Elena
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LA CONDANNA DELLA BELLEZZA
Elena di Sparta? Elena di Troia? Elena colpevole? Elena innocente? Elena distruttrice? Elena figlia di Leda? Elena rapita da chi? Molte sono le domande che accompagnano questo personaggio straordinario e molte le versioni del mito che riprendono la sua storia e hanno voglia di raccontarla. Concentrerò quest’opinione soltanto sulla protagonista, partendo da considerazioni riguardanti la tragedia che porta il suo nome, cercando, però, di dare un punto di vista complessivo del personaggio e riflettendo sui vari aspetti che la sterminata letteratura mette in luce. Ciò non significa affatto che il personaggio di Menelao, preso singolarmente o all'interno del rapporto matrimoniale, sia di meno importanza, anzi, completamente il contrario e tengo a precisarlo proprio riconoscendone una parte fondamentale. Allo stesso tempo, però, mi rendo conto che scriverei un'opinione estremamente lunga che difficilmente troverebbe un punto finale, ma per fortuna studiosi di tutto rispetto gli hanno reso e continuano a rendergli le giuste considerazioni.
Nella tragedia di Euripide, Elena, per prima, prende subito parola con l’intenzione di raccontare tutti i suoi mali. Scopriamo che, fin da subito, Elena è al contempo individuo e molteplice. Il suo nome girovaga ovunque, corre veloce per le bocche di tutta la Grecia e oltre, dichiarandola il peggiore dei mali, eppure il suo corpo è uno e si trova in Egitto, luogo che, in un tempo voluto e determinato dagli dei, ha avuto il compito di proteggerla, ma adesso rappresenta solo prigionia, esilio e obliata speranza. Infatti, il suo vero protettore, Proteo, vecchio re dove le acque del Nilo scorrono calme e bellissime, è morto e la donna passa intere giornate sopra la terra in cui è sepolto, cercando, davanti la tomba, conforto nel paese straniero. Nessuno sa dove si trovi veramente Elena, ma tutti sono pronti a sputare sentenze su di lei per la famosa colpa commessa e per tutto il sangue che è stato versato a causa sua. Ma siamo sicuri sia stata proprio Elena a scatenare (o a muovere pretesto per) la guerra di Troia? Euripide, e così autori prima di lui e dopo di lui, ci pone di fronte a una complessa cifra enigmatica, scomponibile tra verità e opinione, autenticità e inganno. L’Elena che è andata a Troia, tradendo la stirpe degli Atridi, e consequenzialmente, secondo il famoso giuramento di fedeltà fatto a Menelao, tutta quanta la Grecia, non è l’Elena di Sparta, ma solo un simulacro, un doppio, che la dea Era ha voluto costruire con un frammento di cielo, messo in vita da un soffio d’aria, vendicando sé stessa per l'oltraggio subito dalla vittoria di Afrodite, avvenuta con il giudizio di Paride. Tutte le varianti del mito che riguardano il personaggio di Elena si presentano alcuni con degli episodi aggiuntivi, altri, spesso, contraddittori tra loro, altri ancora, come nel caso di questa tragedia, nettamente differenti dall’opinione maggiormente conosciuta dal pubblico. Eppure, nonostante questa varietà di contenuto, l’elemento distintivo di questo incredibile personaggio femminile è che in qualsiasi incognita variabile venga a trovarsi, rimane sempre identica a sé stessa. Elena è una donna coraggiosa, prende con la forza della giustizia qualsiasi diritto alla vita che spetta, per nascita, ad ogni essere umano: abbraccia lo spazio per gli errori, sa difendere sé stessa, non ha paura di giudicare le sue azioni che spesso apostrofa con violenta ira, senza mai raggiungere l’avvilimento, ma, al contrario, trasformando quell’accanimento in una rabbia costruttiva, a tal punto da saper affrontare i rimorsi con il coraggio, il desiderio di ritornare indietro e la forza di farlo. Di questo è fatta Elena e queste sono le sue più grandi e significative battaglie. Quanto coraggio ci vuole per ammettere un errore e ritornare indietro? Questa, per esempio, è una di quelle domande che il mito ha regalato all’eternità e su cui ognuno di noi può riflettere. Elena è padrona del tempo vissuto, del tempo che vive e di quello che ancora l’attende. Il tempo della necessità è sostituito dalla naturale transizione e dal