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Michelangelo. La grande ombra
 
Michelangelo. La grande ombra 2008-12-17 13:21:37 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    17 Dicembre, 2008
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Tormento ed estasi

Leggere un libro di Filippo Tuena è sempre un’esperienza del tutto particolare, perché si può star certi, ogni volta, di trovarsi di fronte a una spiccata originalità, sia come struttura che come stile, entrambi mai ripetitivi.

La sua espressione artistica, infatti, non è mai rivolta a soddisfare il gusto di un pubblico assuefatto a modi di scrivere tradizionali, ma è il frutto di una ricerca che se nelle prima pagine può disorientare finisce poi con lo stupire, il meravigliare, perché non c’è nulla come la novità che possa veramente colpire il lettore attento.

Inoltre ci si accorgerà che successive riletture faranno scoprire nuovi motivi di riflessione, mantenendo inalterato il gradimento dell’opera.

Tuena, per parlarci di un Michelangelo al termine della sua vita, avrebbe potuto scrivere un romanzo tipicamente storico, magari avvincente, e invece ha saputo costruire una narrazione che travalica i limiti propri di quel genere, offrendoci non solo un affresco di pregevole fattura, ma un’approfondita disamina dei rapporti fra arte e potere e tra disfacimento senile e decadenza di un periodo storico di grande rilievo quale fu il Rinascimento.

Con queste finalità imbastisce un tessuto letterario che prende spunto da una domanda: perché l’ormai anziano, quasi inabile Michelangelo rifiutò i pressanti inviti di Cosimo de’ Medici a rientrare a Firenze? Che cosa determinò in lui la ferma decisione di non fare ritorno in patria e di morire così a Roma?

Si tratta di un quesito senza apparente risposta, tanto che si potrebbe pensare alle bizze di un vecchio, oppure addirittura a un pretesto dell’autore per imbastire il solito romanzo storico, e invece ci troviamo fra le mani un’opera dai mille risvolti, da finalità che a primo colpo non si scorgono, ma che nel loro insieme danno corpo e sostanza a un lavoro di straordinaria qualità.

Filippo Tuena infatti rivela ancora una volta la capacità di stupire, di essere artista alla ricerca dell’originalità dei propri lavori, tanto che non si smentisce con questo Michelangelo La grande ombra, già uscito otto anni fa sempre per i tipi di Fazi e ora in un’edizione rinnovata non solo nella veste, ma anche con modifiche e implementazioni.

L’autore si pone la domanda e cerca la risposta avviando un’indagine che vede protagonisti, di volta in volta, chi conobbe Michelangelo negli ultimi anni della sua vita, nomi talora famosi, come lo stesso Cosimo de’ Medici o Giorgio Vasari, tanto per citarne due, e altri meno noti, ma non per questo meno importanti per giungere al risultato principale, nonché per affrontare altri argomenti di interesse più generale.

Come le pietruzze, sapientemente accostate l’una all’altra, vanno a formare un mosaico, le testimonianze sono singole voci di un coro e con le loro specificità danno vita a un ritratto incredibilmente palpitante del grande pittore e scultore fiorentino.

Un uomo, esso, affetto da profonda solitudine, propria solo dei grandi geni che si sentono lontani dalla quotidianità degli altri uomini, impossibilitati a condurre un’esistenza normale; è una solitudine che al contempo esalta la sua arte, ma che anche lo isola, gli fa avvertire fortemente come la creatività sia concepibile solo con la massima astrazione e l’altrettanto massima libertà.

Michelangelo non torna a Firenze perché Cosimo de’ Medici rappresenta il potere, il principe che pretende la proprietà intellettuale di quell’opera d’arte che l’artefice invece sente solo sua.

Ma dal coro di voci, costituite da uomini con inevitabili pregi e difetti, quali l’invidia, il malanimo, emerge anche un altro elemento che, oltre a connotare la fase di declino del Rinascimento, proietta la specie umana ai nostri giorni, con gli stessi vizi e le stesse virtù, comuni dei mortali e che nulla contribuiscono all’accrescimento di valori della specie stessa.

