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Un infinito numero
 
Un infinito numero 2012-02-21 18:11:21 LauraZ
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4.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
5.0
LauraZ Opinione inserita da LauraZ    21 Febbraio, 2012
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Virgilio nella terra dei Rasna:un capolavoro di st


Un romanzo che appassiona e stupisce, un’opera in cui
realtà e immaginazione si intrecciano con armonia.
Ecco “Un infinto numero”,
il capolavoro di Sebastiano Vassalli.
Ora la sua particolare macchina
del tempo va oltre il
periodo napoleonico di
“Marco e Mattio”, supera
gli anni dell’Inquisizione evocati da “ La Chimera” e ci riporta nel vivo della Roma Augustea.
A guidarci, è Timodemo,
ex schiavo di origine greca, divenuto il segretario personale del più grande
fra tutti i poeti latini: Virgilio. È questo il prediletto del princeps, colui che dovrà creare il grande mito di Roma: la città potrà presentarsi ai suoi sudditi con un’immagine di grandezza oltre che di forza,
le sue origini e quelle di
Augusto verranno esaltate.
La Fama è già pronta a prendere il volo, per superare il confine dell’impero e
raggiungere il limite delle terre
emerse.
Ma come poter scrivere un poema sulla nascita di Roma, date le poche conoscenze sulla sua fondazione?
Secondo Mecenate, il fido collaboratore di Augusto, re etrusco di Arezzo in esilio, “tutto ciò che era sorto in un lontano passato, sulle rive del Tevere, era sorto per opera dei Rasna, cioè degli Etruschi ”.
Un’affermazione che lascia perplesso Virgilio: non è possibile che un popolo senza una letteratura, appunto i Rasna, abbia dato vita ad una delle più grandi
civiltà di tutti i tempi.
Che storia può aver avuto chi non ha sentito il bisogno di raccontarla ai suoi posteri?
“C ’è un mistero nel passato dei Rasna, ed è proprio su questo che si basa la grandezza di Roma” .
Alla ricerca della documentazione per scrivere il “grande mito”, il poeta intraprende un viaggio nella terra degli Etruschi. Lo accompagnano lo stesso Mecenate, che in questo modo potrà riprendere possesso dei beni ora in mano ad amministratori disonesti, una scorta di soldati guidati dal centurione Cuoricino, le belle Ninfa e Tecmessa, Timodemo. La meta è Sacni, la città santuario: si trova qui il saggio sacerdote di Velthune, dio etrusco della vita e della metamorfosi, l’unico che conserva nella sua memoria ciò che i Rasna non hanno scritto, l’unico che può rivelare a Virgilio le vere origini di Roma.
Lungo l’accidentata via Cassia, trascorrendo le notti in locande malsicure, sfuggendo agli agguati dei banditi di strada, la compagnia entra in contatto con una civiltà ormai in decadenza, avvolta nel mistero e nel silenzio.
Il mercante che Virgilio conosce a Surina è l’ultimo orafo etrusco: dopo di lui, non si avranno più gioielli così raffinati.
Volsinii era un tempo il cuore palpitante dell’Etruria: ora, in questa città, i discendenti dei Rasna lavorano come schiavi nelle miniere e nei campi appartenuti ai loro antenati.
Pochissimi sono gli Etruschi che, favoriti dagli dei, hanno conservato potere e ricchezze. Tra questi, il cugino di Mecenate, il quale, nella sua dimora a Chiusi, può vantare di splendidi esemplari di leopardi e leoni. Nessuno, però, può sentire i loro feroci ruggiti: dipinte sulle pareti, queste belve sono ormai un ricordo dell’antica grandezza dei Rasna.
Nel muro di Northia, a Sacni, c’è spazio solo per un ultimo chiodo sacro, simbolo di un nuovo anno di vita del popolo etrusco: dopo settecento e più primavere, dopo settecento e più chiodi affissi alla parete, l’epoca dei Rasna si può dire conclusa.
In una notte di visioni e incubi, una notte che, nel tempio di Mantus, dura diecimila anni, in un ciclo di morte e di rinascita, il passato degli Etruschi si rivela a Virgilio.
Vassalli evoca magistralmente voci di oltre un millennio prima, voci che i Rasna non hanno voluto scrivere: sono quelle dei Lidi, sbarcati con Eneas sulle coste laziali, quelle degli indigeni massacrati, quella della vergine guerriera Camilla…
