Il treno dei bambini Il treno dei bambini

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mariaangela Opinione inserita da mariaangela    14 Gennaio, 2022
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“La malerba cresce”

“Mia mamma avanti e io appresso. Per dentro ai vicoli dei Quartieri spagnoli mia mamma cammina veloce: ogni passo suo, due miei. … Mia mamma dice che cammino storto. Non è colpa mia. Sono le scarpe degli altri. Hanno la forma dei piedi che le hanno usate prima di me. …”

Un incipit che da solo vale tutta la lettura, tutto il non detto, tutto il raccontato insieme ai ricordi, agli odori, ai sapori, ai rumori, ai silenzi, alle sfumature.

Mi fa tenerezza assai la mamma di Amerigo, Antonietta Speranza.
Amerigo e la sua paura di restare solo e attaccarsi alle vesti. Il suo essere così protettivo.. Sette anni di ometto già cresciuto e tuttavia spaventato nel suo coraggio.

Il romanzo è bellissimo, andrebbe letto nelle scuole, condiviso. Ha un messaggio di grande pace. Un messaggio grande, che va oltre i singoli accadimenti, comunica una ricerca di serenità.

Mi ha notevolmente sorpreso, me lo aspettavo aspro, difficile da sopportare e invece non conto le volte in cui mi è affiorato un sorriso sulle labbra.
Sono completamente coinvolta e non so spiegarmi ciò che vorrei accadesse. In realtà non so cosa desidero accada. Mi sento Amerigo, Antonietta, Derna., i bambini, il treno... respiro ciascuno di loro.

“Non mi lasciare, le dico stringendola forte. Non ti lascio, risponde Derna. Io ci sarò sempre.”

La lettura mi ferisce perché comprendo la tua paura di sentirti un impostore, spinto dalla vita a vivere un’altra vita, ad essere felice senza la sua presenza, a crescere in un luogo lontano riuscendo anche ad essere felice e a diventare ciò che ami, spezzando legami.

Quelle voci nei vicoli che sono un rumore sempre uguale, fastidioso si, perché la musica non è mai cambiata.
La casa che è casa tua.
Una felicità di tanto tempo fa.
Noi che camminiamo in quella fredda mattina di novembre, tu avanti e io appresso a contare le scarpe della gente.
E io che leggo vedo lucidamente quel basso, il tavolo, le sedie, il cucinino, il bagno, il letto tutte le notti condiviso. Tu che fai la genovese con i tuoi movimenti così confortanti. Vedo la tua vergogna e sento e soffro per ciò che provi tu.
Non mi schiero, non vedo colpe, tutto è giusto e tutto è sbagliato, le situazioni si capiscono davvero solo quando si vivono e la strada da seguire diventa unica.
Lotto per allontanare quelle voci così familiari che risvegliano la mia memoria e poi sento la tua voce mamma.
Il tempo è passato ma è già tardi.
Un serbatoio di cose dimenticate.
Maddalena, riconoscerla dalla voce è un tuffo nel passato che diventa adesso.

“C’è molto tempo davanti a me, ma non ho fretta, il viaggio più lungo l’ho già fatto: ho dovuto percorrere la strada a ritroso fino a te, mamma.”
Piacere, Amerigo Speranza.

Buone prossime letture.

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andrea70 Opinione inserita da andrea70    03 Giugno, 2021
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Bellissimo

Amerigo è un bambino che vive nei rioni poveri di Napoli con la madre, una giovane madre sola che lo cresce come può tra mille privazioni e qualche lavoretto per tirare a campare. Il padre per Amerigo è
una sorta di figura mitologica perduta il giorno in cui è partito , dicono, per cercare fortuna in America.
In paese si viene a sapere che il Partito Comunista sta organizzando dei treni per portare molti bambini del sud al Nord, affidandoli a famiglie del posto perchè abbiano la possibilità di sfuggire alla miseria di un meridione disastrato.
Siamo nel primissimo dopoguerra, le condizioni tra nord e sud sono diverse, il Nord viene visto come un posto dove c'è benessere, c'è un futuro oltre il tirare a campare di giorni sempre uguali.
Amerigo e i suoi amici sono svegli come deve essere un bambino dei rioni ma non colgono fino in fondo la portata del viaggio che stanno per intraprendere, che sta tutto nei silenzi della madre di
Amerigo. Bellissima la scena in cui alla stazione al momento di partire tutti i bambini lanciano i cappotti appena avuti in dono dagli organizzatori verso i parenti rimasti sulla banchina perchè
questi o i fratelli a casa abbiano finalmente qualcosa con cui coprirsi durante l'inverno.
Dopo un viaggio un vissuto con qualche preoccupazione instillata nei bambini da certi commenti degli adulti che per ignoranza sostenevano che li avrebbero deportati in Russia, Amerigo trova a Ferrara una nuova famiglia, un pò inusuale perchè quella a cui avrebbe dovuto essere affidato è costretta a rinunciare e si ritrova con una donna sola Derna e i suoi parenti che hanno già
tre figli (Rivo, Luzio e Nario...olè !!)
I due bambini più grandi sono quasi coetanei di Amerigo e all'inizio lo accolgono con un pò di naturale gelosia ma ben presto diventano veri fratelli conquistati dalla sua genuina semplicità.
La famiglia non è benestante, ma rispetto alle condizioni in cui Amerigo viveva a Napoli la differenza è drammatica, vestiti a posto, scarpe giuste, pasti sani e regolari e un affetto che la miseria sembrava misurare come il pane in tavola quando ce n'era poco.
Amerigo va a scuola con regolarità, scopre un insospettato talento musicale ma soprattutto si affeziona alla nuova famiglia pur pensando sempre alla madre Antonietta a casa e diventa a tutti gli effetti il quarto figlio della famiglia Benvenuti.
Tutto il racconto scorre tra le parole del piccolo Amerigo, con il suo spontaneo candore, la sua disincantata sincera irriverenza.
Viene il momento di ritornare a casa, Amerigo trova ad attenderlo la madre, poco incline a smancerie anzi preoccupata per il fardello di dover crescere quel bambino da sola senza avere niente e dopo che questo si è abituato a comodità e lussi (perchè le scarpe nuove o 3 pasti al giorno qui sono un lusso). In un impeto di disperazione la donna fa sparire tutti i doni, alimentari e non, che Amerigo ha portato da Ferrara.
Passa qualche mese, gli altri bambini rientrati dal Nord hanno una corrispondenza continua con le famiglie a cui erano stati affidati mentre Amerigo non ha alcuna notizia finchè non scopre il motivo di quel silenzio.
A quel punto ha già realizzato che il futuro che gli ha progettato a Napoli la madre (apprendista e poi garzone dal calzolaio del paese che già fatica a campare) non è quello che vuole, solo al Nord , dove lo avevano accolto come un figlio, può aspirare a costruirsi un futuro diverso, migliore, il dolore per quanto appena accaduto gli da la forza di prendere una decisione estrema: sale sul primo treno per Bologna senza un soldo in tasca per riprendersi quel futuro interrotto.
Ritroviamo Amerigo quarant'anni dopo a fare i conti con le sue scelte e i sensi di colpa e riallacciare affetti che credeva perduti e le cose non dette, per l'ultimo abbraccio ad una madre che pensava di non aver mai ritrovato dopo la sua fuga ma che in realtà scopre di non aver mai perso.
" Attendo, in piedi, fino a che non sento le gambe farsi pesanti e solo allora ti saluto.
Quello che non ci siamo detti non ce lo diremo piú, ma a me è bastato saperti dall’altra parte di quei chilometri di strada ferrata, per tutti questi anni, con le braccia strette a croce sul mio cappottino.
Per me è lí che resti. Aspetti, e non vai via."
Bellissimo.

