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L'invisibile ovunque
 
L'invisibile ovunque 2017-01-28 16:16:49 Mane
Voto medio 
 
3.5
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
3.0
Mane Opinione inserita da Mane    28 Gennaio, 2017
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Il trionfo di Thanatos

“L’invisibile ovunque” trae il titolo da una citazione di Yvan Goll, inserita alla stregua di un tributo all’apertura delle prime pagine del libro:

“La guerra era l’invisibile ovunque, il suo battito gonfiava
le vene degli uomini, suonava con le campane dei villaggi,
tuonava la notte durante la tempesta. La guerra erano i
giorni del calendario. Era la cifra del secolo. Era il lamento
dei poveri, la rabbia dei deboli. Era la fame. Era la morte.”

Quella di Goll, oltre ad essere, per quanto concisa, una ottima prefazione alla lettura, non è l’unico richiamo ad altri scritti ed autori, in un libro che in questo senso pullula di riferimenti, elemento d'altra parte non nuovo al collettivo Wu Ming, data la propensione alla coscienziosa ricerca di fonti bibliografiche per la realizzazione dei propri lavori.

Ciò che è nuovo rispetto ai più celebri romanzi storici del suddetto collettivo è l’architettura del testo, fatta non di una trama unica quanto piuttosto di frammenti (quattro per la precisione) di una realtà assai complessa quale fu la Grande Guerra.
Quattro frammenti per restituire un’immagine del caleidoscopico tutto.
Quattro schegge di shrapnel lanciate a sondare e illuminare quel silenzioso invisibile ovunque, sotteso alla classica narrazione dei grandi eventi della Prima Guerra Mondiale, di cui son carichi diari di guerra e libri scolastici.

Il nesso invisibile che tiene uniti i frammenti è il tema della morte, il trionfo di Thanatos, l’impulso distruttivo che tutto muove e che distrugge, annienta, demolisce.

Fin dall’inizio, ma specialmente dentro al terzo atto, si capisce che, più dei fatti raccontati, sono le immagini evocate dalle audaci analogie prodotte da Wu Ming ad essere latrici della violenza, della follia, della disperazione, dell’alienazione, della fragilità umana, della brama di riscatto da vite grame, cullate nell’alveo del conflitto.

Allo stesso modo, come proiettati nel caos di un quadro futurista, si è preda della complessità dall’intreccio, fatta di anticipazioni, flash-back, parallelismi ed ellissi narrative (con l’andamento di un climax culminante ancora una volta tra le pagine del terzo atto), investita del compito di trasmettere lo smarrimento e l’incertezza dell’epoca in analisi.

Emilio Lussu, con le pagine di “Un Anno sull’Altipiano”, supremo esempio della letteratura anti-militaristica a livello mondiale, diede voce al suo disprezzo per la guerra facendolo trapelare con maestria dai fatti vissuti in prima linea ed esposti in una narrazione nitida e concreta.
Wu Ming invece, benché non risparmi lo spregio per le armi, lo celebra tra le righe con una scrittura evocativa, risuonante e ricercata: così il verde delle divise è detto “marcio”, “le falene notturne” richiamano la potente immagine de “La primavera hitleriana” di Eugenio Montale (a me carissimo tra i poeti), lo sfacelo dei corpi in decomposizione punge la vista e l’olfatto, i manicomi abbracciano la follia dei transfughi dai campi di battaglia e le urla degli incompresi.

Giunti al quarto tempo di questo libro particolare, siamo sorpresi dal cambio stilistico che detta un carattere più analitico al racconto e ci rivela un’interessante retroscena, senz’altro poco noto: cosa mai possono aver avuto a che fare i pittori con l’esercito? Dove mai possono aver avuto modo di incrociarsi pennelli e artiglieria?

Altro non aggiungo per non guastare la sorpresa a nessuno.


Wu Ming tiene alto il suo vessillo.

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