando l’assurdo regna sovrano), ma almeno coerente con le premesse. Nel finale, perciò, il vortice caotico degli eventi sconcerta e confonde. L’epilogo, poi, decisamente più amaro che dolce, risulta insoddisfacente e, per vero, neppure realmente conclusivo.
Raramente mi è capitato di leggere un libro in cui l’autore si sia così sadicamente accanito sulla sua creatura principale, l’eroina attorno a cui gira tutta la storia. In questo ciclo non esiste neppure una promessa catartica che risollevi lo spirito, contravvenendosi, così, a quello che è il tacito patto a cui tutti gli scrittori fantasy si assoggettano.
Più che negli altri libri la sola e unica attrice è Ofelia, su cui poggia tutto il peso della storia, ma forse le spalle del personaggio non sono abbastanza ampie per reggerlo. Tutti gli altri personaggi, alcuni dei quali meritavano maggiore considerazione, scompaiono sullo sfondo come pallide comparse di cui si fa fatica a comprendere l’utilità.
Lo stile usato mette in luce una maggiore maturità rispetto a quanto mostrato nei libri precedenti, ma, comunque, la narrazione è troppo dilatata e, non di rado, confusa, come se non sapesse esattamente dove dirigersi. Così non sempre riesce a conservare il pieno interesse del lettore soprattutto quando si sposta l’attenzione dalla protagonista assoluta ai siparietti di contorno che non sono funzionali alla storia, non aggiungono chiarimenti al contesto, ma, semmai, intorbidano ancor più la vicenda. Inoltre rimangono troppi fili pendenti di questa trama non sufficientemente strutturata; come se l’A. avesse avuto l’intenzione di aprire altri scenari, ma poi se ne sia pentita, lasciando le situazioni irrisolte.

In conclusione, ritengo che il romanzo non sia disprezzabile in sé e per sé e, sicuramente, da leggere se si conoscono i primi tre libri, anche se sarebbe stato meglio pensare a finali più consolatori e appaganti. Però, esaminando nel complesso l’intera tetralogia, anche alla luce delle impressioni conclusive di quest’ultimo libro, non mi sentirei di consigliarne la lettura, soprattutto per la sgradevole sensazione finale che lascia.

_____________
Per l’angolo del pignolo consentitemi una osservazione un po’ pedante, ma che non posso tacere. Nell’italiano corretto, quello della Treccani e dell’Accademia della Crusca, il nome “eco”, al singolare, è di genere femminile: in fondo Eco era una dolce ninfa delle Oreadi e non uno sgraziato satiro. Solo al plurale diviene maschile. Nel libro, invece, viene ignorata questa circostanza e “eco” è sempre maschile sia al plurale che al singolare. Sono consapevole che nel linguaggio colloquiale è tollerata la doppia forma, ma in un libro mi sarei aspettato un maggior rispetto della lingua italiana.

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