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violetta89 Opinione inserita da violetta89    18 Mag, 2020
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So-li-da-rie-tà!

Questo libro si ispira ad una vicenda storica poco nota, o almeno io non la conoscevo. Nel dopoguerra molte famiglie si trovarono a vivere situazioni di estrema povera e indigenza soprattutto al sud. Il partito Comunista ideò un progetto per aiutare queste famiglie povere, organizzava dei treni che portavano questi bambini poveri al nord, in Emilia, dove venivano ospitati per qualche tempo da famiglie del luogo che li trattavano come figli propri, il tutto in nome della solidarietà.
La storia narra di uno di questi bambini, Amerigo, che vive solo con la mamma in un vicolo di Napoli. I due campano di espedienti, Amerigo non ha mai avuto un paio di scarpe e passa le sue giornate a guardare quelle degli altri. Sua mamma è una donna che la vita ha fatto diventare molto rude e poco affettiva. Questo è tutto il mondo di Amerigo, finché un giorno non viene caricato su un treno diretto al nord. La paura è tanta così come i pregiudizi, i comunisti lo porteranno in Siberia e gli mangeranno le mani? Invece il bambino troverà una famiglia pronta ad amarlo, ad insegnargli tante cose che lui non aveva mai visto prima, conoscerà un mondo nuovo fatto di scuola, cibo, l'amore per la musica. Quando poi sarà il momento di tornare a casa, Amerigo si renderà conto che quello non è più il suo mondo e inizia a vergognarsi di quello che era.
È un libro ben scritto dal punto di vista del bambino, abbiamo modo tramite i suoi occhi di vedere tutta la magia e lo stupore del prima, e la rabbia e la rassegnazione del dopo. Amerigo è un bambino che ha avuto un'opportunità, però a che prezzo? Ha dovuto rinunciare a una parte di sé per diventare una persona nuova e alcuni sensi di colpa se li porterà dietro a lungo. Credo sia un libro molto realistico, raccontato con una delicatezza e una sensibilità uniche. Forse anche oggigiorno servirebbe più altruismo e solidarietà, chissà che non potremmo scoprire un lato migliore di noi stessi e avere un regalo dalla vita.

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Bruno Elpis Opinione inserita da Bruno Elpis    03 Marzo, 2020
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Piove ricotta!

L’energia narrativa de Il treno dei bambini di Viola Ardone sprigiona dalla prospettiva infantile che la storia assume.

Amerigo Speranza vive nella miseria del Meridione dissanguato dalla guerra (“La fame non è una colpa ma un’ingiustizia”), ma il povero quartiere è il suo mondo e lì la mamma rappresenta una bellezza ancestrale e misteriosa (“Mia mamma Antonietta non mi ha mai venduto, fino a mo”).

Costretto ad abbandonare i giochi con gli amici e il suo tugurio ove un uomo fa strane incursioni per “faticare con mia mamma”, Amerigo parte per il Nord nell’ambito di un’iniziativa patrocinata dal Partito Comunista (“So-li-da-rie-tà”): il bimbo, inizialmente controvoglia, affronta l’esperienza dell’adozione transitoria senza comprenderne le ragioni e vive il viaggio in treno tra paure e meraviglia (“Piove ricotta!”).

Ma l’’esperienza a Modena sarà una scoperta continua: affettiva (“È la prima volta che mi abbraccia un papà”), culturale, musicale.

La prospettiva infantile (“Ho visto il forno enorme di Rosa e, pure se mi trattano sempre bene, ho creduto a quello che aveva detto la Pachiochia sui comunisti che cuocevano i bambini per mangiarseli”) viene abbandonata solo nell’ultima parte: quella in cui Amerigo, ormai adulto, ritorna al paese d’origine in preda a disincanto, vergogna, rimorsi, nostalgia…

Il romanzo è struggente, delicato, profondo.

Giudizio finale – citazione: “Negli occhi dei bambini sono racchiuse le poesie più belle” (Anonimo).

