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De bello Gallico
 
De bello Gallico 2013-11-19 11:56:18 catcarlo
Voto medio 
 
4.3
Stile 
 
5.0
Contenuto 
 
4.0
Piacevolezza 
 
4.0
catcarlo Opinione inserita da catcarlo    19 Novembre, 2013
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La guerra gallica

Il classico – con riferimento sia allo status del titolo, sia al periodo storico – ispira comunque una certa reverenza: se poi vi si innesta la frequentazione scolastica, anche se addolcita dal ricordo di parafrasi goliardiche, la reverenza suddetta si trasforma in diffidenza, micidiale reazione che ha fatto la sfortuna di numerosi libri. In questo caso, si aggiunge in più la maliziosa (ma vera) considerazione che la storia viene scritta sempre dai vincitori e quindi l’approccio al ‘De bello gallico’ non si rivela certo dei più facili: però la versione dei Galli non la sapremo mai, a far da contrappeso possono sempre servire le meravigliose avventure di Asterix, e questa è un’opera che merita assolutamente di essere letta. La sua fortuna, proprio dal punto di vista letterario, è che si tratti di ‘commentarii’, ovvero del racconto in breve differita dei fatti in qualcosa che sta a mezza via tra il diario e il rapporto da redarre per il senato: cronaca veloce, ficcante, non troppo meditata che – proprio per questo – finisce per trascinare il lettore a destra e a manca per un territorio vastissimo e, dal punto di vista romano, quasi sconosciuto. Le legioni di Cesare vanno dalle Alpi alla Britannia e dall’Atlantico alla Germania in un ossessivo rintuzzare l’agitazione di questa o quella fra le infinite tribù galliche o germaniche: un ritmo quasi concitato che si nota ancor di più quando si giunge all’ottavo libro, aggiunto postumo da Aulo Irzio senza riuscire a mantenere la stessa tensione narrativa. Il volume è un manuale di tattica militare – la rapidità e la sorpresa sono il credo di Cesare – ma anche una dettagliata testimonianza dell’ingegneria bellica romana (torri, terrapieni, valli ma anche un ‘genio pontieri’ che lascia a bocca aperta i nemici) e pure un tentativo di descrivere con la maggior fedeltà possibile gli usi dei vari popoli e le caratteristiche delle terre da loro abitate. In più, si racconta di come Cesare non fosse un comandante da ‘carne da cannone’, ma ci tenesse moltissimo ai propri uomini, specie i reparti più esperti, cercando di evitar loro rischi inutili: in compenso, però, chiedeva loro sacrifici ai limiti dell’umana resistenza tra marce forzate, condizioni climatiche sfavorevoli e, spesso e volentieri, battaglie e assedi contro un avversario forse un po’ disorganizzato ma fiero e ferocemente combattivo. I Galli vengono raffigurati come di grande valore sul campo di battaglia ma scarsi in tattica e, soprattutto, con una notevole tendenza a tradire la parola data, tanto che i Romani (Cesare ci tiene a mostrarsi magnanino col nemico) devono ritessere ogni poco la tela di alleanze che il primo capetto locale finisce presto per far saltare: l’arrivo in scena di Vercingetorige muta in parte questo quadro, ma anche il condottiero arverno - ispiratore di una tattica di ‘terra bruciata’ che, sulle prime, dà buoni frutti – deve fare i conti con questa incostanza. Tra Gergovia e Alesia si raggiunge l’acme dello scontro tra i due popoli: confronti all’arma bianca e cadaveri su cadaveri, fra i quali si contano innumerevoli le vittime civili, a testimonianza che la storia dell’umanità si è sempre scritta in buona parte con il sangue. Però la narrazione cesariana è precisa, nel limite del possibile non nasconde le difficoltà ed è, ovviamente, fondamentale per la nostra conoscenza dei fatti di quel periodo. Il tutto in uno stile, mirabile nella sua limpidezza e concisione, ulteriormente sottolineato dal colpo di genio del racconto in terza persona.

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