Marco e Mattio Marco e Mattio

Marco e Mattio

Letteratura italiana

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Marco e Mattio, romanzo di Sebastiano Vassalli edito da Einaudi, narra il viaggio verso la follia di un eroico salvatore dell'umanità e del suo misterioso compagno di strada.



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Marco e Mattio 2014-09-27 08:32:37 catcarlo
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catcarlo Opinione inserita da catcarlo    27 Settembre, 2014
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Marco e Mattio

Come già ne ‘La chimera’, Vassalli utilizza la vicenda di una persona (molto) a margine della storia per raccontare un’epoca. Questa volta tocca a Mattio Lovat, ciabattino della valle di Zoldo destinato a concludere la sua breve e sofferta vita sull’isola di San Servolo a Venezia non perché fosse matto, ma, con ogni probabilità, perché afflitto da una demenza causata dalla pellagra. Suo contraltare è Marco che oppone una sorta di personificazione del male eterno al desiderio di redimere l’umanità di Mattio: peccato che, nel complesso, il suo personaggio risulti sottoutilizzato dato che, dopo un esordio da protagonista che culmina in un momento di inattesa violenza, scompare rapidamente dai radar per riapparire in modo sporadico e, in fondo, poco significativo. Il vero protagonista del libro sembra essere, al tirar delle somme, l’ultimo quarto del Settecento che, con le sue profonde trasformazioni, segna una sorta di cesura fra una società e un’altra: dall’immobilismo dell’età moderna sotto al dominio patrizio della Repubblica Veneta e a quello forse ancor più assoluto del potere religioso alle novità portate dall’arrivo dell’età contemporanea all’inizio dell’Ottocento. In tutto questo, alla povera gente toccano soprattutto tanta miseria e tanta fame per colpa degli sconquassi meteorologici che si sommano al crollo della vecchia economia e al passare degli eserciti stranieri che finiscono per reprimere nel sangue qualsiasi sussulto di ribellione: tanti momenti narrati con attenzione al dettaglio e sentita partecipazione, come pure curata è la ricostruzione delle strutture sociali e dei rapporti interpersonali. Nell’immaginazione di chi legge prendono vita non solo la piccola e arretrata comunità rurale della valle di Zoldo, ma anche la provinciale Belluno con i suoi nobili altezzosi e la più lontana Venezia descritta in un mirabile capitolo quando è ancora una ricca capitale prima di decadere in modo irreparabile. Sono aspetti che a volte si prendono del tutto la scena, aprendo lunghe parentesi nella vicenda umana di Mattio che, fatta di inciampi com’è, riscuote la piena simpatia dell’autore tanto da fargli abbandonare spesso il tono lievemente sorridente utilizzato di solito sostituendolo con uno più partecipato. La scrittura di Vassalli scorre come al solito con grande piacere proprio per la capacità di alleggerire le situazioni, utilizzando scene da commedia all’italiana (si vedano la ‘santa’ del villaggio che fa a pugni col diavolo o il secondo viaggio di Mattio versola laguna con le esibizioni erotiche di un’aspirante suora) e spargendo qua e là dei riferimenti all’attualità, ma, allo stesso tempo, richiede una lettura attenta a causa della predilezione per i periodi complessi e ben formati (ed è un pregio, sia chiaro, non un difetto): un modo di raccontare che pare senza sforzo e riesce a non far sentire il lavoro di documentazione che ci deve inevitabilmente essere alle spalle di un libro come questo. Qualche problema di amalgama fra le sue varie componenti e un canovaccio nel complesso più debole, fanno sì che ‘Marco e Mattio’ non sia al livello del racconto del martirio della ‘strega di Zardino’, ma è comunque un bell’omaggio ai dimenticati della storia che conferma la bravura del suo autore.

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Marco e Mattio 2012-06-13 14:53:57 Antonio
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Opinione inserita da Antonio    13 Giugno, 2012

Omaggio ai vinti

“Marco e Mattio”, libro di Sebastiano Vassalli, narra le peripezie di Mattio, figlio del calzolaio di Zoldo, borgo del Bellunese. A Zoldo comincia il viaggio del protagonista verso l’insania, itinerario che culmina a Venezia nel tentativo di crocifiggersi, novello Cristo, per redimere l’umanità.

Più dell’opera a tesi e manichea “La chimera”, “Marco e Mattio” impone un confronto con “I promessi sposi”: il modello manzoniano è ineludibile per Vassalli che (ri)costruisce gli eventi principali sulla base di documenti d’epoca. E’ un romanzo storico dunque, purché si consideri la storia umana come un inferno in cui l’autore si inoltra per strappare ai dannati la dichiarazione della loro, in qualche caso, eroica sconfitta. “Ogni sconfitta è insieme testimonianza e protesta, assoluta e senza speranza, che viene insinuata qua e là nei confronti della realtà di oggi, a chiarire come i tempi cambino, ma il mondo proceda sempre uguale”.

