Paradiso Paradiso

Paradiso

Letteratura straniera

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L'infanzia e l'adolescenza di un giovane cubano, un complicato intreccio di vicende familiari, di amicizie, di amori, di esperienze erotiche, che lascia trasparire una complessa filosofia del vivere.



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Paradiso 2020-06-19 13:52:50 Molly Bloom
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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    19 Giugno, 2020
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Non un libro ma una sfida letteraria

Credo sia stata la lettura più frustrante che abbia mai fatto. Tormentata, spesso difficile da seguire, non di rado incomprensibile, lenta e trascinata per più mesi ma nonostante questo che prosa, che pensieri, quanta cultura e quanto garbo! Per me questa non è una lettura ma un'esperienza, così come lo è stata Ulisse di Joyce o Infinite Jest di Wallace, e un'esperienza arricchisce sempre, lascia il solco oltre a farti provare delle forti emozioni. Perché se è vero che da un lato è stata una lettura sofferta dall'altro mi ha offerto delle forti emozioni come pochi autori sono riusciti. Queste emozioni sono state suscitate più dalla bellezza della prosa che dal contenuto in sè: un po' come il rimanere incantati davanti a un quadro che magari rappresenta una banale scena ma lascia ammagliati. La prosa è un ibrido tra la raffinatezza proustiana e il realismo magico caratteristico della letteratura latino-americana, è molto corposa,scende lenta, come lava da un vulcano lasciando il lettore spiazzato davanti a tanta potenza e fascino. Ma nemmeno i contenuti sono da meno, anzi, li ho trovati fin troppo complessi e non nego che in molti passaggi ho fatto delle vere e proprie cadute nel vuoto buio e mi dispiace non aver potuto seguire l'autore ma non ne faccio una colpa a lui, semmai sono le mie lacune a portarne il peso. José Lezama Lima spazia nei riferimenti culturali, artistici, storici, filosofici, spirituali e via dicendo in maniera talmente titanica, collegandoli e inserendoli negli argomenti trattati attraverso dei dialoghi altrettanto titanici, che qualsiasi lettore si troverà fuori dalla "confort zone", chi più chi meno. Prima parlavo di garbo: c'è molta eleganza nei dialoghi di questo libro che non sono mai "secchi" o "brevi", sembrano più monologhi, discorsi che i personaggi si fanno l'un l'altro davanti a un pulpito invisibile, carichi di arte oratoria e senza nessuna presunzione o competizione malsana, ma sono sempre complementari e costruttivi.
Nonostante sia letteratura cubana, ho trovato questo libro molto europeo, complici sicuramente i riferimenti letterari e filosofici per la maggioranza europei ma anche per via della somiglianza con lo stile narrativo di Proust, oltre che alla vasta similitudine di argomenti e personaggi, infatti per me Paradiso è la Recherche cubana. Lo annovero tra i libri "irraggiungibili" e quindi frustranti in qualche modo perché seppur letti, sfuggono. Ma il profumo rimane.

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Paradiso 2019-11-26 07:34:33 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    26 Novembre, 2019
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IL PROUST DEI CARAIBI

“Sappiamo soltanto ciò che ricordiamo”

