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L'infinito lunare
 
L'infinito lunare 2011-01-11 11:19:17 Renzo Montagnoli
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Renzo Montagnoli Opinione inserita da Renzo Montagnoli    11 Gennaio, 2011
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Oltre il palcoscenico

Basterebbe come commento la superlativa introduzione di Sarah Zappulla Muscarà, perché in fondo di questa raccolta di racconti si può scrivere tanto, ma bene come in quelle paginette penso sia francamente assai improbabile. Tuttavia, per la stima che ho di Giuseppe Bonaviri e perché la lettura delle sue opere lentamente matura in me domande a cui cerco di dare risposte, ritengo doveroso esprimere una mia opinione, un mio giudizio, un’interpretazione, magari non nuova, oppure addirittura azzardata.
Mi vado chiedendo da tempo perché l’autore siciliano abbia scelto il genere fantastico per esprimere la sua visione del mondo e opera dopo opera sono arrivato alla convinzione che abbia ritenuto di rappresentare in questo modo una realtà sfuggente, un nesso logico che regola l’esistenza e che quasi sempre non riusciamo a cogliere, presi da comportamenti e da atteggiamenti che ci vengono imposti e ci imponiamo come attori, anzi quasi sempre comparse, di una rappresentazione che erroneamente crediamo fermamente corrisponda a un’oggettività del nostro ciclo vitale. Non ci accorgiamo, invece, che la nostra è una finzione e anche se lo intuiamo preferiamo proseguire per la strada intrapresa, in una commedia di cui ci illudiamo di essere, oltre che interpreti, anche registi.
Bonaviri capovolge così il concetto di fantastico, scoprendo quel che accade dietro le quinte, quella realtà che ignoriamo e temiamo.
Nei dieci racconti che costituiscono L’infinito lunare, Martedina è il più lungo, quasi un lavoro a sé, e non è difficile riconoscere nel dottor Zephir lo stesso Bonaviri che, anzi, nelle prime pagine fa apparire anche parte della sua famiglia, un legame affettivo che entra in contrasto con la naturale insoddisfazione di fondo dell’uomo, sempre teso a gettarsi in avanti, senza volgersi indietro. Il viaggio dell’astronave verso i confini dell’universo, con descrizioni fantastiche e quasi cinematografiche, è un’odissea nello spazio, è un brancolare di poveri esseri che cercano una ragione della loro esistenza, sebbene inutilmente, per un crudele destino, un supplizio di Tantalo che è cruccio e turbamento di ogni uomo.
Se la Terra è un po’ stretta, altrettanto si può dire per quell’incapacità di non riuscire a comprendere il perché ci siamo e, soprattutto, il perché dobbiamo finire. Così anche il fantasticare diventa il frutto del nostro inconscio, di quel tarlo sottile che ossessivamente pone una domanda alla quale non riusciamo, né possiamo dare risposta.
E sempre la fantascienza domina in Giovanni Verga sulla luna, scelta quanto mai felice, attesa l’evidente discrasia fra la fantasia del racconto e il dolente verismo dell’autore di I Malavoglia. Peraltro, in una narrazione che ricomprende personaggi quanto mai disomogenei, come il comico Ollio e Mastro Don Gesualdo, in una visione onirica del nostro satellite c’è tutta la disillusione di Bonaviri per la razza umana, per tutti quei poteri che l’appestano e che la dominano, accomunando industriali a politici e mafiosi, in una società del futuro, che già esiste però, in cui non si trova di meglio per risolvere il problema della penuria di lavoro di eliminare i disoccupati, oppure di allevare bimbi affinché possano costituire magazzino di organi di ricambio per chi presiede ai nostri destini e rifiuta non solo la morte, ma anche l’invecchiamento. Eccessivo, azzardato? Non direi proprio, con i tempi che corrono, con la disumanizzazione della globalizzazione e con l’artificiosità di una quasi eterna giovinezza di personaggi che non hanno altre doti se non il potere.
E gli altri otto racconti? Non ne parlo, ma non perché non ne valga la pena, bensì perché questi due di cui ho scritto sono serviti più degli altri a elaborare l’opinione di cui prima ho più diffusamente dissertato. E’ campata in aria? E’ più che probabile che lo sia, anche se penso che Bonaviri, se avesse avuto la possibilità di venirne a conoscenza, non si sarebbe indispettito e forse, con quel senso di autoironia che permea tutte le sue opere, avrebbe finito per trovare in una di esse un posticino anche per me, che so magari un sasso, o un corvo spennacchiato che sul viale del tramonto cerca invano di comprendere come mai il sole si nasconda la notte, o perché l’uomo cerchi sempre di precedere la sua ombra.
Appollaiato sulla spalla dell’anziano medico io corvo mi illudo
di vedere come lui oltre il sipario, dietro le quinte, con un volo di fantasia che scopre la realtà.
S’ode lontano il suono delle campane di Mineo, il sole si sotterra nell’altopiano di Camuti, qui tutto sembra nascere e poi rinascere, in un paesaggio in cui lo stormire delle foglie al vento è diverso da albero a albero, in cui anche le pietre parlano, un posto in cui chi ha orecchie per sentire, occhi per vedere e cuore per percepire può anche conoscere il vero senso della vita, come Giuseppe Bonaviri, appunto.

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