Bruno Elpis

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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    19 Febbraio, 2020
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ORIENT EXPRESS

La Napoli nell'immediato dopoguerra è quel che rimane dopo quanto descritto nel disperato romanzo “La pelle” di Curzio Malaparte.
La città e i suoi abitanti sono come un “ferito a morte” per dirla come Raffaele La Capria, dilaga la miseria atroce, soprattutto la fame, quella vera, letterale, atavica, quella inverosimile e crudele che ti procura spasmi dolorosi al ventre, e ti degrada inesorabilmente, sperdendo la tua umanità.
Uno scenario, “il ventre di Napoli”, già tante volte ripetutosi nel corso dei secoli, e già amaramente riportato, con triste cura nei particolari, da Matilde Serao.
È la “Napoli milionaria” di Eduardo, in cui la nottata non si accinge ancora a passare, in cui si occultano generi di prima necessità nei “bassi”, le piccole, misere, insalubri abitazioni dei vicoli, per farne commercio clandestino, pur di sbarcare il lunario.
“Il treno dei bambini”, in estrema sintesi, è il racconto salvifico di un viaggio organizzato soprattutto da donne, che richiedono l’aiuto e il supporto morale e materiale di altre donne, soprattutto donne, per la salvaguardia del patrimonio più importante dell’umanità: i bambini, la loro innocenza, la loro pulizia innata e genuina, perché non venga traviata dagli orrori degli uomini e dalle miserie dell’esistenza.
Un romanzo scritto da una donna, per le donne, con donne protagoniste, nel bene e nel male, per la salvaguardia della speranza dell’umanità, dunque: non a caso il piccolo protagonista del romanzo si chiama Amerigo Speranza, recando nel cognome la virtù e nel nome la terra che di quella virtù è l’emblema.
“Il treno dei bambini” è il racconto di eventi realmente accaduti, che fanno parte della memoria storica del nostro paese; non è, però, un racconto di Storia, Viola Ardone con sensibilità, delicatezza, compartecipazione e raffinatezza estetica fa invece storia dei sentimenti, uno su tutti, la solidarietà, che di quegli eventi furono ispiratori.
Per strappare dalla fame e dall'indigenza migliaia di bambini, sottrarli all'ovvia decadenza morale che sempre si accompagna alla miseria e all'ignoranza, le forze democratiche sorte dalla Resistenza allestiscono veri e propri treni speciali.
Una forma di legge del contrappasso: ai recenti, e d’infausta memoria, treni dei deportati verso un destino peggiore della morte, si sostituiscono treni di bambini.
Non sono treni metaforici, sono treni reali, carrozze vetuste e locomotive asmatiche, che portano i bambini verso le terre del Nord Italia, dove saranno accolti, come ospiti temporanei e graditi, presso normali famiglie della parte più florida del Paese, generalmente in Emilia-Romagna.
A questi bambini è offerto quanto di più normale si possa offrire: una casa, pasti regolari, vestiti comodi, la frequenza della scuola, l’attribuzione di compiti, doveri, ricompense, riconoscimenti, vi si svolge una normale educazione familiare che comprende osservare le feste e ricevere i piccoli regali nelle ricorrenze.
Soprattutto, serve a farli sentire bambini, a rasserenarli, restituirgli l’infanzia negata dal bisogno e dalla sofferenza.
Sono treni normalissimi, che li scortano verso uno stile di vita oserei dire banale: ma per coloro che ne hanno fortunatamente usufruito, questi treni sono autentici Orient Express, sono vagoni in viaggio verso paesi ricchi e fiabeschi come quelli magici orientali, sono carrozze dirette al paese del bengodi, sono vetture che ti portano direttamente dalla speranza al sentirsi benvenuti nell'esistenza, come accadrà al piccolo Amerigo.
Quanto di più normale, quindi, come si vede; e quindi, quanto di più crudele da negare a dei bambini.
Questa descritta da Viola Ardone, direi in maniera magistrale e coinvolgente, con una scrittura analitica e struggente insieme, è una delle pagine più belle, e meno conosciute, della storia del nostro Paese; un momento unico ed esaltante in cui gli italiani si riscoprono davvero tali, unici, uguali, uniti, fratelli, e chi può dà, cede spontaneamente quanto ha ai meno fortunati, a chi non ha invece avuto pari destino, e certo non per propria colpa.
Intende che il fine ultimo della solidarietà, è appunto un mondo senza ultimi.
I bambini non chiedono di essere felici, lo esigono.

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Consigliato a chi ha letto...
"La pelle" di Curzio Malaparte; "Il ventre di Napoli" di Matilde Serao"; "Il mare non bagna Napoli" di Anna Maria Ortense; "Ferito a morte" di Raffaele La Capria; e poi Giuseppe Marotta, Domenico Rea e altri ancora, e ha chi ha visto "Napoli milionaria" di Eduardo e "Sciuscià" di Roberto Rossellini.
E a chi ama tutti i bambini del mondo.
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lapis Opinione inserita da lapis    13 Febbraio, 2020
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Il sapore della solidarietà

Un romanzo al gusto di solidarietà.
Ma qual è il sapore della solidarietà?

La solidarietà sa di gioia. È qualcosa da cantare, come fanno le donne e gli uomini dell’Alta Italia, nel primo dopoguerra, accogliendo migliaia di bambini in difficoltà, provenienti dal Meridione. Cantano, col sorriso sulle labbra e le braccia aperte. Donano, cibi appetitosi, vestiti caldi e affetto famigliare.
Perché dare non significa solo privarsi, ma arricchirsi.

La solidarietà sa di amarezza. Essere messi su un treno a sette anni, essere accolti come figli in una famiglia che non è la propria, conoscere un nuovo modo di vivere, tutto questo ha un suo prezzo. Lo sradicamento, la vergogna del diverso, la sofferenza di sentirsi spezzati definitivamente in due.
Perché ricevere non significa solo prendere, ma rinunciare.

“Ho avuto molto, ma il prezzo l'ho pagato per intero, ho rinunciato a tanto”.

È un freddo mattino di novembre quando il piccolo Amerigo sale sul treno dei bambini, diretto al nord. Sulla banchina, non ci sono baci e lacrime per lui, solo una mela. Gli abbracci e i sentimenti non sono arte di mamma Antonietta, una donna dura, segnata dalla quotidiana lotta alla sopravvivenza. A Napoli, Amerigo non va a scuola, mangia pane secco e cammina scalzo. A Modena troverà invece una casa, carezze, la passione per la musica e persino un uomo da chiamare babbo, per lui che un padre non l’ha avuto mai. La mela in tasca gli ricorda però quella mamma mai sorridente, che forse lo ha abbandonato, che forse non lo ama abbastanza.
Ma attenzione Amerigo, le mele se non le mangi avvizziscono. E così anche gli affetti, se lasci che il tempo sedimenti equivoci, rancori e malintesi.