“Hai detto bene, la scrittura ci fa orrore, così come ci fa orrore la morte: non lo sai? Tu che di mestiere fai lo scrivano, non hai mai pensato a questo genere di cose? Gli animali non possono morire: solo i loro nomi muoiono. Chi non ha un nome, e non può scrivere il suo nome, non muore in eterno”.
Due grandi civiltà a confronto, i Rasna e i Romani, tanto unite, tanto diverse: per Virgilio la scrittura rappresenta l’unico strumento per l’immortalità, l’unico mezzo per sopravvivere dopo la morte.
Nell’Eneide, egli non racconta la vera storia di Roma, non descrive i massacri e gli eccidi dello sterminatore Eneas : le reali origini della città devono rimanere nascoste. Infatti, “il vero Eneas era impresentabile. La realtà è sempre impresentabile; e l’arte esiste anche per questo scopo specifico, di renderla migliore e degna di essere raccontata. (…) La poesia deve mostrarci la parte migliore dei nostri sentimenti, così come la pittura e la scultura mostrano l’armonia dei nostri corpi…”
Tuttavia, nemmeno l’Enea forte, saggio, paziente, generoso, rispettoso di tutte le leggi e di tutte le divinità, il pius Enea, soddisfa Virgilio. Nonostante le sollecitazioni imperiose e persino stizzite di Augusto, il poeta ha ormai preso una decisione: l’Eneide dovrà essere distrutta…
Sono, quindi, la scrittura, la poesia e soprattutto il tempo, personificato nella dea etrusca Northia, a costituire il filo conduttore dell’opera di Vassalli.
“Siamo noi a far esistere il tempo. Il futuro, il passato: ma in fondo è tutto un gran girare intorno al presente. In questo senso i miei romanzi hanno poco o nulla del romanzo storico ottocentesco. Semmai, esprimono il convincimento che per rendere il presente convenga esplorare il passato. In fondo il presente non è molto dissimile dal passato, con la sola differenza che il presente si racconta da sé…”
E poi si ritrova quel mostro, la Fama, l’ultima arrivata tra le dee dell’Olimpo, quell’essere invincibile e instancabile che nell’Antica Roma teneva sotto il suo potere Augusto e che esiste ancora oggi: “le più spudorate verità e le più spudorate menzogne venendo da lei diventano ugualmente credibili, e credute…”
La vicenda di “Un infinito numero”, narrata con uno stile sobrio e vivace, diventa quindi metafora del presente, spunto di riflessione sulla realtà contemporanea.
Il lessico semplice, ricco di espressioni tipiche del parlato, e la focalizzazione interna contribuiscono sicuramente a diminuire la distanza tra il lettore e i personaggi.
Efficace è la finzione letteraria con cui prende avvio la narrazione: nel giardino di casa di Sebastiano Vassalli, la stessa ex canonica nella bassa Novarese acquistata dallo scrittore, passeggiano i personaggi dei suoi romanzi; tra questi c’è anche Timodemo che, con al polso il bracciale dell’urobòros, il serpente che si morde la coda, inizia a raccontare una storia di tempi lontani…
Un romanzo, quindi, ricco e complesso, metaforico ed etico, che non delude il lettore: lo stesso Virgilio che incontriamo nei libri di scuola diventa il protagonista di una vicenda che suscita stupore ed interesse.
Ad ogni pagina, il nostro bagaglio culturale si arricchisce con informazioni e curiosi particolari che altrove non possiamo trovare. Scopriamo, quindi, le mentalità, le tradizioni e le abitudini di vita che differenziano due popoli con radici comuni, capiamo il difficile rapporto tra Virgilio e la sua opera, che egli raccomandò di distruggere, la sua concezione dell’arte e della poesia come rappresentazione dei valori positivi degli uomini.
L’Eneide viene riscoperta e valorizzata e diventa simbolo di una civiltà, quella di Roma, che da sempre affascina tutti noi.
Alla fine del racconto, Timodemo si sente chiedere dall’autore: «Cosa verrà dopo il futuro, tu, forse, lo sai? » “La sua risata ha turbato il silenzio del giardino, e ha fatto trasalire gli altri personaggi che si sono voltati a guardarci. «Tornerà il passato, cos’altro vuoi che succeda? Velthune cancellerà le cose del mondo e i loro nomi.(…)
Allora tutto ricomincerà dall’inizio »”.



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