Julio Cortazar, nella prefazione del romanzo di Lezama Lima, si figura, con un pizzico di vanità, un club “very exclusive” formato dai rarissimi lettori de “L'uomo senza qualità” di Robert Musil, de “La morte di Virgilio” di Hermann Broch e, appunto, di “Paradiso”, ammettendo che “leggere Lezama è una delle fatiche più ardue immaginabili e spesso più irritanti”. Dette da uno che ha scritto con “Rayuela” un libro che non è propriamente il massimo della scorrevolezza e della facilità, queste parole sono oltremodo significative e rischiano di decretare il de profundis su qualsiasi volenteroso tentativo di affrontare l'ostico autore cubano. In effetti leggere fino in fondo le oltre cinquecento pagine di “Paradiso” dà la stessa sensazione di correre una maratona con le scarpe di due numeri più strette, qualcosa che assomiglia molto al puro masochismo. Non solo, ma entrare nell'universo di Lezama Lima, così smisuratamente erudito e ostinatamente ermetico, lungi dall'attribuire al lettore un'aura di intellettuale superiorità, lo fa sentire profondamente, sconsolatamente stupido e ignorante, incapace com'è di riconoscere la stragrande maggioranza delle citazioni e dei riferimenti culturali esibiti. E' la stessa sensazione che si potrebbe provare nell'essere invitati a un rinfresco e scoprire inaspettatamente, con somma e irreparabile vergogna, di essere gli unici vestiti con abiti sportivi in mezzo a una moltitudine di partecipanti tutti rigorosamente in smoking! Allora, ci si chiederà giustamente, esiste una plausibile ragione per eludere queste scoraggianti premesse e leggere “Paradiso”? Il fatto è che l'impenetrabile babele dell'opera di Lezama Lima, la quale assomiglia molto a una giungla che, a guardarla in un documentario della BBC appare magari affascinante e meravigliosa, ma quando ci si trova in mezzo risulta terribilmente inospitale, nasconde al suo interno la più strabiliante riflessione sul tempo e sulla memoria che mi sia mai stato dato di leggere dopo la “Recherche” di Proust. Come il capolavoro di Proust, anche “Paradiso” è un romanzo-mondo in cui la descrizione ironica di un ambiente (là l'aristocrazia parigina, qui la borghesia creola) e il ritratto autobiografico (il protagonista José Cemì è infatti un evidente alter ego dello scrittore, come si evince da tanti dettagli: lo stesso nome di battesimo, il padre militare, l'asma di cui soffre fin dalla tenera età, gli studi di giurisprudenza) si alternano al titanico tentativo di far rivivere gli anni perduti della propria infanzia e adolescenza. Pure “Paradiso” ha le sue “madeleines” (qui sono le Marie inzuppate in una cioccolata al latte che la madre di Cemì gli preparava nei giorni in cui non c'era scuola, rievocate dal pezzo di cioccolato che un nipote regala alla nonna), e simili sono i due protagonisti, che spesso appaiono come fuori fuoco, defilati rispetto al contesto principale, mentre a venire privilegiato è ciò che, magari inessenziale in apparenza (personaggi secondari, riflessioni filosofiche), passa rapsodicamente, per libere associazioni, davanti alla lente di ingrandimento della memoria, in alcuni casi addirittura formando racconti a se stanti (il libro di Swann, il capitolo di Oppiano Licario).
C'è però in José Cemì una componente, se così si può dire, scopofila (egli è colui che tutto osserva, magari in disparte e non visto, come nella scena del cinema, in cui dalla sua poltrona si intrattiene a guardare Focion, il quale a sua volta, qualche fila avanti a lui, sta spiando Fronesis con la sua compagna), la quale mette in evidenza una marcata differenza tra le due opere. Mentre per Proust ciò che conta è esclusivamente il tempo, da “ritrovare” per mezzo della memoria, per Lezama Lima l'essenziale appare la forma del ricordo, cioè l'immagine. “Paradiso” è un romanzo strabordante di immagini, evocate con la demiurgica forza di una fervida immaginazione poetica. L'immagine è in grado perfino di ipostatizzare i sentimenti, donando in tal modo a Cemì la felicità di un possesso puro e incorrotto, libero dal sospetto di una latente omosessualità: ad esempio, l'immagine di Fronesis (che rappresenta in questo libro un po' quello che per Proust era Robert de Saint-Loup) precorre sempre ogni suo movimento e azione, sublimando la prosaica realtà (“mentre si trovava in fila sorgeva in lui l’impulso di un’immagine, quando già il suo turno si avvicinava l’immagine salvava i suoi frammenti oscillanti sul suo volto. Quando si trovò davanti allo sportello il volto anonimo che contemplava prese l’aspetto del volto di Fronesis. La spinta verso l’immagine ruppe i vetri del volto anonimo, e quando il suo desiderio riapparve aveva elaborato l’immagine della ricerca anteriore, al disopra della realtà anonima che contemplava”). Altrettanto importante per Lezama Lima è la parola: Cemì, Fronesis e Focion esprimono proprio attraverso la dialettica verbale la loro evidente affinità spirituale, e con le loro lunghissime e appassionate conversazioni, che occupano una larga parte del libro, riescono ad appartarsi dal mondo che li circonda e a raggiungere l'intimità di una amicizia esclusiva e inattingibile. Le parole sono anche la chiave di un mondo ignoto e misterioso, e poco alla volta fanno larvatamente percepire al protagonista il fascino