“Amerì, a volte ti ama di più chi ti lascia andare che chi ti trattiene”.

Riscoprendo una pagina importante della storia del nostro paese, Viola Ardone emoziona e coinvolge con un racconto vero, intenso, struggente. Commuove e fa sorridere la tenera e scanzonata voce di Amerigo, alle prese con il dialetto emiliano, la mortadella e, soprattutto, una dimensione emotiva nuova, dove l’urgenza del bisogno lascia spazio ai sentimenti, all’altruismo, alle idee. Addolora, nell’ultima parte, la voce adulta di Amerigo, con le sue ferite mai del tutto rimarginate. A ciascun lettore il compito di riflettere sulle molteplici sfaccettature di questo bellissimo esempio di solidarietà. Per chi ha scelto dolorosamente di lasciar partire. Per chi ha accolto con una generosità oggi non comune. Per chi è stato costretto, ancora bambino, a lanciarsi in un salto nel buio.
Tante le lacrime eppure tanta delicatezza in questa narrazione, che evita sempre i toni patetici per lasciare spazio alla genuinità, alla dignità, alla speranza.

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Vincenzo1972 Opinione inserita da Vincenzo1972    04 Febbraio, 2020
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..perché gli abbracci non sono arte nostra..

Il treno dei bambini si muove lungo i binari della memoria, attraversa spazi popolati di ricordi che si affacciano riflettendosi sui finestrini mentre il treno corre e punta dritto al cuore.
E ci arriva al cuore.. almeno al mio. Perché al centro della storia c'è il rapporto tra una madre e il proprio figlio in cui ho potuto facilmente immedesimarmi.
Forse perché è tipico del meridione, e leggendo il libro ne rimango sempre più convinto: sono tanti gli aspetti che distinguono un meridionale da un settentrionale, uno di questi credo sia proprio il rapporto madre-figlio, basato su un sentimento di amore allo stato grezzo, quasi primitivo oserei definirlo, essenziale e scarno nelle sue esternazioni, un amore fortemente protettivo ed esclusivo che considera una potenziale minaccia qualsiasi intrusione proveniente dal mondo esterno nel suo guscio avvolgente.
E Antonietta, madre di Amerigo Speranza, ricalca fedelmente questo stereotipo: vivono entrambi in un 'basso' dei quartieri spagnoli di Napoli, in cui la miseria regna sovrana e l'ombra della seconda guerra mondiale appena terminata ancora aleggia tra i cuori della gente.
Non è facile per Antonietta mantenere suo figlio, tanto più che il padre sembra sia partito per l'America e chissà se un giorno tornerà: Amerigo questa speranza se la porta sempre dietro, anche nel cognome.
Nel frattempo Amerigo cresce tra le strade del suo quartiere, recuperando pezze logore che sua madre rattopperà per poi rivenderle al mercato; a scuola non ci va più, 'la maestra teneva la scucchia e parlava con la zeppola in bocca e a chi la sfotteva gli arrivava una scoppola sulla testa. Io in cinque giorni ne ho avute dieci'.
Non sa ancora leggere e scrivere ma sa contare fino a 100, tanto gli basta per il gioco che più gli piace, quello di contare le scarpe dei passanti: "Guardo le scarpe della gente. Scarpa sana: un punto; scarpa bucata: perdo un punto. Senza scarpe: zero punti. Scarpe nuove: stella premio. Io scarpe mie non ne ho avute mai, porto quelle degli altri e mi fanno sempre male."
Quel giorno Antonietta è più taciturna del solito mentre lo accompagna .. dove? E' una sorpresa, "dice che è per il mio bene. Invece ci sta la fregatura sotto, come per i pidocchi. E' per il tuo bene, e mi ritrovai con il mellone'.
E aveva ragione Amerigo. Dopo qualche giorno, si ritrova insieme a tanti altri bambini come lui su un treno direzione Nord Italia, dove verranno affidati a diverse famiglie che si prenderanno cura di loro a proprie spese, offrendo loro una casa, l'affetto di una famiglia e la possibilità di frequentare scuola o imparare un mestiere.
Un treno speciale, il treno dei bambini. Una lodevole iniziativa del partito comunista messa in atto tra il 1945 e il 1952, quando il comunismo in Italia era un'ideale non ancora degenerato in ideologia corrotta da interessi e compromessi politici, che in nome della solidarietà tra compagni e compagne delle varie regioni di Italia si proponeva di garantire un'opportunità di maggior benessere ai bambini provenienti dalle famiglie più disagiate del centro-sud Italia.
Amerigo però tutto questo non lo sapeva; e neanche Antonietta poteva immaginare quale sarebbe stato il destino di suo figlio, tanto più che le voci del popolo non erano proprio incoraggianti: "Ognuno dice una cosa diversa: chi sa che ci venderanno e ci manderanno all'America per faticare, chi dice che andremo in Russia e ci metteranno nei forni, chi ha sentito che partono solo le creature malamenti e quelle buone se le tengono le mamme, chi non se ne fotte proprio e continua come se non niente fosse, perchè è ignorante assai."
Sicuramente però se Amerigo fosse rimasto lì con lei il suo destino sarebbe stato più che certo e simile al suo, un destino di fame, povertà e sofferenza.
Per questo Antonietta non ci pensa due volte e non ha dubbi quando accompagna il suo Amerigo in stazione; lei resta giù, insieme alle mamme degli altri bambini, in attesa che il treno parta, gli ha lasciato solo una mela da mangiare durante il viaggio, nient'altro perché ci penseranno i suoi nuovi genitori a prendersi cura di Amerigo, la sua nuova famiglia. Amerigo le lascia invece un abbraccio e lei resta sorpresa, 'perché gli abbracci non sono arte nostra'.
Già.. gli abbracci, le parole di conforto, un bacio o una carezza... non è 'arte' per una madre come Antonietta: l'amore c'è, ed è anche grande, Antonietta sarebbe disposta a tutto per il bene di suo figlio, ma è un amore concreto che si palesa nei fatti e non nelle 'smancerie', come se quelle potessero sminuirlo.

