Le cose dell'amore
Saggistica
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IO+TE= CATACLISMA
«Concedersi ad Amore, allora, non è concedersi l’uno all’altro, ma concedersi a quel paesaggio insolito e atipico che dispone l’uno e l’altro, al di là dei propri gesti e delle proprie intenzioni, fino alla follia, fino alla morte, che proprio in amore ha la sua massima similitudine. Poi Amore si congeda e lascia nei corpi la traccia della loro lacerazione.»
Se si è amato almeno una volta nella vita, si è consapevoli di cosa significa vivere con e senza amore. Si è consapevoli, ancora, della profonda forza che l’amore sa dare e che l’amore sa togliere, del dolore che sa arrecare, dall’energia che sa privare e donare. E proprio perché l’amore è così vasto, eterogeneo, misterioso e complesso, ecco che ci fa sentire vivi, ci fa sentire “morti”, ci fa desiderare di conoscerlo, diventa un po’ quel miraggio che tutti desideriamo anche se spesso non riusciamo a trovarlo. O se pensiamo di averlo trovato, non sempre finisce in modo positivo.
Umberto Galimberti in “Le cose dell’amore” ci propone un vero e proprio saggio sul sentimento, un excursus in cui lo percorriamo per mezzo di molteplici declinazioni. Lo associamo all’intimità, lo associamo ancora alla passione, alla paura, alla gelosia, alla follia ma anche al possesso, alla perdita, al tradimento, alla delusione, alla riscoperta.
«Amore è solo la chiave che ci apre le porte della nostra vita emotiva di cui ci illudiamo di avere il controllo, mentre essa, ingannando la nostra illusione, ci porta per vie e devianze dove, a nostra insaputa, scorre, in modo tortuoso e contraddittorio, la vitalità della nostra esistenza.»
Per Galimberti il punto di partenza è che l’amore è la ricerca dell’altra metà perché nasciamo con il mito dell’Eros. Quindi dobbiamo colmare quella mancanza con l’altro. Siamo abituati a pensare all’altro come completamento, dunque il “me stesso” diventa “me stesso più l’altro”, è la ricerca di quella metà che sappia fondarsi con noi. Non, dunque, la fusione di due esseri individuali ma il completarsi, due esseri individuali che cioè vengono a riconoscersi nella metà mancante perché si scelgono e da quel momento decidono di camminare insieme. Il tutto nella più totale e concreta e completa individualità.
Da ciò si capisce che non è sano l’amore come proiezione di noi sull’altro. In questo caso si assiste a una depersonificazione dello stesso ed ha avvio un processo di frustrazione e malcontento perché chiaramente l’altra persona non può darci ciò che noi vi abbiamo proiettato sopra. Pertanto, da questo, nasce il sentimento della gelosia che ben i mixa al possesso. Gelosia e possesso sono però componenti in verità estremamente lontane all’amore.
«[…] l’amore non è possesso, perché il possesso non tende al bene dell’altro, né alla lealtà verso l’altro, ma solo al mantenimento della relazione che, lungi dal garantire la felicità, che è sempre nella ricerca e nella conoscenza di sé, la sacrifica in cambio della sicurezza. Siamo in due, non sappiamo più chi siamo, ma siamo insieme ad affrontare il mondo. Due esistenze negate, ma tutelate.»
Secondo l’autore e la filosofia che riporta, l’amore altro non è che una scelta costante e ripetuta quotidianamente dagli attori protagonisti che ogni giorno si riscelgono e alimentano il fuoco che li alimenta. È ancora libertà e fiducia perché nel momento in cui permetto all’altro di entrare nel mio mondo, consento a quest’ultimo di assaporare l’abbandono mio più totale, la mia più completa vulnerabilità.
Questo e molto altro è “Le cose sull’amore”, un saggio che tramite la filosofia e il sapere cerca di trovare le coordinate per il più grande dei misteri delle nostre vite.
«Amore è cosa intricata, perché sempre ci si confonde e non ci si chiarisce se si ama l’altro o si ama la relazione, se si soddisfa il nostro bisogno di sicurezza o il nostro bisogno di felicità. Oppure si vuole la felicità, ma non i suoi costi; e in alternativa si vuole la sicurezza, ma non la sua noia. Amore è un gioco di forze dove si decide a quale dio offrire la propria vita: al dio della felicità che sempre accompagna la realizzazione di sé, o al dio della sicurezza che molto spesso si affianca alla negazione di sé. Una cosa è certa: che nella relazione, nel “noi” non ci si può seppellire come in una tomba. Ogni tanto bisogna uscire, se non altro per sapere chi siamo senza di lei o di lui.»
Indicazioni utili
De rebus amandi
Alla maniera di Lucrezio, perché? Galimberti (Le cose dell'amore, Feltrinelli 2005) ci conduce lungo un percorso classico, tra Socrate, Platone, Nietzsche e Schopenhauer (che alla classicità non erano alieni) e finalmente a Freud e al rapporto con la follia. Questo il percorso dell’amore; ma cosa lungo la strada?
Una ricerca di qualcosa smarrita e uno smarrimento, se quella ricerca non approda a risposte e questo, visto il testo e le sue affascinanti tortuosità, è l’esito più probabile.
L’identità è sia l’oggetto smarrito che l’esito della ricerca, e se Galimberti ne rende improbabile la soluzione accompagnandoci forse troppo tra meandri di pensieri ormai lontani, non manca tuttavia di offrire soluzione, visto che quei meandri altro non sono che i luoghi di un linguaggio diverso che diversamente si è espresso: l’inconscio. E questo è chiaro, se nei meandri non ci siamo persi.
Amare non è scelta: è patimento. L’amore si patisce perché avviene e avviene precisamente nel momento in cui rispecchiamo i nostri frammenti nei frammenti di uno specchio diverso che ci restituisce quel che non sappiamo di essere. Per questo amiamo; non l’altro: noi stessi. Il se stesso che ignoriamo e a cui aneliamo, che rispecchia quell’originaria mancanza a essere cui la simbiosi fin dalla nascita condanna. Amiamo, dunque? No. Potremmo dire che ci identifichiamo con un Ideale dell’Io mai realizzato; per questo idealizziamo e qui sta la follia perché non di idealizzare si tratta, ma di riconoscere. Un testo, allora, che non dell’amore parla ma dell’antiamore, di tutto ciò che non significa amare; se l’Ombra perduta dell’inconscio ci attira, l’altro è irriconoscibile nel suo vero essere; come noi stessi, che non siamo altro che frammenti.
Riconoscere, allora, e nell’incontro con la follia dell’inconscio frammentato, riconoscere è zattera di conoscenza. L’altro anelato è noi e dunque offre occasione di congiungimento con la dimensione della nostra mancanza. E della sua, perché se spogliato da ciò che non gli appartiene, anche l’altro apparirà come è davvero e, nella reciprocità del riconoscimento, ci vedrà finalmente come siamo. Riappropriazione di identità: questo è amore; non dispersione nei frammenti di una follia mai domata dall’amore.