irresistibile di un futuro in campo letterario (“L’esercizio della poesia, la ricerca verbale di una finalità sconosciuta, andavano sviluppando in lui una strana intuizione per le parole che acquistavano uno spicco animista nei raggruppamenti spaziali, sedute come sibille in un’assemblea di spiriti”). Parlare di parole vuol dire giocoforza parlare anche dello stile di scrittura, e in questo ambito la distanza tra Proust e Lezama Lima non può essere più grande: mentre lo scrittore francese cesella le frasi come un meticoloso miniaturista, Lezama Lima adotta un approccio squisitamente poetico, al punto che parlare di romanzo risulta abbastanza fuorviante, perché in realtà “Paradiso” è più propriamente un poema, sebbene in prosa anziché in versi. Il flusso irrefrenabile delle immagini in libertà, prive di un solido filo logico, fa sì che la storia di Cemì e della sua famiglia sia più simile al sogno che alla realtà. Non a caso nella sua opera Lezama Lima, con una sensibilità simile a quella dei surrealisti (i quali vedevano nel subconscio lo strumento ideale per cogliere l'essenza intima delle cose), fa spesso ricorso ai sogni, talvolta senza neppure darsi la pena di fornire l'evidenza del passaggio dalla veglia al sonno, se non con frasi criptiche (“il suo corpo passò nella regione di Persefone”), al punto che il lettore non riesce sempre a capire immediatamente se quello che sta leggendo sia un sogno oppure la realtà (si pensi agli ultimi tre capitoli, di difficilissima intelligibilità, relativamente ai quali l'autore stesso credette doveroso intervenire per spiegare che si trattava dei sogni di Cemì dopo la morte del padre).
“Paradiso” è anche un libro di una cultura smisurata. Dentro di esso c'è praticamente tutto, dai miti indigeni a quelli greci, da Nietzsche ed Hegel ai Padri della Chiesa, da Shakespeare a Gongora, da Bruegel a Dalì, da Platone a Pascal, e molto altro ancora. E' il trionfo di un'erudizione senza limiti apparenti, che tracima da ogni pagina e rischia di affogare il lettore, inevitabilmente impreparato (a meno che non si chiami Jorge Luis Borges o non abbia Wikipedia costantemente sotto mano) di fronte a un vero profluvio di nozioni storiche, religiose, artistiche e filosofiche. Come se ciò non bastasse, lo stile di Lezama Lima è stracolmo di barocchismi, di arcaismi, di assonanze simboliche, di metafore e di similitudini (un esempio tra i tanti: “Era come se i suoi piedi scivolassero su una sabbia di roccia, come se fosse un pesce avvolto nella carta vetrata, un cigolio, un'asprezza, quel rumore di proiettore delle lucerne, quel richiamo del sigaro già consumato che comincia a bruciare la pelle”). Il suo lessico raggiunge vette di incommensurabile immaginazione, che nella mia vita ho incontrato solamente in uno scrittore come Carlo Emilio Gadda. La sua capacità di creare neologismi e perifrasi è davvero prodigiosa: un cuoco è “frittelloso”, un piatto di rame “pellirossico”, delle sopracciglia sono “polifemiche”, mentre una amicizia è “quidditaria”, i bianchi dell'alba sono “zurbaraneschi”, un insonne esce alle prime luci del giorno per “irrugiadirsi un po'”, intanto che un ragazzo “chicchiricchia” i versi di un poeta, un musicista scuote “le trippabili sonoriche della chitarra” e gli eucalipti intrecciati “concubinano”. La sfrenata fantasia dello scrittore cubano sa destreggiarsi anche nelle scene più pruriginose, dando vita alle pagine più divertenti del libro: così il grande membro sessuale di uno studente diventa volta a volta un “attributo germinativo tronitruante”, un “dolmen fallico”, una “dismisura priapica”, un “faro alessandrino”, una “lancia pompeiana”, e così via dicendo.
Nonostante qualche raro intermezzo di boccaccesca leggerezza, il romanzo risulta tuttavia di una difficoltà quasi insormontabile. Della sua indubbia grandezza sono intuibili solo sporadici sprazzi: è un po' come se ci trovassimo dentro una caverna buia e profonda e cercassimo di illuminarla con il solo ausilio di una scatoletta di fiammiferi. L'unico modo per poterlo apprezzare almeno in parte è quello di lasciarsi cullare dalla parola poetica, che se a tratti è prolissa e ridondante, riesce nondimeno a raggiungere in certe pagine vette di lirismo assoluto. Il giudizio finale è quindi giocoforza ambivalente, anche se è veramente dura sopravvivere a dialoghi così sfiancanti come quello che Fronesis e Focion intavolano sul tema dell'omosessualità. L'etichetta di libro immorale che in passato gli è stata ingiustamente appiccicata da qualche recensore, dovrebbe a mio avviso essergli attribuita per quelle interminabili e ampollose concioni sulla “trasmutazione dei valori” e sulla “ipertelia dell'immortalità” (sic) che – ahimè – appesantiscono irrimediabilmente le sue pagine e hanno sul lettore lo stesso torturante effetto di una vergine di Norimberga. Quello che Lezama Lima rappresenta è indubbiamente l'eden perduto dell'autore, popolato di figure straordinarie e imprescindibili, descritte con tenera e inconsolabile nostalgia, come quelle della madre Rialta, della nonna Augusta, dello zio Alberto o dell'amico Fronesis, ma tutto rischia di essere troppo autoreferenziale, e per il lettore comune riuscire a penetrare in questo paradiso richiede davvero la virtù e la pazienza di un santo.

