La paura La paura

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Se "La paura" è un libro unico, diverso da tutti quelli pubblicati a caldo per denunciare la barbarie della prima guerra mondiale, non è solo a causa dell'insolenza con cui dà voce a ciò che a detta di molti andrebbe taciuto: lo è anche, e soprattutto, per la forza visionaria della scrittura. Fin dalle prime pagine, infatti, si resta sbalorditi di fronte all'efficacia di Chevallier, il quale sa coniugare con mano saldissima la verità impietosa della testimonianza con la forza affabulatrice del romanzo. E riesce a farci percepire, quasi fisicamente, l'orrore, lo sgomento e la disperazione; a farci vedere l'"esplosione di luce irreale" dei razzi, i cadaveri dilaniati, il "labirinto silenzioso e desolato delle trincee"; a farci condividere la cocciuta voglia di vivere e l'ossessiva paura di morire di tutti.



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La paura 2015-03-11 16:13:07 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    11 Marzo, 2015
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Cui prodest?

Cui prodest? Nel caso specifico a chi giova la guerra, ed è solo una delle tante domande a cui l’autore cerca di fornire una risposta. La guerra, questa insensata lotta, quasi sempre mortale, fra uomini di diversi Stati, è quanto di peggio possa esprimere l’homo sapiens, dimostrando così di non essere poi tanto sapiens. E non mi si venga dire che è innata in tutti gli uomini, come invece recita l’infelice aforisma di Filippo Tommaso Marinetti (La guerra sta agli uomini come la maternità sta alle donne), perché è assai facile dimostrare il contrario. L’esperienza di Gabriel Chevallier, maturata nel corso della Prima Guerra Mondiale, in cui fu anche ferito, è riportata integralmente in quest’opera (La paura), ma, benché possa sembrare, e in parte lo è, un romanzo autobiografico, l’autore va ben oltre, spingendosi in una ricerca psicologica, sociologica e antropologia (un po’ come ha fatto Primo Levi con il suo bellissimo I sommersi e i salvati). Ed è così che proprio la paura viene vista in tutte le sue sfaccettature, nelle diverse occasioni e sulla base di esperienze maturate. In guerra si ha paura di essere uccisi dal fuoco nemico o anche da quello amico, si ha paura di morire in modo estremamente doloroso, si teme di finire davanti a un plotone di esecuzione non solo per diserzione, ma anche per piccole cose, che nella vita di pace sarebbero sanzionate al massimo con un’ammenda. Si ha paura anche dei gendarmi, pronti a sospingere a fucilate a un insensato attacco. E dato che questa situazione di acuto timore è sempre presente, ben presto diventa un’angoscia, una costante e devastante presenza.
E tutto questo per cosa? Perché uomini che in tempo di pace per lo più sono comparse assoggettate, impossibilitati a mutare il loro stato sociale, devono vivere nel terrore, debbono violare il proprio animo naturalmente pacifico per uccidere dei propri simili? Lo fanno per la patria, almeno ufficialmente, per vendicare un onore offeso, ma queste risposte, giustamente, non sono altro che la vuota retorica che viene inculata alle truppe con la cieca obbedienza, con il progressivo appiattimento della personalità, condizione indispensabile per poter diventare carne da macello. E allora, a chi giova? Ne beneficiano grandi gruppi industriali per arricchirsi ulteriormente, politici che sognano di restare nella storia, come anche ufficiali ambiziosi che, standosene al sicuro, vagheggiano gloria e promozioni. Di tutto ciò chi combatte e muore non vede nulla e il suo premio è solo quello di poter tornare un giorno a casa finalmente in pace, ma distrutto, sia fisicamente che spiritualmente. Sfruttati nei periodi di non belligeranza, sacrificati spesso inutilmente in una guerra, gli uomini normali, le cui ambizioni sono quelle di arrivare a fine mese con il poco salario e di condividere le gioie della famiglia, in un conflitto non devono più solo fornire la mano d’opera, bensì devono donare interamente se stessi.
Il pensiero di Chevallier può a volte anche non essere condiviso, ma resta il fatto che lui è riuscito a fornire le uniche logiche risposte a non poche domande. Soprattutto si apprezza il suo pragmatismo che rifugge da soluzioni che spesso sono meramente retoriche, così come risulta particolarmente gradita la sottile ironia che in circostanze particolari accompagna la narrazione. Ciò che soprattutto stupisce però è che riflettendo e anche cercando risposte diverse le sue appaiono le uniche plausibili, frutto quindi un’attenta e approfondita disamina dei problemi. Benchè nella produzione di questo autore l’opera più famosa e fortunata sia Clochemerie , La paura appare di rilevante interesse e valore e si può dire che costituisca un unicum nell’ambito della narrativa sulla Grande Guerra, anche se la sua valenza può essere estesa a qualsiasi conflitto.
Lo stile è piacevole, anche se non particolarmente sobrio, e la vita in trincea è descritta con mano felice; alla piacevolezza tuttavia nuoce una certa propensione a dilungarsi, una marcata verbosità e ripetitività che si accompagna alle riflessioni. Questo non è un elemento negativo tale da inficiare l’elevato valore dell’opera, però di fatto impedisce di gridare al capolavoro, di mettere La paura sullo stesso piedistallo di Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque. È anche la sua natura ibrida, a metà fra romanzo e saggio, che finisce con l’avere il suo peso, ma ciò non toglie che ci si trovi di fronte a qualche cosa di mai letto prima e che alla fine dei conti ci si senta comunque appagati.
Da leggere, ovviamente.

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