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Un anno sull'altipiano
 
Un anno sull'altipiano 2022-08-31 12:25:23 Calderoni
Voto medio 
 
4.2
Stile 
 
5.0
Contenuti 
 
4.0
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4.0
Calderoni Opinione inserita da Calderoni    31 Agosto, 2022
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«Una spinta istintiva: salvarsi»

Un anno sull’altopiano di Emilio Lussu è uno dei dieci libri del nostro Novecento che tutti dovrebbero leggere almeno una volta nella loro vita. Le ragioni sono svariate. Innanzitutto parla della vita di trincea durante i combattimenti della Prima Guerra Mondiale come nessun altro libro della nostra letteratura. Lo fa con uno stile che ancora oggi gli dona freschezza e modernità. È infatti un volume che non disperde energie in inutili sbrodolamenti retorici. Ritrae il dramma della guerra senza artefici e nei suoi aspetti di grande caos, lasciandole tuttavia le dimensioni del vissuto, semplicemente e immediatamente da coloro che vi si trovano presi. La questione stilistica si intreccia con la storia editoriale del capolavoro di Lussu. È stato scritto dopo una ventina d’anni dal termine delle ostilità, precisamente tra il 1936 e il 1937, quando l’autore era in un sanatorio di Clavadel, sopra Davos, dove si era ritirato per l’aggravarsi della malattia polmonare contratta in carcere (Lussu è stato un convinto anti-fascista e uno dei più importanti militanti del Partito d’azione). Il distacco temporale tra i terribili fatti bellicosi vissuti in prima persona tra il Carso, l’altopiano di Asiago e il Bainsizza e il momento della stesura del libro permette a Lussu di non farsi condurre dalle emozioni. Dietro a ogni singolo episodio narrato c’è stata una lunga riflessione durata anni, la quale ha spogliato l’episodio stesso di tutti i connotati retorici incanalandolo sul binario di una narrazione diretta appassionata, lucida, sarcastica e trascinante. Il tenente Lussu è per forza di cose il catalizzatore di un dramma collettivo; egli procede leggero e lo sentiamo pensoso in modo straordinariamente genuino dei casi altrui più che dei suoi. Dunque, è proprio il distacco temporale che potenzia l’impegno dell’autore di testimoniare fatti e vicende, situazioni e comportamenti osservati e interpretati sul vivo del loro prodursi. E lo stesso Lussu nell’avvertenza al lettore dice che «anche questo [libro] non sarebbe stato mai scritto, senza un periodo di riposo forzato».
È un volume in cui le morti si susseguono. Durante la lettura è normale fermarsi e interrogarsi sul perché avviene l’«inutile strage», come la definì Papa Benedetto XV. Si comprendono le dinamiche folli di una guerra di posizione sfiancante e improduttiva, nella quale «si sta come d’autunno sugli alberi le foglie», citando Giuseppe Ungaretti, altro reduce della Grande Guerra. Un anno sull’altopiano è un libro pieno di alcool (ne ho incontrato il medesimo carico soltanto in un altro volume, ovvero Mosca-Petuškì poema ferroviario di Venedikt Erofeev, simbolo della stagnazione) e più nello specifico pieno di cognac. «L’anima del combattente di questa guerra è l’alcool. Il primo motore è l’alcool. Perciò i soldati, nella loro infinita sapienza, lo chiamano benzina» si legge appena dopo il trasferimento di Lussu dal Carso all’altopiano di Asiago. Uno dei pochi a non bere è proprio Emilio Lussu e questa sua capacità di rimanere sobrio sembra tradursi vent’anni dopo nella sua pagina pulita e lucida. Il suo diversivo all’alcool è la letteratura, sono Baudelaire e Ariosto, I fiori del male e L’Orlando furioso; la letteratura che permette di evadere nella sua straordinaria eterogeneità. Chi non viene ucciso dalle pallottole o dalle bombe austriache viene invece consumato dal cognac, sorso dopo sorso. Si tratta di un processo inevitabile, come accade al colonnello Abbati, la cui fine si sovrappone al trasferimento sul Bainsizza di Lussu che segna anche la conclusione delle narrazioni sebbene la guerra continuasse.
Quella descritta è una guerra che logora lo spirito e il corpo perché non si capisce nemmeno chi sia il nemico. «È da oltre un anno che io faccio la guerra, un po’ su tutti i fronti, e finora non ho visto in faccia un solo austriaco. Eppure ci uccidiamo a vicenda, tutti i giorni. Uccidersi senza conoscersi, senza neppure vedersi. È orribile! È per questo che ci ubriachiamo tutti, da una parte e dall’altra» si legge. Ecco che quindi il peggior nemico non sono gli austriaci ma paradossalmente i capi politici e militari del proprio esercito. «Il generale era sempre là, come un inquisitore, deciso ad assistere, fino alla fine, al supplizio dei condannati» si dice a proposito dell’odiato Generale Leone. Uno dei più decisi nella lotta contro i capi è Ottolenghi, uno di quelli chiamati a guidare l’artiglieria. «I nostri generali sembra che ci siano stati mandati dal nemico, per distruggerci... Hanno verniciato la stessa nostra vita, vi hanno stampigliato sopra il nome della patria e ci conducono al massacro come delle pecore» afferma in un concitato incontro con altri comandanti e sottotenenti dopo un tentativo di tumulto. Non ha paura di attentare contro i suoi superiori, primo fra tutti il Generale Leone che espone al mortale pericolo della feritoia 14, e si rende anche protagonista di una singolare azione sul magazzino di sussistenza della divisione con la squadra degli sciatori.
Come si può intuire, in Un anno sull’altopiano si alternano giorni spenti e sempre uguali in trincea, assalti, tumulti, rappresaglie, riposi, ritorni a casa. Ne esce un grande mosaico lungo dodici mesi, un mosaico paradigmatico di quello che è stato il conflitto sulle montagne italiane. Ci sono pagine anche molto intime. Toccante, ad esempio, il capitolo nel quale Emilio torna per un brevissimo periodo a casa, in Sardegna, e incontra la madre e il padre. Da rimarcare anche in questo frangente la capacità scrittoria dell’autore che con estrema semplicità descrive il patimento sovraumano provato dai suoi genitori, chiamati a sopportare l’angoscia di avere entrambi i figli impegnati al fronte. Non manca nemmeno la storia d’amore, quella del capitano Avellini, uno dei tanti che non ce la farà a sopravvivere. Infine, assumono un valore indescrivibile le piccole cose, quelle che in un sistema esistenziale ordinario sfuggono. «Ecco, io dormo ancora mezz’ora, io posso ancora dormire mezz’ora, e poi mi sveglierò e mi fumerò una sigaretta, mi riscalderò una tazza di caffè, lo centellinerò sorso a sorso e poi mi fumerò ancora una sigaretta» pensa prima di uno dei tanti assalti Lussu. E questo dice che «appariva già come il programma gradito di tutta una vita» perché anche a distanza di vent’anni «mentre il nostro amor proprio, per un processo psicologico involontario, mette in rilievo, del passato, solo i sentimenti che ci sembrano i più nobili e accantona gli altri, io ricordo l’idea dominante di quei primi momenti. Più che un’idea, un’agitazione, una spinta istintiva: salvarsi».

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