Perturbamento Perturbamento

Perturbamento

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Perturbamento è il romanzo che rivelò Thomas Bernhard - e rimane "il suo libro più grande ed inquietante, il suo capolavoro" (Claudio Magris)



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Perturbamento 2021-05-11 13:21:23 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    11 Mag, 2021
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ONANISMO DELLA DISPERAZIONE

“Per tutta la vita non ho visto che pazzi e ammalati. Dovunque io guardi, vedo soltanto dei moribondi, gente che va alla deriva e si guarda indietro per l'ultima volta.”

Di Thomas Bernhard avevo finora letto, lo confesso, solo i suoi ultimi testi letterari e teatrali, “Antichi maestri”, “Estinzione” e “Piazza degli eroi”. Non conoscendo pertanto il primo Bernhard ho trovato quanto mai sorprendente scoprire come lo scrittore austriaco sia sempre stato, nelle varie fasi della sua carriera, monoliticamente identico a se stesso, prefigurando già a trent’anni quella maniacalmente coerente, monotematica e intransigente costruzione artistica costituita dal corpus delle sue opere. “Perturbamento”, nonostante i due decenni che li dividono, non è infatti poi molto dissimile da “Estinzione”, entrambi essendo due variazioni ossessive, nichilistiche e terrificanti sul male di vivere contemporaneo. In questo che è, all’interno di una bibliografia assai consistente, solo il terzo romanzo dell’autore una differenza sostanziale, a dire il vero, c’è, ossia la presenza di un io narrante diverso da quello del protagonista principale (ciò non vale però per “Antichi maestri”, che ha una analoga struttura narrativa). La storia è vista infatti attraverso gli occhi di un giovane studente che accompagna il padre, medico condotto, durante un suo normale giorno di visite, percorrendo in lungo e in largo la regione della Stiria. Anche se il narratore si presenta come una persona equilibrata, un individuo che, grazie alla sua forza di volontà e al suo raziocinio, è in grado, a suo dire, di liberarsi dalla fatale attrazione dell’angoscia (“Dove prevale il raziocinio, la disperazione è impossibile”), fin dalle prime righe del romanzo fanno però capolino la morte, la malattia, la brutalità e la follia (“Lui era abituato, ormai, a essere vittima di una popolazione malata fino al midollo, portata alla violenza e anche alla pazzia”). L’episodio della morte della moglie dell’oste di Gradenberg, uccisa selvaggiamente, senza alcun motivo, da un minatore ubriaco, è fin troppo emblematico, ma proseguendo nel corso della giornata, intervallata da riflessioni sulla situazione non propriamente idilliaca della propria famiglia (la madre scomparsa da poco, la sorella che passa ininterrottamente dai pensieri di suicidio ai tentativi di suicidio, il padre con cui non riesce a comunicare), il ragazzo è costretto ad addentrarsi sempre più profondamente in un mondo in cui “tutto è malato e triste”, un universo dominato dall’ottusità, dalla degenerazione, dalla violenza e dalla volgarità: dalla signora Ebenhof, una malata terminale con il cruccio di un fratello omicida, suicidatosi appena uscito dal carcere, e di un figlio debole di mente, circuito dalla moglie, all’industriale, che vive segregato in uno sperduto padiglione di caccia, nel più totale isolamento dal mondo con il pretesto di un lavoro filosofico che continua maniacalmente a scrivere per poi distruggerlo e riprenderlo ogni volta da capo, e che per eliminare ogni fonte di distrazione fa abbattere tutti gli animali selvatici che vivono nei boschi circostanti; dal maestro che, in preda a un mortale ebetismo a causa della vita da miserabile che conduce, si dedica compulsivamente a disegnare “un mondo che annienta se stesso, con uccelli straziati, lingue umane lacerate, mani con otto dita, teste in frantumi”, al giovane Krainer, storpio e demente, che deturpa con scritte deliranti le preziose incisioni di famosi musicisti del passato appese nella sua stanza; attraverso questi disgraziati incontri padre e figlio sperimentano un orrore sempre più irredimibile, fino ad arrivare all’apice del raccapriccio nell’episodio degli uccelli esotici strangolati uno dopo l’altro dai figli del mugnaio, per far cessare le loro ininterrotte, insopportabili strida che stanno conducendo tutta la famiglia alla pazzia. Sembrerà un’eresia, ma a me “Perturbamento” ha ricordato la struttura narrativa di “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad: come Marlowe risaliva il fiume Congo, in un viaggio metaforico negli abissi più imperscrutabili dell’animo umano, così il narratore si addentra nelle valli sempre più anguste, buie, fredde e ostili della Stiria, in una discesa irreversibile nei gironi dell’insania e dell’abiezione; e come nel capolavoro conradiano al termine del viaggio c’era Kurtz, qui c’è un personaggio non meno titanico e memorabile: il principe Saurau.
