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Il lungo viaggio di Primo Levi
 
Il lungo viaggio di Primo Levi 2014-06-24 04:55:54 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    24 Giugno, 2014
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Primo Levi partigiano

Dell’esperienza nel lager nazista di Auschwitz Primo Levi ci ha raccontato compiutamente e in modo mirabile, prima di tutto con “Se questo è un uomo” , poi con “La tregua” e in un approccio più analitico con “I sommersi e i salvati”.
Ricordo che il narratore torinese era stato arrestato nella notte fra il 12 e il 13 dicembre 1943 ad Amay in valle d’Aosta nel corso di un rastrellamento della milizia fascista contro i partigiani, di cui faceva parte in una piccola banda affiliata a Giustizia e Libertà, pur non essendo militarmente attivo. Primo Levi è stato descritto da tutti come un uomo mite e sensibile e che ben difficilmente avrebbe fatto ricorso alle armi ove necessario, anche per impreparazione al loro uso. Si era nel periodo in cui era appena avviata la resistenza, spesso più d’impeto che con logica, disorganizzata, con armamento modesto e insufficiente e con i partigiani che sovente non erano ancora addestrati militarmente allo scontro, mentre i loro capi, per lo più, mancavano di conoscenze approfondite di strategia e di tattica. E in effetti, tutti questi elementi lacunosi fecero sì che il rastrellamento riuscisse pienamente. Di questa breve esperienza di lotta in montagna Primo Levi ha sempre parlato molto poco, spesso non dandole importanza e con una certa reticenza. Eppure sarebbe stato giusto che ne scrivesse, perché in fondo costituì il passaggio dall’antifascismo innato a quello militante, frutto di una scelta non scevra da notevoli pericoli. Perché questo quasi silenzio? A questa domanda lo storico Frediano Sessi ha cercato di dare una risposta, dopo un lungo lavoro di ricerca negli archivi e di colloqui anche con i sopravvissuti a quel rastrellamento. E’ probabile che il motivo, se non l’unico, almeno il principale, risieda nell’esecuzione sommaria di due giovani, più banditi che partigiani, esecuzione a cui Levi fu del tutto estraneo, ma che incise profondamente il suo animo, portandolo a uno stato di prostrazione che lui ben sintetizza nel suo libro “Sistema periodico”: “Adesso eravamo finiti, e lo sapevamo: eravamo in trappola, ognuno nella sua trappola, non c’era uscita se non all’ingiù”.
Il libro di Sessi così, fra congetture non campate in aria, porta a tutta una serie di vicende, quali anche l’internamento nel campo di transito di Fossoli, che mettono Levi in una nuova luce, evidenziando la sua filosofia di vita che gli consentirà poi, anche grazie alla fortuna, di sopravvivere all’inferno di Auschwitz.
Se l’opera si basasse solo su questo risulterebbe già di particolare interesse, ma la capacità di Sessi permette che vada ben oltre, grazie alle sue riflessioni, alle sue osservazioni, la cui portata travalica il fatto in questione, con un giudizio sintetico di quel che fu la Repubblica Sociale Italiana, volto a smentire una volta per tutte che fosse un organizzazione umana a differenza delle feroce Germania nazista.
Scrive l’autore a pagg. 12 e a pagg. 13 “Nonostante le ricerche storiche e la diffusione di molto materiale documentario, ancor oggi la maggior parte degli italiani, quando è in grado di sapere che cosa sia la Repubblica Sociale Italiana (e questo grazie al limitato spazio che gli dedicano i programmi scolastici in vigore) non si rende conto di quanto sia pesante e grave il fardello delle colpe che quella parte degli italiani porta su di sé. Non si tratta oggi, come sembrano sostenere alcuni storici, di trasformare “il bravo italiano fascista” in un criminale incallito, ma di scorgere nelle scelte e nelle azioni dei repubblicani quella quota di gravosa responsabilità nel sostenere e nel portare avanti autonomamente le azioni criminali dell’occupante nazista, nella convinzione che la “nuova Italia” avrebbe potuto sorgere dal sangue di una “polizia” politica e razziale radicale.
Qualcosa di più di una guerra civile (che ancor oggi viene letta come scontro tra diverse espressioni della storiografia del nostro paese).
Così, il fascio italiano repubblicano, proprio come le pratiche di occupazione nazista, segna dopo l’8 settembre del 1943, almeno in Italia, una svolta che mostra il volto senza veli del progetto razziale, elaborato con le leggi del 1938.”
È quindi un con noi, ma a scelta del proclamante, o contro di noi, senza possibili vie di mezzo; è evidente che non di discosta dalla ideologia di una razza superiore, con tutte le conseguenze che purtroppo si manifestarono più marcatamente nel corso della guerra, ma già in misura pesante nel periodo prebellico (basti pensare appunto alle leggi razziali del 1938, anche se già nella persecuzione degli avversari politici si riscontra questa impalcatura capace di reggersi solo sulla violenza, e Levi era un mite, l’ideale vittima sacrificale).
Il libro si chiude con il resoconto, drammatico e commovente, di una visita dell’autore ad Auschwitz avvenuta nell’ottobre 2010. E’ un ripercorrere l’ambiente, o quel che resta, così ben descritto da Levi in “Se questo è un uomo”; certo mancano l’atmosfera di quegli anni di guerra, le urla delle SS e dei Kapò, il doloroso silenzio degli internati, ma essi rivivono, pare che bussino insistentemente alle nostre orecchie, grazie a quanto scritto da Primo Levi, per non dimenticare, affinché non possa più accadere.
Il lungo viaggio di Primo Levi è senz’altro più che meritevole di lettura, anche perché induce a riflettere, elemento indispensabile affinché l’ olocausto non sia solo una parola del vocabolario.

