Ferrovie del Messico
Letteratura italiana
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POSTMODERNISMO ALL'ITALIANA
“Essere lirici e ironici è la sola cosa che ci protegge dalla disperazione assoluta.“
Contravvenendo alle mie abitudini, ci tengo ad affermare subito, all’inizio di questa recensione, che “Ferrovie del Messico” è il più bel romanzo italiano degli ultimi anni, se non addirittura degli ultimi decenni, dal tempo cioè dei meravigliosi romanzi storici di Andrea Camilleri. E’ sorprendente che a scriverlo sia stato Gian Marco Griffi, un quasi esordiente (alcuni suoi racconti e un romanzo sono passati negli anni scorsi del tutto inosservati), il quale di mestiere non fa neppure lo scrittore, bensì – a quanto si legge nelle note della sua casa editrice – il direttore di un golf club, e non ha neanche una pagina dedicata su Wikipedia, che al giorno d’oggi non si nega quasi a nessuno. Eppure “Ferrovie del Messico” è un’opera molto ambiziosa, di grande respiro narrativo, strutturalmente molto elaborata (con continue prolessi e analessi), al cui interno vi sono una miriade di storie e di personaggi i quali, proliferando in maniera esponenziale, ne fanno un libro potenzialmente infinito, al punto che le sue oltre ottocento pagine sembrano quasi poche per contenere tutto quanto. E’ un romanzo che pare quasi strano sia stato scritto in Italia (dove gli scrittori raramente tendono ad allontanarsi dal proprio confortevole ombelico, individuale o familiare, oppure dall’attualità e dalle “storie vere”), tanta è l’immaginazione che vi è profusa, tanti sono i registri narrativi che vi sono dispiegati, tanto è persino il coraggio – mi verrebbe da dire salgariano – di ambientare parte della storia in un paese che non si è mai conosciuto prima. Se poi un autore si misura anche attraverso i numi tutelari da lui scelti come fonte di ispirazione, Griffi dimostra di saper puntare altissimo. In questa storia ambientata principalmente nella provincia astigiana negli anni della Repubblica di Salò e della Resistenza, chiunque si immaginerebbe di trovare echi di Pavese o di Fenoglio, e invece sono ben altri gli autori da prendere come punti di riferimento. Per esempio, lo strano, apparentemente inspiegabile ordine ricevuto dal protagonista Cesco Magetti, un anonimo soldato della Guardia nazionale repubblicana ferroviaria di Asti, di compilare per lo Stato Maggiore tedesco una mappa delle ferrovie del Messico, e la sua successiva, affannosa ricerca di un libro che potrebbe aiutarlo in questo compito, ma che dalla biblioteca municipale passa di mano in mano, sfuggendogli sempre quando sembra ormai essere alla sua portata, è un McGuffin che a me ricorda tantissimo l’enigma del Tristero al centro de “L’incanto del lotto 49” di Thomas Pynchon: in entrambi i casi è un mero stratagemma per portare avanti una storia bizzarra ed eclettica, ricca di svolte narrative originali e imprevedibili, il quale appassiona sì il lettore ma si rivela alla fine niente di più di una falsa pista, che l’autore non esita alla fine ad abbandonare al suo destino. E’ significativo che la nobildonna che nei primi capitoli regala il libro a Bardolf Graf porti lo stesso nome, Thurn und Taxis, della compagnia che ha detenuto per secoli il monopolio del servizio postale europeo e che è al centro del plot principale dell’opera seconda di Pynchon. Ma c’è di più: gli addetti alla fabbrica di colori nella valle dell’Elba, nella quale si producono colori capaci di stimolare le azioni degli uomini o provocare effetti sulle cose (“abbiamo colori in grado di accecare, altri in grado di avvelenare il bestiame, un altro addirittura in grado di bloccare istantaneamente tutti gli apparecchi elettrici nel raggio di 8 chilometri”), sono un po’ come gli Herero delle SS che, ne “L’arcobaleno della gravità”, Hitler ha portato dalla Namibia in Germania per essere messi a guardia del mitico razzo 00000, ossia presenze incongrue di una guerra che nasconde dietro le quinte armi misteriose, inquietanti e tutt’altro che convenzionali (come l’”arma risolutiva” che i nazisti credono sia nascosta nel leggendario paese messicano di Santa Brigida de la Cienaga).