La seconda parte del libro è un interminabile, delirante monologo in cui il peripatetico principe, accompagnando i due ospiti in una passeggiata ossessiva e senza soste lungo le mura del suo castello, dà sfogo alla sua “micidiale tendenza al soliloquio”. E’ una lettura che lascia storditi, senza fiato, in cui Bernhard penetra via via sempre più a fondo negli oscuri meandri di una mente irreparabilmente ottenebrata dalla pazzia. Vittima di estenuanti, masochistiche discussioni con se stesso, rinchiuso in una segregazione sempre più feroce, cui lo conduce un profondo disgusto, una inguaribile ripugnanza per il mondo intero ma anche e soprattutto verso se stesso, Saurau è un personaggio sommamente tragico, probabilmente sull’orlo di quel suicidio che grava come una macabra fatalità sui membri della famiglia che da secoli vive a Hochgobernitz. La sua solitudine è tale che “l’unica frequentazione possibile è quella del proprio cervello”, ma il suo cervello è ormai una macchina impazzita, in cui ogni pensiero deve inglobare tutte le possibilità e le alternative possibili, trasformando ogni semplice decisione in una faccenda complicatissima, irrisolvibile, e in cui il principe, trinceratosi come in un ermetico e impenetrabile rifugio, purtuttavia si sente continuamente assediato dalla realtà esterna (simboleggiata dall’invadente e importuno Moser) e invaso da un senso di catastrofe imminente (“Ho l’impressione che sia naturale che il mondo possa andare a pezzi da un momento all’altro”), che si materializza negli agghiaccianti rumori nella testa che lo ossessionano senza tregua. Gli ingranaggi mentali lavorano vorticosamente per riempire tutti gli spazi possibili e immaginabili del pensiero, in una estenuante coazione a rimuginare temi e concetti che ormai non hanno più confini né appigli con la realtà, e in cui l’io è continuamente consapevole di ogni cosa ma con orrore scopre che, per essere sempre tutto, alla fine non è più assolutamente, sconsolatamente nulla. Il folle e vorticoso sillogizzare del principe Saurau (che addirittura si sdoppia quando riferisce il sogno in cui il figlio che vive a Londra scrive, dopo il suo immaginario suicidio, una lunga lettera in cui si propone di distruggere metodicamente tutto ciò che aveva faticosamente costruito il padre) assomiglia non poco a quell’inesausta e paranoica attività mentale che caratterizza certi racconti kafkiani. Si prenda ad esempio questo brano: “Per un istante rivedo tutte le strade di accesso ai miei terreni, strade che io ho sbarrato piazzando dappertutto dei cartelli con la scritta Vietato l'accesso. […] Qui, sui miei terreni, l'accesso è vietato per tutti, per tutti e per tutto! […] Adesso mi rivedo a scavare fossati attraverso le strade d'accesso, a farci cadere dentro tronchi d'albero, a stendere centinaia e centinaia di metri di filo spinato…”. Non sembra proprio il modo di ragionare dell’animale protagonista de “La tana”? Inoltre nel sogno in cui il principe deve recarsi all’udienza più importante della sua vita attraversando una sala così sterminata che risulta impossibile non solo arrivare in tempo all’udienza ma neppure sapere chi l’ha concessa, c’è la stessa atmosfera delle parabole kafkiane “Davanti alla legge” e “Un messaggio dell’imperatore”. In preda alla follia, ma anche a una estrema, esasperata e chiaroveggente lucidità, Saurau fa precipitare i due quasi ipnotizzati ospiti, e con loro il lettore, in una spirale impazzita di nichilistici aforismi che finiscono per diventare un enorme buco nero che tutto inghiotte e tutto annichilisce, e in cui fatalmente la ragione umana collassa. Hochgobernitz diventa così la metafora di una condizione ontologica dell’esistenza, di un male assoluto e ineliminabile. Il castello di Saurau è un po’ come la casa paterna di Wolfsegg in “Estinzione”. Se lì il protagonista Murau, dopo la morte dei suoi detestati genitori, saliva alla volta del maniero avito per liquidarlo definitivamente, possiamo immaginare che anche il figlio del principe, vera spina nel fianco dell’anziano uomo (a dimostrazione del fatto che per Bernhard la famiglia è sempre “una incessante e infame amputazione dello spirito”), un giorno, alla sua morte, si comporterà in maniera non dissimile, quale unica soluzione per troncare quella che è una vera e propria maledizione familiare, come il protagonista prefigura nei suoi angosciosi e preveggenti sogni, a testimonianza che alla fine non ci può che essere l’estinzione di tutto, la morte irrevocabile: “il mondo è la scuola della morte”, è “un immenso obitorio”.