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Se Primo Levi ha parlato poco della sua esperienza partigiana avrà avuto i suoi buoni motivi e sarebbe giusto rispettarli. Sessi ha anche scritto un libro dal titolo "Il mio nome è Anne Frank", il che spiega tante cose.
E che c'è di strano se ha scritto "Il mio nome é Anne Frank"? Il professor Sessi, che é un docente universitario, é uno dei maggiori studiosi italiani della resistenza e dell'olocausto. L'importanza di appurare il perché della reticenza di Levi risiede nel fatto che, come scritto, il suo arresto fu facilitato, oltre che da un tradimento, dal senso di inanità che gli derivò dalla vicenda della esecuzione sommaria dei due partigiani e che in fondo gli fu utile poiché, ad Auschwitz, mai perse la speranza di riuscire a scamparla, un atteggiamento quindi in contrasto con quello tenuto prima dell'arresto, il che è da far ritenere che quell'esperienza così negativa costituì la base per una filosofia della vita volta a riaffermare il suo diritto di esistere e di sopravvivere.
In risposta ad un precedente commento
Cristina72
24 Giugno, 2014
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Ma perché fare “congetture non campate in aria” su persone che non possono più dire la loro? Mi sembra quanto meno di cattivo gusto. Lo strano di scrivere un libro dal titolo "Il mio nome è Anne Frank" è che il professore non è Anne Frank e che un seguito del diario non esiste. Quanto a Primo Levi, secondo me a sostenerlo ad Auschwitz fu solo l'istinto di sopravvivenza. Il senso di inanità, ammesso che l'abbia mai avuto, si è semmai rafforzato dopo quell'esperienza, tanto è vero che perse la fede.
E' questo il lavoro dello storico: cercare di scoprire con deduzioni logiche. Qualsiasi storico ha quasi sempre a che fare con persone che non possono dire la loro. L'importante é che l'approccio sia scientifico. Levi non perse la fede, perché continuò a cercare Dio, ponendosi la domanda come poteva esserci se c'era Auschwitz. Non é stato solo istinto di sopravvivenza, perchè altrimenti i"salvati" sarebbero stati molti di più. Si legga "I sommersi e i salvati" e capirà.
Istinto di sopravvivenza e caso salvarono Primo Levi da Auschwitz - lo ha dichiarato più volte lo stesso scrittore. Cercava Dio con la curiosità dello scienziato e il tormento di chi ha perso la fede, e non è dato sapere se alla fine l'abbia trovato. Forse il professor Sessi ci illuminerà al riguardo nel suo prossimo libro.
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