-Perchè? Chi ti manda via ti vuole bene?
-Amerì, a volte ti ama di più chi ti lascia andare che chi ti trattiene.

Un sentimento di amore austero, rigido, forse perchè temprato da una vita fatta di stenti e di privazioni, tanto da impoverire, riducendoli all'essenziale, anche i sentimenti: un amore involutivo, rimane arginato nel cuore e mai manifestato.
Ben diverso da quello che Amerigo sperimenterà in Emilia Romagna, dove verrà affidato alle cure di Derna, di sua cugina Rosa e del marito Alcide con i tre figli Rivo, Luzio e Nario (che se chiamati in quest'ordine ricalcano anche nel nome lo spirito e l'ideologia politica del padre).
Nonostante le comprensibili difficoltà che Amerigo incontrerà inizialmente per ambientarsi in questa nuova realtà, sarà ben presto travolto dalla generosità e dall'affetto spassionato della sua nuova famiglia 'adottiva' e in un clima di ritrovata serenità riuscirà anche a riprendere gli studi a scuola e persino a coltivare una sua grande passione, quella del violino.
Tuttavia, non dimenticherà mai sua madre Antonietta nè tantomeno il suo legame con lei verrà scalfito dalla lontananza; bensì sarà proprio il desiderio di rivedere sua madre che compenserà in parte la tristezza con cui Amerigo riprenderà il treno verso Napoli dopo circa un anno.
Nella sua città, però, nulla è cambiato: anzi, degrado e disoccupazione imperversano ovunque riducendo in povertà diverse famiglie. Anche sua madre sembra cambiata: pare quasi ostile nei suoi confronti, indifferenre ai racconti delle sue esperienze vissute al Nord, quasi come fosse stata una scelta di Amerigo quella di andar via lasciandola sola e non una sua decisione.
Una situazione che diventerà ben presto insostenibile per Amerigo e che esploderà quando, un giorno, dopo aver saputo che la madre aveva venduto l'unico oggetto a cui era fortemente legato, il violino regalatogli da Alcide, Amerigo scapperà via prendendo quel treno che lo riporterà nel Nord, dalla sua famiglia adottiva, questa volta senza ritorno.

Seppur ambientato in uno spaccato storico in cui l'Italia, il meridione in particolare, a stento cercava di risollevarsi dopo il crollo economico e il disordine politico determinato dall'ultimo conflitto mondiale, il romanzo di Viola Ardone porta con sè un messaggio positivo, di rinascita e trasformazione, incarnato nel personaggio di Amerigo e soprattutto nella speranza che anima la sua vita e suo unico conforto: la speranza delle scarpe nuove, la speranza che il padre torni da lui, la speranza di imparare a suonare il violino.
Speranze e sogni di un bambino raccontati con le parole, l'animo e gli occhi di un bambino: una scelta stilistica per nulla banale (perchè non è facile abbassarsi e descrivere il mondo ad altezza di bambino) che conferisce al romanzo una forte carica emotiva concentrata nei pensieri e nei dialoghi di Amerigo, fatti di frasi brevi, spesso sgrammaticate ed intrise di termini dialettali, ma che puntano dritte al cuore di chi legge:
"In questa scuola la maestra è un maschio e si chiama signor Ferrari. E' giovane, non ha i baffi e tiene la erre moscia. Dice agli altri che io sono uno dei bambini del treno e che mi devono accogliere e farmi sentire a casa mia. A casa mia non avevo niente, penso. Quindi è meglio che mi accolgono come a casa loro."
E se la prima parte del romanzo, legata all'infanzia di Amerigo, commuove ed intenerisce per la dolcezza e la tenacia con cui il bambino cerca di non lasciarsi sopraffare dal dolore per l'allontanamento dalla madre e dalla sua casa e la paura di non essere ben voluto nella nuova famiglia, d'altro canto la seconda parte del libro, con un Amerigo ormai adulto, trasmette la malinconia, il risentimento e la rabbia delle occasioni perse, la consapevolezza amara di un vuoto profondo nella propria vita che l'orgoglio gli ha impedito di colmare, respingendo un amore, quello della madre, altrettanto fiero, incapace di scendere a compromessi, che pretende solo riconoscimento e gratitudine per i sacrifici e l'abnegazione mostrata ma non sa donarsi in una carezza, in un abbraccio, in quelle semplici manifestazioni di affetto che lo rendono meno distaccato e più schietto, istintivo, sincero.
"Come tutte le cose che si lasciano in sospeso, si rimandano al giorno dopo senza sapere che il giorno dopo non ci sarà."

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Opinione inserita da maria rosa giannalia    03 Febbraio, 2020