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Perturbamento 2019-03-18 14:23:30 Molly Bloom
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Molly Bloom Opinione inserita da Molly Bloom    18 Marzo, 2019
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Un buon inizio per conoscere Bernhard

"Perturbamento" è tra i primi romanzi di Thomas Bernhard e secondo me molto indicato a chi volesse avvicinarsi a questo scrittore pungente. Dico pungente perché è irto, spinoso, graffiante, di difficile lettura ma che offre un nuovo orizzonte al lettore. In questo libro le sue spine sono meno pungenti, ci si può rilassare in un certo senso e godere appieno del suo genio senza troppe fatiche.

Un padre di professione medico viene accompagnato da suo figlio a fare le consuete visite ai suoi malati. La trama è questa, un po’ come una breve idea musicale di un compositore che poi la sviluppa e la trasforma in una sinfonia di cinquanta minuti. Stessa cosa fa Bernhard, crea una sinfonia in cui l’orchestra è formata dai singoli malati, ognuno con le proprie sofferenze, ma che rappresentano in realtà casi universali. L’autore da piena voce ad ogni singolo malato che “esibisce” la sua sofferenza frutto non dalla malattia in sé ma si va a scavare alle radici di questa malattia che spesso sorge per causa della società, della famiglia e della natura stessa dell’uomo e il sollievo/rimedio che il medico porta loro è questa possibilità di sfogo. Bernhard non nutriva particolare simpatia per i medici, che considerava dei ciarlatani, probabilmente per questo motivo in “Perturbamento” il medico ha un ruolo puramente umanitario, da confidente, che ascolta non i disturbi di un corpo ma quelli di un’anima, elemento altrettanto importante.

La prima parte scorre più velocemente, ci sono anche delle situazioni grottesche, c’è del humor velato, alcune scene invece macabre e si cammina sempre sul confine tra la tragedia e la commedia. La seconda parte invece è quella più impegnativa ma anche più bella secondo me, in cui l’autore lascia le redini e si lancia a briglie sciole in un soliloquio del Principe Saurau (l’ultimo dei malati che il dottore visita) e in esso si distingue chiaramente lo stile maniacale della sua prosa, che reputa uguale ad una musica. Infatti oltre al contenuto la forma è altrettanto importante e il testo deve avere il suo ritmo, la sua musicalità coordinata al contenuto, e in questo Bernhard è tra i più bravi che ho letto.

Per concludere riporto questo brano di “Perturbamento” che meglio riassume il mio commento:

“Quando guardo la gente in faccia, vedo che la gente è infelice » disse il principe. « Sono tutte persone che portano per strada il loro tormento e così trasformano il mondo in una commedia, che naturalmente fa ridere. In questa commedia tutti costoro soffrono di piaghe di natura spirituale o di natura corporea, e godono della malattia che li porta alla tomba. Quando ne sentono pronunciare il nome, non importa se la scena si svolge a Londra, a Bruxelles o in Stiria, essi si spaventano, ma cercano di non mostrare il loro spavento. Il vero spettacolo tutta questa gente lo dissimula in quella commedia che è il mondo. Quando si sentono inosservati, sfuggono sempre a se stessi rifugiandosi in se stessi. Grottesco. Il lato più ridicolo, però, non lo vediamo mai, perché il lato più ridicolo è sempre quello tenuto nascosto.”

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