La comparazione verte in primo luogo sullo stile e sulle strategie narrative: alcune trascuratezze linguistiche incrinano la prosa altrimenti tornita, venata di un pathos contenuto. Le tecniche coincidono per lo più con i moduli della narrativa tradizionale, manzoniana in primis. Il narratore onnisciente è, però, è più partecipe, persino dolente. L’ironia è spesso amara, ma senza la degnazione aristocratica del Manzoni.

Il raffronto, alla fine – non paia un’eresia – è a vantaggio di Vassalli, il cui nichilismo e sfiducia nell’umanità, mitigati da una sincera adesione alle sofferenze dei “vinti”, è un antidoto contro gli schemi delle ideologie. “I promessi sposi”, pur apprezzabili per tanti motivi, sono comunque un’opera cattolica o, meglio, cristiano-giansenista: l’Ideenkleid agisce da filtro e da abbellimento sicché, anche scavando nella realtà più turpe, se ne offre un’interpretazione consolatoria. Quando il Manzoni si interroga sul male, ha già le risposte, parziali e perplesse quanto si vuole, ma le ha. In alcune circostanze più del credo religioso, agisce un residuo illuminista che, se consente di gettare uno sguardo lucido e razionale sulle cose, preclude una visione mistica della natura e della vita.

Il Manzoni, nel suo lirismo, non si eleva oltre il cielo di Lombardia, “così bello quando è bello”, laddove Vassalli squaderna alcuni brani cosmici in cui si fondono turbamento e meraviglia. Il primo ignora, nel suo antropocentrismo, i patimenti degli animali; l’altro si china compassionevole sulle torture inflitte loro: “L’urlo silenzioso di quella carne macellata che reclamava vendetta ad un Creatore indifferente e lontano”.

Vassalli, che non è cristiano né razionalista, riesce ad aderire al corpo nudo della verità per mostrarne i pori, le rughe, le macchie… Come in una sorta di visione iperrealista, i personaggi schiacciano, con le loro dimensioni eccessive, il lettore: un parroco spilorcio (erede di don Abbondio, ma senza alcun tratto umoristico), una santa anoressica, un falsario di monete, un padre, quello di Mattio, infoiato, un attante misterioso, Marco, incarnazione del mito dell’Ebreo errante… Le loro vicende più che intrecciarsi con la storia, collidono con essa. I luoghi non sono descritti, ma visti attraverso lo sguardo allucinato di Mattio. Gli echi dei lumi settecenteschi arrivano fiochi e non scalfiscono la miseria e le malattie, alleggeriscono, ma solo per un breve periodo, il giogo dei privilegi. Zoldo, stretto nella morsa della fame e delle ripide montagne, Venezia, nella sua splendida decadenza, la pianura brumosa… assumono i connotati di un sogno (conturbante) ad occhi aperti.

“Marco e Mattio” vuole essere un tributo ai matti, come scritto nella dedica e nella dolorosa premessa. La follia è, in primo luogo, irrazionalità del destino e sono i “folli” che lucidamente la riconoscono, mentre i “sani”, non essendone coscienti, sono terribili nella loro passiva accettazione della sorte e dello status quo. E’ proprio all’assurdo, accolto come normale, che Mattio si ribella, tentando di immolarsi sulla croce: il sacrificio di uno solo può salvare l’umanità o tutte le azioni, anche le più nobili, sono vane? Vassalli conosce la risposta: “Mi piace perdermi col pensiero in quel pulviscolo di sistemi solari che si vedono tra una costellazione e l’altra e in quel buio dove si muovono inutilmente milioni di mondi. Soffermarmi a riflettere sull’infinità di quello sperpero che chiamiamo universo mi fa bene e mi aiuta a stare bene. Che altro sono le nostre impercettibili vite e le nostre microscopiche storie, se non sperpero nello sperpero?”

A Vassalli, con la sua profonda narrativa, il merito di aver arginato, anche se in piccolissima misura, questo sperpero.

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Marco e Mattio 2011-12-02 08:40:30 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    02 Dicembre, 2011
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Il male e il bene

“L’unica cosa che il tempo non è riuscito a far sparire del tutto, nel caso di Mattio come in quello di Gesù di Nazateh, è una traccia che gli uomini – non tutti, fortunatamente, ma nemmeno pochi! – si lasciano dietro come le lumache si lasciano la bava, e che è il loro segno più tenace e incancellabile. Una traccia di parole, cioè di niente. Gli edifici crollano e vengono ricostruiti, le città muoiono, le montagne sprofondano: solamente la parola, di tanto in tanto, riesce a darci un’illusione d’immortalità che contrasta con tutto ciò che vediamo e conosciamo, e con la nostra stessa ragione. Come scrivere sull’acqua, o scolpire il vento…”