sapersi muovere con destrezza nella mutevolezza degli eventi; tutto è ancora recuperabile per lei, così come tutto ciò che desidera doveva avvenire perché voleva avvenisse. Il simulacro di Elena è, dunque, esempio paradigmatico di questo temporale gioco ad incastro a cui la reale Elena decide di non sottostare, confermando, ancora una volta, la sua forza motrice. In quanto donna della scena tragica, però, non può fare a meno di scontrarsi con la vertigine liminale e profonda della solitudine, non appena scopre che i suoi affetti più cari sono morti per quel suo doppio, che pur non abitando il suo corpo è come se la tenesse legata, lei stessa, infatti, dirà: “non ne ho colpa, eppure è colpa mia”. Elena, “in un canto triste che non vuole la gioia della lira”, invoca la Musa per cantare e piangere insieme le pene che il destino le ha inflitto, ma la sua dinamicità cerca immediatamente di risolvere questo momento terribile con il pensiero salvifico della morte, ed è molto importante sottolineare che non è di una morte qualsiasi quella a cui fa riferimento l’eroina. La donna, infatti, riflette su quale sia una morte degna e valorosa quella a cui valga la pena aspirare. Il suo linguaggio, al pari di quello di un eroe, è estremamente lucido e vaglia criticamente le morti miserabili da quelle nobili, ed è sulla spada nel petto che cade la scelta di questo personaggio inarrestabile. È di estrema importanza riprendere un altro aspetto che tende ad essere presente in ogni Elena del mito: il rapporto con la bellezza che, personificata nello spazio del racconto greco, ha nome Afrodite. La bellezza di Elena è onnipresente perché intrinsecamente connessa alla sua natura esteriore e interiore, ma la protagonista sembra avere un rapporto sinistro e conflittuale con la dea. Sia nell’Iliade che nell’Elena di Euripide sono parole di sfida, funeste e ostili, quelle che la donna rivolge alla divinità, chiamandola “assassina” e denominandola come causa prima di tutti i suoi mali. Eppure Elena, senza quella bellezza, da lei stessa definita “tremenda” e "disgraziata", non avrebbe alcun valore, sarebbe il nulla, perché solo essendo protetta da Afrodite, e a lei sottomessa, Elena è capace di muoversi liberamente e di godere di tutti quei privilegi che altrimenti le sarebbero tassativamente esclusi, in quanto donna greca. A questo proposito, bisogna aggiungere che la libertà di cui Elena gode ha a che fare sia con la sfera pratica sia con quella intellettiva. Non è possibile pensare Elena senza menzionare l’uso e l’arte del linguaggio, i raffinamenti retorici, i dispositivi metateatrali e affabulatori che, anche nella tragedia che prende il suo nome, questo geniale personaggio mette in atto. Se non fosse, infatti, per l’astuzia di Elena, Menelao rimarrebbe esule e spogliato della sua gloria in terra straniera. Questo, però, è un particolare a cui bisogna prestare molta attenzione e, soprattutto, è necessario fare uno sforzo per tentare di trovare la giusta chiave di lettura interpretativa, perché quella che per noi moderni potrebbe risultare una grande emancipazione femminile, in realtà nel mondo greco si presenta come lo specchio misogino che riflette una donna severamente additata come prima portatrice di mali e capace di tramare e tessere inganni e ordigni di ogni genere. Credo sia un’opinione ormai consolidata, oggi, quella che rende omaggio ad Euripide per avere una visione più ampia del mondo rispetto ai suoi predecessori tragici, ma credo anche che definirlo “progressista”, sia, forse, un’opinione un po’ azzardata. Euripide, in quanto scrittore e tragediografo, ha un’innegabile apertura mentale e porta novità di contenuto sostanziale alle sue tragedie, che determinano una grande rimessa in discussione su alcuni valori consolidati, pensiamo, per esempio, all'importanza concettuale nel ridimensionamento dell'intervento divino, ma è bene ricordare che rimane comunque un uomo del suo tempo, dentro un clima culturale che proprio in quegli anni, ad Atene, subisce enormi trasformazioni di grande complessità. Dunque, spetta sempre a noi moderni la responsabilità e il desiderio di avvicinarci e incontrare il passato, ma mai il contrario.