la povertà e il riscatto

L’autrice Viola Ardone è relativamente giovane ed è alla sua terza esperienza di scrittura. Questo è, a mio avviso, un elemento da tenere presente nell’analisi del testo.
Non c’è dubbio che la fortuna del libro nasca dal racconto assai toccante dell’avventura toccata ad un gruppo di bambini dello stesso rione dei bassi napoletani tra cui si trova lo stesso protagonista, Amerigo, che narra in prima persona tutta la vicenda occorsa a sé e ai suoi amici, bambini tra i sei e i dieci anni. Fortuna data anche dal fatto che l’episodio autentico non era stato mai narrato in chiave romanzata.
La narrazione procede quindi dal punto di vista di Amerigo per tutte le tre prime parti del romanzo, mentre nella quarta parte è un Amerigo adulto che parla in un dialogo immaginario con la madre appena morta. Il narrato, per bocca del piccolo Amerigo, procede attraverso uno stile e un registro linguistico tipico degli scugnizzi napoletani che, vissuti nella miseria, devono arrabattarsi anche per il pane quotidiano. E Amerigo non fa eccezione: egli è perfettamente inserito in questo contesto e assolutamente inconsapevole della sua condizione di povero figlio di una giovanissima madre incapace di dargli l’affetto che il piccolo si aspetta. Affetto che la madre tuttavia sa dargli a sprazzi attraverso gesti quotidiani ben sottolineati dalle parole del bambino . Antonietta non è una madre anaffettiva, è una madre povera di beni e di sentimenti. Non sa neppure svelare la sua vera paternità al piccolo il quale, per questo, andrà per tutta la vita alla ricerca di una stabilità che solo la cognizione della propria nascita può conferire anche agli ultimi nella scala sociale.
Le parole che Amerigo usa per narrare sono ingenue, fresche, costitutive del linguaggio degli scugnizzi, attraversato da espressioni che conservano il ritmo del dialetto napoletano, come la stessa autrice afferma in questa intervista.
Questa scrittura conferisce alle prime tre parti del romanzo un realismo poetico che l’autrice riesce ad organizzare in un unicuum narrativo nel quale il lettore si immerge con piacere.
L’autrice rende assai bene , con le parole dell’infanzia, di quella infanzia, il senso della meraviglia di fronte a possibili altri mondi affettivi ai quali i piccoli non sono abituati e al senso di gioia e di appagamento nel partecipare di quel mondo diverso, più ricco, dove predomina abbondanza di cibo e di cure, dove i piccoli possono finalmente dismettere i panni dei “finti adulti” e diventare quello che realmente sono : bambini con desideri e aspirazioni da bambini.
Che l’allontanamento dalla loro realtà miserabile dei bassi napoletani verso un mondo più vivibile, occasione generosamente offerta dalla popolazione dell’Emilia Romagna, sia un’arma a doppio taglio per questi piccoli, è tuttavia un fatto ineludibile con il quale essi dovranno, al loro ritorno, dopo avere conosciuto il benessere, confrontarsi immersi nuovamente in quella vita di stenti che avevano pensato essere scomparsa per sempre.
Nell’immaginario infantile, questo ritorno è tanto più avvilente quanto più, come è il caso di Amerigo, la”famiglia di origine” è anni luce lontana dal paradiso che i bambini hanno conosciuto e abitato per sei bellissimi mesi.
Il caso di Amerigo è eclatante: l’oggetto simbolo della sua vita rinnovata , un violino che gli era stato regalato dalla famiglia di accoglienza, sparisce da sotto il letto dove lui l’aveva religiosamente custodito. La madre ha necessità di cibo e non esita a venderlo, compiendo un atto la cui conseguenza immagina benissimo ma che tuttavia ritiene indispensabile per la sopravvivenza sua e del figlio.
Le azioni compiute da Amerigo, consequenziali a questo episodio ( la fuga da Napoli alla volta di Modena, il rifugio definitivo presso quella famiglia e il ripudio della madre dopo lanascita del fratellino Agostino) lo segneranno per tutta la vita. Alla povertà e alla miseria non si sfugge: entrambe diventano connotative nella vita di Amerigo che ne porterà i tratti per tutta la vita e non riuscirà a liberarsene neanche da adulto quando, già affermato violinista, affrancato dal bisogno, ritornerà a Napoli per un ultimo saluto alla madre morta.
Nella quarta parte del romanzo, meno spontanea e riuscita forse delle altri tre parti, l’autrice vuole riscattare la condizione di perdita del bambino Amerigo, perdita con la quale egli ha dovuto fare i conti lungo il corso della sua vita. Per questo l’adulto Amerigo torna a Napoli nella speranza di rendere l’ultimo saluto alla madre e attraversa quegli stessi vicoli, cammina su quelle stesse pietre, riconosce i segni della sua infanzia passata che gli si rovescia addosso esattamente nella sua integrità.
Egli si difende: mente circa la sua vera identità con chi fa le viste di riconoscerlo, mente sul suo lavoro, mente sul suo cognome, ribadendo che lui si chiama Benvenuti, mente sul suo stato civile, mente persino sulla paternità presunta di due figli per scrollarsi di dosso quel suo passato di miseria, perché la miseria, quando la si è provata, diventa un tratto caratteristico dell’anima e si trasforma in paura che non molla mai la sua preda, pronta a ripresentarsi al solo apparire di un oggetto, di una persona , di un ricordo.
A questa paura l’adulto Amerigo vuole sfuggire ma senza successo: essa lo accompagna lungo tutta la sua permanenza in quella sua città natale.
A questo punto, il romanzo avrebbe potuto avere la sua conclusione, in coerenza con l’atmosfera evocata nelle precedenti tre parti. In tal senso in questa parte conclusiva anche l’uso della seconda persona all’interno del modificato registro linguistico , acquista un senso funzionale alla storia, perché il colloquio di Amerigo con la madre prescinde anche dal lettore ed acquista autonomia nella volontà del riscatto attraverso una muta richiesta di perdono.
Peccato che l’autrice non si sia saputa sottrarre ad una conclusione scontata: il lieto fine che, con la probabile adozione del nipotino rimasto solo, dopo l’arresto dei genitori, lo assolve e lo salva.
Il lettore magari ne sarà felice, ma questa conclusione sottrae autenticità e coerenza alla storia narrata.