Se queste sono semplici suggestioni, allusioni per iniziati, in “Ferrovie del Messico” si trovano anche vere e proprie citazioni dirette. La labirintica Torre Ottagonale nel palazzo della Orpo, la polizia d’ordine nazista, con il suo numero indefinito, e forse infinito, di piani ottagonali, è un chiaro omaggio alla Biblioteca di Babele di Jorge Luis Borges, il cui racconto “Il giardino dei sentieri che si biforcano” offre anche ai due becchini Lito e Mec l’idea per far bombardare dagli aerei alleati l’inquietante cimitero di San Rocco. Un altro autore esplicitamente omaggiato da Griffi è Roberto Bolano. Come non pensare a lui nelle pagine ambientate in Messico, o in quelle, irresistibili, sui poeti frenatori avanguardisti, dove addirittura è nominato, come amico di Edmondo Bo, Arturo Belano, il co-protagonista de “I detective selvaggi”? Tutti questi nomi, Pynchon, Borges e Bolano, fanno venire in mente, ovviamente, il postmodernismo, e Gian Marco Griffi ben potrebbe essere annoverato in questa corrente, dal momento che nel suo libro sono presenti molti dei capisaldi del movimento: il pastiche stilistico, la ineliminabile frammentazione della realtà, l’entropia, il grottesco contrapposto al caos esistenziale. Nella beffarda concatenazione di eventi che dal quartiere della Orpo a Berlino conduce fino al Comando della Guardia nazionale ferroviaria di Asti riecheggia addirittura la celebre teoria della farfalla, la quale battendo le ali in Brasile finisce per scatenare un uragano in Texas: “una guerra scoppia affinché un soldato soffra il mal di denti, un impiegato di Berlino riceve un libro in dono e la vita di un soldato ad Asti è stravolta. C’è del bello, in tutto ciò, c’è l’ironia della sorte, il comico, il grottesco, il crudele”. Del grottesco Griffi fa magistralmente uso in molte parti del romanzo, come nel capitolo in cui protagonista è nientemeno che il Fuhrer, il quale si trova ad affrontare il disagio di essersi presentato al Festival Wagner di Bayreuth in marsina, quando tutti gli altri invitati, nessuno escluso, sono in alta uniforme, e addirittura di essere costretto a tagliarsi gli amati baffi come penitenza per aver perso con Eva Braun una scommessa vertente sul divieto di pronunciare vocaboli inglesi. Lo spirito del romanzo di Griffi è chiaramente antimilitarista, ma anziché l’invettiva egli preferisce la satira, come nella scena ambientata nel campo da golf, dove le SS si trovano a discutere su come considerare ai fini del regolamento del gioco il corpo del militare morto su cui accidentalmente è andata a posarsi la pallina, come se questi fosse un sasso o una pianta e non il cadavere di un essere umano. Lo stesso Cesco è un antieroe goffo e pusillanime, che si aggira nella storia “spaesato come un procione su Marte”, “con la sensazione di non essere all’altezza di niente”, e questa sua condizione, accompagnata da un infernale mal di denti che lo perseguita per quasi tutto il romanzo, dà vita a sequenze di irresistibile comicità.
