Saggistica Storia e biografie Vajont, 9 ottobre 1963. Cronaca di una catastrofe
 

Vajont, 9 ottobre 1963. Cronaca di una catastrofe Vajont, 9 ottobre 1963. Cronaca di una catastrofe

Vajont, 9 ottobre 1963. Cronaca di una catastrofe

Saggistica


Un libro importante, fondamentale per "leggere" la drammaticità di una delle più dolorose tragedie annunciate della storia attraverso le immagini. Attraverso le 383 foto che questo appassionato fotoreporter scattò nei luoghi del disastro "prima, durante e dopo" il 9 ottobre del 1963 con "la tenace volontà - come scrive lo stesso autore - di ricostruire nella memoria e nel ricordo la vita tragicamente interrotta". Ciò che il Vajont significò per Erto, Casso, Castellavazzo, Longarone, ma soprattutto per le duemila vittime della catastrofe viene presentato senza retorica, ma anche senza distacco. Con la partecipazione agli avvenimenti di un fotografo che nel documentare in bianco-nero la realtà "va in cerca prima di tutto del suo significato".



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Vajont, 9 ottobre 1963. Cronaca di una catastrofe 2011-01-14 17:18:46 barbara78E
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barbara78E Opinione inserita da barbara78E    14 Gennaio, 2011
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la memoria

Non parlo della diga, della frana, di Erto e Casso, di Longarone, della SADE... Chi di dovere ha già ampiamente spiegato e narrato l’intera vicenda, usando le parole.
Bepi Zanfron racconta con le immagini. Foto che fermano l’attimo e inchiodano la notizia. Foto così, che fissano non solo i contorni, le luci, le ombre, ma l’anima stessa.
Zanfron è fra i primi ad arrivare da Belluno, dove lavora nel suo studio con la sorella Silvia. Giunge nel nulla che era Longarone, alle 23. La frana è venuta giù alle 22:39, appena venti minuti prima.
E scatta, Bepi.
Le sue immagini faranno il giro del mondo. Le sue foto non sono di quelle che violentano il dolore, per ricavarne il massimo profitto. Da queste figure, trasuda il massimo rispetto di un uomo che non ricerca la “bella foto”, ma la concretezza.
E scatta, Bepi.
Fissa, ma non solo la catastrofe: anche il prima. Sì, perché c’era, un prima: un momento in cui la gente viveva la propria vita. A Longarone, l’inaugurazione della Mostra del Gelato, le manifestazioni sportive, i matrimoni, le vedute panoramiche; a Erto e Casso, la vita contadina, la Processione del Venerdì Santo, i ponticelli che traversavano la gola, con il torrente Vajont sul fondo. E poi la costruzione della diga: il cemento che viene su, la festa di Santa Barbara, le prove di invaso. E i paesaggi, col Toc che sembra un Eden, un Paradiso Terrestre che scatenerà poi un inferno.
E sono proprio queste le immagini a dare le proporzioni della frana: vedi la latteria, i boschi, le case, il dolce pendio con i pascoli. E dopo poche pagine, un mondo stravolto. La frana immensa, l’enorme cicatrice rimasta dove prima c’era mezza montagna con la sua vita. E la piana, giù nel letto del Piave, attraversata da uomini che sembrano formichine. Formichine in mezzo al nulla.
Se parli coi superstiti, ti diranno che il rumore di quella sera maledetta è una cosa che entra nelle ossa e non ti lascia più. Bepi riesce a far immaginare quel boato, con le sue mute immagini.
E finalmente il dopo: la ricostruzione, la vita che riprende. Emblematica l’immagine del primo giorno di scuola, il 17 Ottobre, dopo una settimana dalla tragedia: i bambini, pochi, i banchi vuoti, molti, e il nulla oltre la finestra...
E poi ancora le istituzioni, le inaugurazioni, i muri che vengon su, la Madonna mutilata della chiesa di Longarone, spazzata via dall’onda, ritrovata a Fossalta di Piave e restituita dopo sette mesi.
E gli anniversari, e il Presidente Pertini, il Papa Giovanni Paolo II e, ancora, le panoramiche a 35 anni dal disastro. C’è posto anche per le immagini del processo, tenutosi a L’Aquila.
Il racconto fotografico, che abbraccia il “prima, durante e dopo”, riesce a dare l’esatta dimensione della tragedia.

Mi scuso se mi sono dilungata troppo, ma tante volte ho fatto la strada fin lassù. Sempre, la diga appare all’improvviso, come un monumento a ciò che è successo, come se fosse un effetto e non la causa. Quando sei lassù, sopra la frana, se talmente piccolo che non riesci a far tuo ciò che vedi, non riesci ad abbracciarlo con la mente, perché è talmente enorme da sfuggirti. Le immagini di Zanfron riescono a cacciarti nella zucca quello che è successo lassù.
Altrimenti, devi salire a Casso e poi proseguire a piedi, su per il sentiero dopo il cimitero. Ti ritrovi con lo strapiombo davanti ai tuoi piedi: un orrido che ti gela il sangue nelle vene ti fa capire che finalmente, il Vajont ti è entrato nelle ossa e non lo dimentichi più.

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