Realtà VS Apparenza
La scena è in Egitto dove Elena, moglie di Menelao, si trova ormai da 17 anni, poiché, come narrato dalla stessa protagonista, il suo ratto non è stato che un mero inganno ordito da Era. Adirata per l’oltraggio subito nel momento in cui Paride ha preferito a lei e ad Athena Afrodite, che l’aveva allettato promettendogli la bellissima "Elena dalla bella chiom"a in cambio, nel mitico giudizio delle tre dee, la moglie di Zeus aveva infatti forgiato un’illusoria immagine della donna fatta di nuvole cosicché mentre Greci e Troiani sono a combattersi per un simulacro vivente, la vera Elena è rifugiata in terra d’Egitto alla corte del nobile re Proteo. Quest’ultimo è però morto e ora la donna è entrata nelle mire del suo spregevole figlio Teoclimeno, a cui non vuole concedersi in ossequio alla sua fedeltà per suo marito Menelao. Quando giunge Teucro a informarla della fine della decennale guerra di Troia, del mancato ritorno a Sparta di Menelao, di cui non si hanno notizie, e della morte di sua madre e dei suoi fratelli, Elena è fortemente disperata. Viene tuttavia a sapere dall’indovina Teonoe, figlia di Proteo, che Menelao è vivo e molto vicino. Di lì a poco infatti il re spartano sbarca in Egitto in abiti cenciosi, tanto che Elena sulle prime non lo riconosce; Menelao, invece, che portava con sé la falsa Elena e l’aveva fatta chiudere in una grotta perché non scappasse, rimane sconcertato dall’incredibile somiglianza della donna a sua moglie. Elena cerca di convincere il marito della sua identità raccontando la vicenda del fantasma, ma il ricongiungimento avviene realmente solo grazie all’intervento di un compagno di Menelao, che gli comunica la sparizione dell’eterea immagine della falsa Elena, ricomponendo i pezzi del puzzle. La coppia è dunque di nuovo insieme ma bisogna escogitare un modo per scappare, poiché Teoclimeno vuol fare della donna sua moglie. Scartate le idee combattive del marito e portata dalla loro parte Teonoe, dopo aver giurato di scappare insieme o uccidersi insieme, Elena e Menelao attuano il piano escogitato dalla scaltra donna: fingendo di aver ricevuto da un vecchio (Menelao) la notizia della morte di suo marito, questa chiede e ottiene da Teoclimeno una nave per celebrare, secondo il presunto uso greco, il rito funebre per Menelao morto in mare, promettendo maliziosamente di sposarlo subito dopo; i due dunque si allontanano dalle coste egizie andando verso il loro lieto esito del ritorno a Sparta. Teoclimeno, informato dell’accaduto da un messaggero che era riuscito a scappare dalla nave dei due, si scaglia irato contro la sorella Teonoe loro complice silenziosa, ma intervengono i Dioscuri, fratelli di Elena e da poco divinizzati, i quali lo fermano, affermando che tutto è accaduto secondo il volere divino e preannunciando la futura divinizzazione della stessa Elena.