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evelyn73 Opinione inserita da evelyn73    06 Dicembre, 2019
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scarpe che non fanno più male

*****SPOILER*****
Storia emozionante di Amerigo Speranza, che trascorre la prima infanzia in un contesto di estrema povertà, nella Napoli dei primi anni '40. Ad otto anni, parte per essere ospitato da una famiglia di Modena, come tanti altri suoi coetanei; la permanenza di Amerigo presso questa famiglia "adottiva" non sarà però temporanea come da programma iniziale. La quarta parte del libro (delicata, toccante, commovente) è dedicata ad Amerigo adulto, che torna a Napoli alla notizia della morte della madre. Sarà per lui l'occasione per ripercorrere un viaggio a ritroso, per sistemare importanti tasselli della sua vita rimasti in sospeso e per riconciliarsi col passato. Nelle ultime pagine ho percepito la crescente serenità che man mano si faceva spazio nell'animo di Amerigo, man mano che s'imbatteva in luoghi e personaggi del passato, dando un significato al proprio percorso personale e sciogliendo i propri tormenti interiori, fino alla decisione di interessarsi al nipote Carmine. Questo, grazie allo zio Amerigo, avrà la possibilità di riscattarsi rimanendo a vivere nel suo luogo natio, senza essere strappato agli affetti familiari e senza dover subire uno stravolgimento delle proprie abitudini.
Ho apprezzato l'idea di simboleggiare la pace interiore dell'Amerigo adulto con le scarpe che ora non gli fanno più male (semplicissima ma impattante la figura e la descrizione del calzolaio che gli sistema le calzature, proprio mentre Amerigo via via si riconcilia con se stesso, con il passato, con la madre), mentre in tutto il romanzo il tema del cammino doloroso è rappresentato da scarpe strette, scomode, piccole, da scarpe indossate da altri a cui il piede del piccolo protagonista si deve adattare.

Come ha scritto nella recensione annamariabalzano43, segnalo anch'io che le prime tre parti del libro riportano tanti termini napoletani e congiuntivi "scorretti", per cui io ho fatto inizialmente un po' di fatica, ma il significato delle parole (ad esempio zoccole pittate, scuorno, scucchia, mellone, cacaglio) si deduce comunque dal contesto o ci si aiuta con internet.

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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    28 Ottobre, 2019
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Il Picaro dei nostri giorni



Eccolo il Picaro dei nostri tempi, cambiato, si, dal Lazarillo de Tormes o dal Tom Jones furbi e furfantelli dei quali abbiamo letto con passione le avventure, cambiato per l’atteggiamento nei confronti della realtà che lo circonda, a causa della precoce consapevolezza che lo fa sentire da subito un outsider, eppure sempre lo stesso picaro nella sua spasmodica ricerca di riscatto e di integrazione in una società che istintivamente gli è ostile.
È lui, è Amerigo, il protagonista de “Il treno dei bambini” di Viola Ardone, uno di quei bambini napoletani, scelti, grazie a un esperimento messo in opera dal Partito Comunista nel 1946, perché trascorressero un certo tempo con famiglie del nord Italia, al fine di alleviarne almeno temporaneamente i disagi dovuti a una condizione di vita di estrema indigenza.
Attraverso i suoi occhi veniamo a conoscenza di personaggi molto ben caratterizzati e veniamo a contatto con un ambiente degradato ma carico di umanità e proteso verso quella solidarietà che è elemento essenziale del principio di accoglienza. La crescita di Amerigo avviene tra dolorose separazioni e ricongiungimenti, in un alternarsi di affetti persi e ritrovati. L’amore per la madre che ama profondamente ma di cui percepisce i limiti, lo seguirà sempre e sarà al centro del loro rapporto sofferto fatto di silenzi e sentimenti inespressi.
Al di là della trama, ben costruita, ciò che colpisce è l’operazione che Viola Ardone fa sul linguaggio. Nella prima parte del romanzo la narrazione è affidata ad Amerigo bambino:egli dunque si esprime come un qualsiasi bambino di umile estrazione sociale, che non ha dimestichezza con le regole dettate da una discreta istruzione. La sua mamma è analfabeta, firma con una croce, non sapendo scrivere neanche il suo nome. Amerigo sa scrivere, ma il suo linguaggio è povero e scorretto. La Ardone riporta efficacemente per esempio l’uso dei verbi intransitivi in modalità transitiva, come spessissimo accade nel linguaggio corrente di tanta popolazione del sud. Un’operazione di tipo sociologico che contribuisce a dare maggiore veridicità al racconto. Nella seconda parte, Amerigo, ormai colto signore di mezz’età, si esprime in modo del tutto diverso: grammatica e sintassi testimoniano anni di studio e di riscatto sociale.
Originale anche l’uso di nomi simbolici attribuiti ai personaggi: il cognome di Amerigo è Speranza, e infatti la speranza di una vita migliore sarà il motivo che lo spingerà lontano dalla famiglia di origine, mentre Benvenuti è il cognome della famiglia che lo accoglierà e che diventerà poi suo dopo l’adozione. È quindi proprio il tema dell’accoglienza ad essere centrale in questo bel romanzo. Un tema di grande attualità, che porta alla luce il dramma dell’abbandono della terra d’origine e degli affetti, un dramma di fronte al quale troppo spesso ci mostriamo insensibili. Un romanzo profondamente radicato nella realtà in cui abbiamo vissuto e viviamo tuttora. Commovente senza eccessi. In una parola: bello.

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Mian88 Opinione inserita da Mian88    06 Ottobre, 2019
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Amerigo Speranza, Rivo-Luzio-Nario!

«Mia mamma Antonietta resta in un angolo della stazione che diventa sempre più lontano, con le braccia incrociate sopra al mio cappotto. Come se mi tenesse stretto sotto ai bombardamenti.»

Il suo nome è Amerigo Speranza come sua madre Antonietta. Il nome, invece, è stato scelto da quel padre che non ha mai conosciuto e che si dice esser partito per l’America per fare fortuna. Non ha lasciato niente, alla famiglia, se non, appunto, un nome. Che non è molto, forse, ma sempre qualcosa è. È il 1946 e il bambino di quasi otto anni è tra i tanti costretti a lasciare il rione di Napoli per salire sul treno. Un treno dei comunisti, un treno che li porterà al Nord, o forse in Russia, o forse ad esser mangiati da qualcuno, ad ogni modo lontano da casa. In verità, questa traversata porterà i piccoli a percorrere la penisola italiana per approdare nel Nord che nel caso del giovane Amerigo si tradurrà in Modena. Qui, grazie ad una iniziativa del Partito Comunista, i fanciulli, verranno inseriti in alcune famiglie disposte ad ospitarli per un periodo di tempo purtroppo limitato per sottrarli, il più possibile, alla miseria del meridione e alla miseria dettata dal conflitto appena conclusosi.
Amerigo, che all’inizio crede di essere solo e di essere stato scartato, viene invece accolto da Derna, una compagna del partito che ha perduto l’amore in guerra. La donna che di bambini sa ben poco, che teme di non sapere come consolarli, che non conosce i loro gusti ma che tuttavia parla un pochetto di latino, conosce della politica e ne sa del lavoro, si dimostra essere una madre dalla grande sensibilità. I due si scoprono pian piano, il loro è un rapporto fatto di piccoli silenzi che racchiudono mille parole, di sguardi, canzoni e abbracci che racchiudono profonde emozioni. Perché ognuno trova nell’altro quel pezzettino che gli mancava, quel tassello atto a riempire un vuoto in precedenza sconosciuto e ignorato.