La storia siamo noi, con l’esistenza che conduciamo ogni giorno, con i nostri piccoli fatti, le nostre convinzioni, i nostri sentimenti.
Nei libri di Sebastiano Vassalli non si racconta mai dei grandi personaggi, che magare pure sono presenti come sfondo del palcoscenico della rappresentazione. Sono i piccoli uomini, gli umili, gli ignoti che vengono alla ribalta, ombre spesso confuse ma che riescono a delineare perfettamente il percorso dell’umanità. E’ così in Cuore di pietra, in Le due chiese, perfino in quel romanzo così angosciante che è La chimera.
La stessa cosa avviene in Marco e Mattio, una vicenda per certi aspetti surreale, ma che fa emergere dall’oblio le miserie di un’epoca, fatta di fame per la povera gente e di lusso, ostentato, per i ricchi borghesi e per i nobili.
Vassalli narra di Mattio Lovat da Casal di Zoldo, un povero ciabattino sofferente di pellagra e che nelle sue farneticazioni, provocate dalla malattia, si illude che, immolandosi come Gesù Cristo, salverà il mondo. Non riuscirà a perire sulla croce, ma se ne andrà in silenzio, rifiutando il cibo, nel manicomio di Venezia, diventando uno dei primi casi clinici della psichiatria moderna.
Ci si domanda, e il quesito se lo pone anche l’autore, se Mattio Lovat abbia raggiunto il suo scopo. Si potrebbe rispondere che fose sì e forse no, e cioè che la caduta di Napoleone, visto dai cattolici intransigenti come l’Anticristo, avvenne pochi anni dopo la scomparsa dell’aspirante salvatore dell’umanità. Forse è una coincidenza, o forse esistono forze a noi sconosciute con le quali anche un uomo, che di certo non avrebbe potuto, per la sua posizione, cambiare lo stato delle cose, può la dove sembrerebbe impossibile.
Comunque, questa verifica di riscontri fra finalità e accadimenti non costituisce l’argomento di questo stupendo romanzo, ma, e lo ripeto, come in tutte le opere di Vassalli, è il far emergere dal buio dell’oblio chi, inconsapevole, ha lasciato un segno nel percorso storico.
Queste valli zoldane, povere, vessate prima dalla Serenissima, poi dalle truppe napoleoniche, e infine dagli imperiali austriaci, erano popolate da una torma di affamati, spesso pellagrosi, visto che l’unico alimento era la polenta. Si ribellarono, marciarono su Belluno, covo degli inetti nobili opressori, strapparono promesse di abolizione di tasse, ritornarono alle loro miserevoli dimore, scornati e delusi. Eppure, almeno con la rivoluzione francese e il Napoleone invasore erano sorte speranze, che si rivelarono illusioni, e in una serie di sconvolgimenti finì per ritornare tutto come prima, in una società classista che esigeva la poresenza dei poveri per consentire ai ricchi di perpetuare la loro esistenza di ladrocini.
Come sempre la ricerca storica di Vassalli è esemplare e non si basa solo sul fatto, ma spesso sui particolari, come usanze, modi di vestire, perfino proverbi in voga all’epoca, che abbraccia un arco di tempo che da dalla seconda metà del XVIII secolo al primo decennio del successivo (del resto Mattio Lovat nacque il 12 settembre 1761 e morì l’8 aprile 1806).
Con una scrittura apparentemente semplice Vassalli ci conduce per mano nella vita di quegli anni, che scorre davanti a noi come la proiezione di una pellicola cinematografica; la resa dell’ambiente è perfetta e l’atmosfera addirittura palpabile, in una trama talmente avvicente che tiene incollato il lettore al libro, desideroso di sapere come andrà a finire, una partecipazione che non viene mai meno anche quando il narratore si lascia andare a qualche riflessione, come una voce fuori campo che si pone e pone delle domande; altre volte invece c’una pausa di constatazione, per esprimere un punto di vista, quasi un tentativo di dialogo con il lettore e con l’effetto di far riposare un po’ dalla tensione della trama, un prender fiato che prelude poi a grosse novità.
Fino ad adesso ho parlato di Mattio, ma il titolo è Marco e Mattio.
Chi è Marco? E’ il Don Marco tedesco che sta in convalescenza nella parrocchia di Mattio e che gli insegna a conoscere le bellezze della volta celeste, oppure è l’avvocato Marco Sturz tenutario di una casa da gioco in Venezia e anche legale, patrocinatore, in apparenza, delle giuste richieste degli zoldani?
Marco è una leggenda, è l’immortale, già conosciuto nei tempi con i nomi di Assuero, Cartafilo, e altri ancora, insomma il Diavolo. Compare poco nel romanzo, ma ha una funzione determinante, perché si contrappone al pazzo Mattio, come il male si contrappone al bene; però è anche colui che insegna che la realtà umana è troppo ristretta e con una vita che può nauseare il miglior rimedio è conoscere una realtà al di fuori degli uomini, che può essere un cielo stellato, una natura maestosa e brulicante, in cui perdersi con il pensiero, in cui elevarsi dalla mediocrità, tuttavia attoniti per la grandezza smisurata dell’universo.
E’ il sogno del razionale che cerca risposte sapendo di non poterle trovare, mentre in Mattio la risposta, unica, inossidabile, è solo la fede.
Marco e Mattio è un romanzo di una bellezza straordinaria, un altro capolavoro di Sebastiano Vassalli.


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