Pur rientrando certamente agli occhi del pubblico ateniese nel genere della tragedia, per via della materia mitica di cui tratta, l’Elena è un dramma che sfugge ad ogni classificazione per via dei diversificati elementi che concorrono a formarne la struttura. L’happy ending, meno preferibile e meno frequente seppur consentito, l’ambientazione esotica, lo stravolgimento formale delle tradizionali strutture della tragedia e alcune caratteristiche dell’intreccio che sembrano preludere alla commedia nuova hanno fatto sì che essa fosse variamente definita ilarotragedia, tragicommedia, dramma borghese, tragedia romanzesca. Tra le varie etichette affibbiate all’opera particolarmente significativa è quella di dramma filosofico: innegabile è infatti la presenza in sottofondo di una vena filosofica che serpeggia nell’Elena come nella gran parte della produzione euripidea, strettamente legata alla sofistica del periodo in cui si inserisce. Centrale nella tragedia in analisi è un tema particolarmente caro ai sofisti: il doppio. La dicotomia della realtà si esprime in ultima analisi nel rapporto-scontro tra realtà e apparenza. L’esempio più evidente di ciò è la scomposizione dell’io della protagonista che viene totalmente rivisitata da Euripide: Elena, storicamente paradigma di seduzione e adulterio, assurge al rango di nobile donna fedele e innamorata di suo marito e soffre della cattiva fama procurata al suo nome dalla sua falsa immagine fatta di nuvole. Ciò che di lei dice Teucro è ciò che tutti i Greci dai tempi di Omero pensavano di lei; Euripide segna in questo modo una spiazzante innovazione destinata certamente a catturare l’attenzione dei suoi spettatori per evidenziare quanto ingannevole può essere l’apparenza. Di ciò è esempio anche il nuovo Menelao portato in scena: vedere un eroico re del mito ridotto in stracci doveva certamente fare un certo effetto al pubblico teatrale. Il dramma si gioca dunque su un radicale capovolgimento del mito tramandato dalla tradizione, in un intreccio giustamente definito romanzesco che si concluderà col lieto fine ai danni di un antagonista. Il contrasto sofistico tra due diversi è inoltre ben espresso anche dal confronto tra la donna, che punta sull’astuzia, e il marito, che fa leva sulla forza fisica. In quella che potrebbe essere vista come una parodia tragica dell’epica, l’eroismo di Menelao viene rifiutato e forse velatamente schernito (si è parlato a proposito di lui di miles gloriosus) a favore di una risoluzione lontana dall’epos e dai valori della superata civiltà della vergogna e più vicina ai gusti che si imporranno con la commedia nuova. Anche in questo saper conciliare la tradizione epico-tragica e i gusti in mutamento del pubblico risiede l’abilità del tragediografo innovatore.
Il complesso rapporto tra apparenza e realtà, che tanti danni ha causato, mostra chiaramente la vanità e il mistero che avvolgono la vita dell’uomo. E la guerra di Troia, sempre viva nel ricordo e nelle parole dei personaggi che l’hanno vissuta, Menelao su tutti, potrebbe dunque esser considerata l’emblema della vanità e della pericolosità dell’agire umano basato sull’apparenza, in contrasto con la serenità di un ambiente esotico come quello egizio in cui risiede la verità (Fin troppo facile è scorgere, negli infausti ricordi del sanguinoso conflitto a Ilio, un riferimento alla nefasta guerra del Peloponneso, che all’epoca della rappresentazione vede Atene in netto svantaggio). Di nulla l'uomo può esser certo nella vita se non dell’impossibilità di una conoscenza salda della realtà e della sua impotenza di fronte alla sorte prestabilita dalle divinità: "Le forme del divino sono molteplici, e molte le azioni degli dei contro le nostre attese. Quel che si credeva possibile non si realizza, mentre un dio fa accadere l’impossibile. Così termina questa storia."