Tuena non disprezza questi personaggi, anzi conferisce loro una propria dignità, facendoli anche portavoce di riflessioni su cui il lettore è indotto a soffermarsi, perché risultano tipiche dell’esistenza e quindi sempre di attualità. Al riguardo trascrivo alcune righe della testimonianza del poeta Giovan Battista Strozzi, righe che danno la misura di ciò che l’uomo pensa e sente quando avverte il declino della vita “ Mi si viene a dire che Michelagniolo ha compiuto una scelta simile. O, non parlo di palazzi affrescati, di broccati, di arazzi. Del lusso, in una parola. Ma parlo del buio di una stanza, del rinchiudersi in se stesso, del cercare in sé la verità che fuori ci appare artefatta. Mai più grandi sepolture per le morti altrui; mai più affreschi per altri edifici. Tutto per sé è quello che produceva.”

E’ tutto un susseguirsi di opinioni, e anche di supposte verità, di autoreferenzialità, ma pure di profonda convinzione dei propri limiti; sono personaggi che riemergono dalle tenebre, si agitano, ricorrono a un linguaggio che l’autore di fatto ha inventato (una sorta di gradevole commistione tra rinascimento e moderno), operano freneticamente come tante formiche all’ombra del genio, ammiratrici, ma anche invidiose, perché incapaci di comprendere che cosa ci sia realmente al fondo della creazione di quei capolavori. Quei monumenti, quegli edifici, quelle statue che non finiscono di sorprendere sono al tempo stesso l’estasi e il tormento di un autore la cui genialità è tale da rendergli impossibile la convivenza con i comuni mortali.

Da questo libro, quindi, emerge non solo l’eterno contrasto fra potere e libertà artistica, ma scaturisce anche un ritratto veritiero, spesso impietoso, della condizione umana, di una specie dotata del bene dell’intelletto, eppure così fragile, così immatura da non riuscire a comprendere nemmeno se stessa.

Ci si chiederà comunque perché il titolo sia Michelangelo La grande ombra. Che cos’è quest’ombra? E’ quella in cui agiscono gli artisti dell’epoca inferiori al genio che brilla di luce propria, o è qualche cosa d’altro?

Se consideriamo già le pagini iniziali, con un Cosimo de’ Medici emiplegico, con un filo di bava che gli scende da un angolo della bocca, quasi un cadavere vivente, ma conscio del suo stato, e se poi leggendo percepiamo nelle risposte degli altri intervistati il timore, sempre latente ma che riemerge nell’occasione, della naturale conclusione della vita umana, a cui non pochi sono prossimi, o addirittura vi sono già giunti, emerge prepotente l’atmosfera dell’ombra della morte che aleggia su tutto, a riprova che la caducità è propria di tutti uomini, geni o sconosciuti che siano.

In questo quadro di dolorosa, ma naturale angosciante incertezza per il dopo, si viene così a delineare anche la decadenza di un periodo storico così importante per le arti quale fu il Rinascimento. Del resto i frutti, ormai marcescenti, del Concilio di Trento arriveranno non solo a condizionare la vita degli uomini, ma anche a creare un’epoca di illiberalità, una sorta di reazione metodica e oppressiva, di cui anche Michelangelo, ormai defunto, fu vittima, visto che si decise, con una stoltezza che si commenta sé, di metter le braghe alle figure ignude del Giudizio Universale.

Nella lotta fra libertà creativa e potere temporale quest’ultimo riprese il sopravvento, ma, per sua fortuna, Michelangelo già non c’era più.

Indicazioni utili

Lettura consigliata
Consigliato a chi ha letto...
Le variazioni Reinach, di Filippo Tuena;<br />
Ultimo parallelo, di Filippo Tuena.
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