Nonostante quanto detto sopra (e altro ancora si potrebbe aggiungere, in merito ad esempio all’enciclopedismo tipicamente postmodernista che caratterizza il libro) non bisogna pensare a “Ferrovie del Messico” come a un libro derivativo, pieno solo di citazioni e di suggestioni prese in prestito da altri autori. Al contrario, il romanzo si rivela estremamente originale e innovativo sotto molteplici aspetti, a partire dallo stile. Griffi adopera ad esempio un lessico che fa un abbondante uso di termini dialettali, i quali, una volta italianizzati, formano una sorta di corrispettivo piemontese di quella che è la celebre “lingua mescidata” di Camilleri: si possono così trovare verbi come “sbarivare”, “sbiluciare”, “spulezzare”, “patatoccare”, aggettivi come “sfilosomiato”, “sagrinato”, “besuito”, o sostantivi come “inguacchio” e “ciadello”, tanto per citarne alcuni. L’effetto è sorprendente, una boccata d’aria fresca in una letteratura che spesso soffre all’opposto di una sconfortante povertà lessicale, tanto è appiattita sulla realtà e sui modi di comunicare tipici dei social media. Griffi al contrario è in grado di liberarsi di tutte le limitazioni e le pastoie linguistiche, e addirittura in alcuni capitoli arriva ad inventare una sorta di nuova lingua, lo “zerga”, che mi ha ricordato il “nadsat” parlato dai drughi di “Arancia meccanica” di Anthony Burgess (ecco un esempio: “Avevo le prospere calate, e la prima Maria si era inginocchiata sui devoti con la felippa alzata per farmi un lavoretto con la dannosa […] Crolli il cosco di sant’Alto […], non appena ho sentito quella serpentina sul rubicondo mi sono accorto che c’era qualcosa che non andava, perché era dura e secca e gelata come il carnifico della bianchina”). Griffi inoltre fa un uso sapiente del simbolismo, come nel caso del mal di denti di Cesco, che scompare definitivamente nel momento in cui egli, superando la sua vigliaccheria, uccide a colpi di vanga un sadico ufficiale nazista, e che quindi diventa una sorta di epitome del rapporto della nazione con il fascismo, il quale non a caso viene definito a un certo punto come la “carie ideologica che aveva scavato una fenditura nel cemento dell’Italia”. C’è inoltre, a suggellare l’originale proposta artistica dello scrittore piemontese, quella che, con le parole di Tilde, uno degli indimenticabili personaggi del romanzo, bibliotecaria bellissima e un po’ stramba, si può definire l’”epica del trascurabile”: la vita è fatta, come le fotografie di Tilde, di attimi effimeri e irrisori, e lo scrittore deve portare alla luce le emozioni celate in questi istanti, “frammenti di verità portate a riva, come quei rametti che la risacca del mare abbandona sulla battigia”. Mi sovvengono le parole di un autore affine per sensibilità a Griffi, cioè Georgi Gospodinov, laddove sostiene che “bisogna conservare solo ciò che è mortale, effimero, piagnucoloso e che accende fiammiferi nel buio […], specialmente quello che non sta in primo piano, non dura, scompare”. E come il narratore di “Fisica della malinconia”, che raccoglie oggetti di varia natura in grado di conservare il passato, così Cesco appronta una capsula del tempo destinata a coloro che in un lontano futuro dovessero entrarne in possesso. Lo stesso romanzo di Griffi è una sorta di capsula del tempo, un’arca di Noé con cui egli si propone di traghettare la sua moltitudine di personaggi attraverso la Storia, consapevole che “ci sono storie che partono da lontano”. In questo campionario trovano posto personaggi che, se da una parte hanno la bizzarra eccentricità, la poetica stravaganza delle figurine di Baricco, dall’altra riescono ad assurgere alla dimensione dei caratteri più memorabili della letteratura contemporanea, come Lito Zanon, becchino logorroico e giramondo, che vorrebbe metter fine alla propria vita, convinto che il mondo fa schifo, ma “per ammazzarsi bisogna amarsi… e non mi amo tanto da decidere di farmi fuori”, Epa, cartografo samoano che “sogna di rappresentare la vita e le relazioni umane in una mappa”, Bardolf Graf, candido panteista innamorato della vita, Gustavo Baz, che racconta ai bambini messicani le storie “fantastiche e pittoresche, poetiche e immaginifiche” raccolte nel corso dei suoi viaggi in treno, mentre perlustra la nazione in cerca di suo padre, Steno, che nuota fino in Islanda per trovare il “pesce della follia” in grado di guarire la fidanzata immobilizzata in un letto, e tanti altri ancora, colti bibliofili, dentisti col vizio della delazione, appassionati di enigmistica, guaritrici sarde, che spesso appaiono in un capitolo e vengono svelati appieno in quello successivo. Questi personaggi, che