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Paradiso 2014-02-26 20:12:34 catcarlo
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catcarlo Opinione inserita da catcarlo    26 Febbraio, 2014
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Paradiso

Non so bene come mai l’ho comprato, forse perché sono parecchio scarso in letteratura latino-americana e questo libro è presentato come una pietra miliare della stessa (e anche di quella spagnola tout-court). Però, dopo qualche pagina, ho capito benissimo perché il volume se ne era rimasto a riposare in libreria per una quindicina d’anni: ho già avuto a che fare con scrittori non semplici, ho letto – prendendone piacere malgrado le difficoltà – libri come ‘L’uomo senza qualità’, ma Lezama Lima richiede un impegno davvero estremo, ed era proprio dalla terza parte del libro di Musil che non facevo così fatica (altro che Pynchon…). Sullo schema di una storia familiare in gran parte autobiografica che si estende su tre generazioni – nel protagonista Josè Cemì rivivono le esperienze giovanili dell’autore – lo scrittore cubano riversa una marea di parole in cui si riflettono il suo essere soprattutto poeta nonché una mirabolante conoscenza degli aspetti culturali (spesso di nicchia) di mezzo mondo: il risultato sono paragrafi di accuratissimo intarsio barocco, in cui all’azione, in pratica nulla, si sovrappongono meditazioni, divagazioni varie, sensazioni e, soprattutto, ricercatissimi e sovente improbabili paragoni. A volte questi ultimi sono del tutto senza senso, come se per lo scrittore l’importante fosse il suono della parola – e, in questo caso, la traduzione non può far altro che essere traditrice - o l’immagine evocata: qui si sente il poeta, mentre l’uomo di cultura si fa notare nel fatto che, per capire ogni riferimento, sarebbe necessario leggere il libro con a fianco un’informata enciclopedia (per fortuna, al termine dell’edizione in mio possesso c’è un piccolo glossario di cubanismi e un elenco di riferimenti). Così, il piacere della lettura compare solo a tratti e quando arriva è talmente intenso che si passa volentieri attraverso le forche caudine delle parti più difficoltose: certe descrizioni della vecchia Cuba che riescono a trasportare il lettore sull’isola, la figura del cugino Alberto o quella del padre del protagonista sono solo alcuni esempi. La morte prematura di questi due personaggi conclude la prima parte, condotta in flashback che a volte possono disorientare, e Cemì si ritrova all’università a gestire il rapporto con (e le pulsioni omosessuali di) due personaggi controversi come i coetanei Fronesis e Focion. Le loro dissertazioni sull’omosessualità (c’è parecchio sesso, anche etero, in queste cinquecento pagine e, malgrado le trasfigurazioni, il libro ebbe problemi con la censura) sfociano in interminabili discussioni filosofiche e teologiche, oltre che sul significato dell’amicizia, inframezzate solo dal racconto di una rivolta studentesca narrata come Picasso racconta Guernica. Procedere fra le pagine è sempre complesso, ma, avendoci ormai fatto su l’orecchio, il lettore riesce a questo punto ad appassionarsi davvero, cosicchè l’improvvisa frenata lo lascia sorpreso: il racconto vero e proprio finisce, difatti, al termine del quart’ultimo capitolo, essendo gli ultimi tre accessori, diciamo così. Due di essi, però, con la loro struttura onirica e polifonica, sono con ogni probabilità i migliori, risultando in molte parti i più poetici: come se l’autore, con il procedere delle pagine e degli anni, si fosse lasciato un po’ andare al piacere della pura narrazione, impressione rafforzata dall’ultima sezione, ripresa in gran parte da un’opera giovanile, che risulta invece assai ostica e qua e là illeggibile. Si tratta dunque di un romanzo – già il termine è pertinente fino a un certo punto – che dà parecchio filo da torcere e l’unico modo che ho scovato per uscirne con agilità è stato prendere le frasi per quello che sono, senza ricamarci troppo su così da lasciar fluire ciò che i molteplici stimoli suscitano, e pazienza se alcune parti restano oscure: per sviscerare il trobar cluz di Lezama Lima sarebbero necessarie delle attente riletture, ma si tratta di un compito da studiosi, non da semplici lettori. Per chi voglia avventurarsi fra i suoi viluppi, valga perciò l’avvertimento che ‘Paradiso’ può regalare anche notevoli soddisfazioni, ma in cambio richiede un certo qual spirito di sacrificio.

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