«E così ce ne andiamo, mano nella mano. I suoi passi non sono veloci come quelli di mia mamma Antonietta. Lei non mi lascia indietro. Oppure sono io che vado più svelto, per paura che rimango solo nell’aria grigia»

Per aiutarlo ad integrarsi Derna presenta al piccolo Arrigo, Rosa, sua cugina, e tutta la sua famiglia composta dal marito Alcide e i tre figli Rivo, Luzio, Nario, nome appositamente coniato per formare, quando i tre vengono chiamati tutti assieme, l’espressione Rivo-Luzio-Nario! Mentre Rivo è un gran chiacchierone e Nario è troppo piccolo per interloquire avendo appena un anno di vita, con Luzio, che diventa anche suo compagno di classe, i rapporti non sono subito semplici. Arrigo è chiamato inoltre a far fronte ai pregiudizi e alle cattiverie di quel mondo nuovo che da un lato lo accoglie e gli mostra una dimensione diversa fatta di carezze e non mazzate, di numeri e non di scarpe da contare a due a due o di pezze da vendere, di solidarietà e che dall’altro lo rifiuta additandolo come uno dei tanti bambini del treno.

«Alcide mi aveva detto che non esistono bambini cattivi. Sono solo i pregiudizi. Che è come quando tu pensi una cosa ancora prima di pensarla. Perché qualcuno te l’ha messa dentro la testa e dalla testa non se ne esce più. Ha detto che è come una specie di ignoranza, e che tutti quanti, mica solo i miei compagni di scuola, dobbiamo stare attenti a non pensare con i pregiudizi.»

Speranza è un bambino di una dolcezza e di una sensibilità incredibile. Seppur all’inizio si senta spaesato e guardi a questa nuova dimensione con un certo smarrimento, pian piano riesce ad orientarsi, a far amicizia e ad entrare nei cuori di questa grande famiglia che lo ha accolto. Abituato a non avere nulla è stupito di tutto ciò che gli viene dato, anche delle piccolezze come una biglia o una fetta di mortadella o anche solo l’aver un letto tutto per sé o la possibilità di imparare a suonare uno strumento, sono un qualcosa di a lui sconosciuto e di preziosissimo.

«Derna mi benda gli occhi. Mentre mi preparo a picchiare, mi torna in mente il primo giorno, quando ero rimasto ultimo fino a che non era comparsa lei. Mi era sembrata grande e forte e invece adesso è come rimpicciolita. È vero che sa tante cose, anche un poco di latino, ma dei fatti della vita è più ignorante di una creatura. E se non ci sto io, con lei, chi la difende?»

Il giorno della separazione non tarda ad arrivare. Tutto quel che aveva, già non lo ha più. Il cuore è combattuto. Ha ragione l’amico Tommasino. Ormai sono spezzati a metà. Napoli si riapre di fronte ai loro occhi, le madri e i padri tornano ad abbracciarli, ma qualcosa è cambiato. Adesso Arrigo vede il suo mondo con uno sguardo diverso, con una mutata prospettiva, con una riscoperta consapevolezza. Non perché sia diventato ambizioso o spocchioso, ha mantenuto la sua umiltà e il suo essere, bensì perché ha conosciuto la dolcezza, ha conosciuto la possibilità di avere un futuro diverso fatto da un’istruzione di base e non più soltanto da mestieri raccatti a destra e manca per sopravvivere. Un gesto incauto da parte di Antonietta, un gesto che colpirà nel profondo il figlio, lo porterà a prendere una scelta inevitabile e irreversibile.
Quello di Viola Ardone è un libro di grande intensità, un libro che arriva senza difficoltà e che si fa divorare in poco più di una giornata perché il lettore è semplicemente conquistato dal narrato e da questo protagonista così genuino, semplice e veritiero. Tra le tante qualità dell’autrice vi è quella di sapersi perfettamente immedesimare nella voce di un bimbo di otto anni che pian piano cresce sino a diventare un uomo di mezza età. Ella è capace di variare il registro narrativo senza sbavature e in perfetta armonia con il quanto già proposto. Riconosco che forse la seconda parte è un po’ più debole della prima seppur ne contenga tutta l’essenza, ma ciò non toglie pregevolezza al componimento. Lo scritto è altresì uno spaccato storico poiché illustra al lettore degli anni duemila di un tempo apparentemente lontano eppure così vicino. Nello scorrimento di questo egli è chiamato ad interrogarsi, a porsi delle domande, a cercare delle risposte. E il tutto con la massima della naturalezza. Assistiamo anche alla naturale crescita del personaggio principale che, spaccato in due realtà, intraprende un viaggio a ritroso nel tempo per ritrovarsi, per capire davvero chi è, chi era e chi sarà.
Una lettura che scalda il cuore e che non delude le aspettative.

«Siamo di nuovo sul marciapiede e mi torna in mente l’odore di Derna, quando alla fermata della corriera per Modena mi accolse nel suo cappotto. E ho paura. La mia mano, che fino a ora era stata abile solo nel manovrare l’archetto di un violino, può essere uno strumento capace di consolare e dare forza. È un potere così grande che non sono sicuro di saperlo usare. La mano che tiene stretta quella del bambino si sente a un tratto debole. Ha appena fatto una promessa che non è in grado di mantenere.»

«C’è molto tempo davanti a me, ma non ho fretta, il viaggio più lungo l’ho già fatto: ho dovuto percorrere a ritroso tutta la strada fino a te, mamma.»

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