sembrano propagarsi e moltiplicarsi al punto che ognuno di loro potrebbe dar vita a uno spin-off della storia principale, fanno sì che “Ferrovie del Messico” sia volta a volta un romanzo di avventura, una storia d’amore, un racconto di formazione, e tante altre cose ancora (vale la pena ricordare il coté meta letterario, laddove si ipotizza che “a ordinare una mappa delle ferrovie del Messico non è stato il fato. Forse si tratta semplicemente del disegno di qualcuno di raccontare una storia”, e quello surreale, come nei capitoli della catabasi di Cesco nei bagni pubblici di Asti o della caduta di Cesco e Nicolao nel “nulla”, quando si recano a visitare la “curandera”, entrambi forse memori della lezione di Alasdair Gray). Tutti i caratteri sopracitati si condensano nella figura di Cesco Magetti, il quale rappresenta l’uomo comune, capace di grandi egoismi e di grandi viltà ma anche, quando occorre, di grandi gesti d’amore e di grandi atti di eroismo. E’ qui forse che si rivela la singolarità di Griffi, il quale per il suo (quasi) capolavoro postmodernista ha scelto un antieroe che non è tanto un novello Benny Profane o un novello Lanark, bensì un carattere in cui si riassumono vizi, difetti e virtù dell’italiano medio (un po’ come l’Alberto Sordi di film come “Tutti a casa” e “Una vita difficile”), in un periodo storico confuso e ingarbugliatissimo dove “ci son giovani che fanno la resistenza e altri che fanno gli attori, ci son quelli che fanno la borsa nera e quelli che fanno i soldati perché altro da fare non c’è”, e la differenza alla fine la possono fare solo l’amore per una donna o magari la poesia oppure ancora la meraviglia “per i prati azzurri nell’obliqua luce lunare, per la lanugine dei cardi e per i morbidi interstizi tra i mattoni su cui spuntano i capperi”, quando la cosa giusta da fare per riuscire a sconfiggere “l’indifferenza, l’insensibilità, il distacco, la noncuranza” del mondo diventa improvvisamente chiaro, per la prima volta, come una necessità, come un destino.
Indicazioni utili
Jorge Luis Borges: "Finzioni"
Roberto Bolano: "I detective selvaggi"

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Affascinante!
Un gioiellino questo romanzo di Gian Marco Griffi candidato al premio Strega per la sua grazia, la leggerezza, la sottile ironia che lo pervade insieme a momenti di puro lirismo.
Non si tratta di un romanzo “facile”, arriva da una piccola casa editrice e difficilmente lo si troverà promosso sui mezzi di comunicazione più popolari sui libri. Merita però sicuramente di essere avvicinato dal lettore più appassionato e che cerca sempre qualcosa che lo porti fuori dalla consuetudine, anche nel narrare storie. E proprio qui il vero lettore trova pane per i suoi denti. Niente facile retorica, nessuna storia strappalacrime, nessun bisogno di trovare stranezze per affascinare.
Ferrovie del Messico è il classico romanzo corale che potrebbe essere senza fine tale è la capacità narrativa dell’autore. La vicenda è di estrema semplicità. La storia si svolge ad Asti e vede il milite della Guardia nazionale Repubblicana ferroviaria Cesco Magetti, tormentato dal mal di denti che mai risolverà per la sua paura del dentista, che riceve l’assurdo ordine di preparare in una settimana una mappa dettagliata delle ferrovie del Messico. Ovviamente il protagonista non sa da dove cominciare. Inizia quindi la sua ricerca, con capitoli che talvolta tornano indietro nel tempo con lunghi flashback per approfondire le storie di alcuni personaggi che il protagonista incontra nel corso del suo difficilissimo tentativo di trovare un libro che dovrebbe aiutarlo nella compilazione della mappa. Lo troverà? Gli servirà? Riuscirà nell’intento? Questo lo lascio al lettore. Anche se in fondo non è in questo il vero scopo e il senso del libro.
La galleria di personaggi incontrati è infatti il cuore del libro. Ciascuno con la sua particolarissima storia viene narrato dalla penna agile e leggera dell’autore che ce li rende umani e vitali regalandoci quando un momento di comicità ed un sorriso, quando pagine di vera commozione. E ne nasce la perfezione di un romanzo narrato da tutti coloro che il protagonista incontra.
Altro punto di forza è l’infinita capacità narrativa dell’autore. Il romanzo infatti termina quando l’autore decide di farlo finire, ma potrebbe ancora proseguire, le storie si avvicendano e legano perfettamente una all’altra. E in fondo in fondo al lettore dispiace lasciare una storia in grado di stupirlo e portarlo con sè in mondi e storie che trascinano nel loro divenire.
Consigliato? Senz’altro, a veri lettori. Felice della sua candidatura allo Strega. Completamente meritata.