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Il copista
 
Il copista 2020-05-19 16:28:32 archeomari
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archeomari Opinione inserita da archeomari    19 Mag, 2020
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L’ULTIMA ISPIRAZIONE

“Che perisse ogni sua speranza. Che se ne stesse solo con la sua gloria, a scrivere per i morti. Avrebbe avuto i suoi posteri, sì, il destino non poteva o non voleva impedirlo: li avrebbe avuti, per secoli. Posterità! Una catena che rotola sulla carrucola: ciascun anello appare per pochi istanti alla luce e subito risprofonda nel buio del pozzo. I posteri non sono che una illusione, lampi che si accendono muti nell’oscurità della storia” (p.99-100).

Un racconto lungo su cui Marco Santagata, nome arcinoto tra gli studiosi di Dante e Petrarca, è tornato più volte per apporre modifiche e varianti: nel 2000 e poi nel 2007 questo libro era stato edito dalla casa editrice palermitana Sellerio. Quest’anno “Il copista” è riedito in versione definitiva da Guanda.
Il protagonista è un Petrarca ormai anziano, amareggiato e ferito dai terribili lutti che lo hanno colpito e tormentato dagli acciacchi dell’età, specialmente dall’ulcera allo stomaco (e l’autore indugia, soprattutto nelle prime pagine, nel descrivere con pochi chiari tratti i particolari del decadimento fisico del poeta).
La perdita del caro figlio Giovanni e del nipote Francesco, periti per mano della peste del ‘61, per non parlare di quella dell’amata Laura, morta tempo addietro anch’essa per la pestilenza, nel 1348, hanno segnato per sempre la vita del sommo. L’evento recente che però lo tormenta forse più di tutti è l’abbandono dell’amato copista: Giovanni Malpaghini, detto anche Giovanni da Ravenna.
Sappiamo infatti che, nella realtà, questo giovane aveva copiato per lui numerosi componimenti del celebre Canzoniere e delle epistole Ad familiares, però ad un certo punto si era rifiutato di proseguire nel lavoro ed aveva abbandonato Petrarca che lo aveva amato quanto un figlio suo.
In questo libro Santagata immagina le motivazioni (inventate, lo dice nella postfazione) dell’allontanamento del giovane.
Santagata immagina un venerdì degli ultimi istanti di vita del poeta fiorentino, in una giornata uggiosa nella triste città di Padova, in cui preso dai ricordi e dalle recenti vicissitudini della sua vita, riesce a concludere una canzone che aveva promesso all’amico Giovanni Boccaccio: la canzone numero 323 del De Rerum Vulgarium Fragmenta, ossia il Canzoniere. Tale componimento è un tributo all’amico dal momento che contiene chiari riferimenti al Decameron, in particolare alle novella di Nastagio degli Onesti ( “la repente tempesta oriental...” è la peste del 1348 di origine asiatica, i cani da caccia che inseguono una fiera dal volto di donna).

Il Petrarca che conosciamo in queste pagine è un uomo distrutto, ancora tormentato dal dissidio interiore tra il desiderio di una spiritualità intima e consolatoria e quello della gloria e del suo ricordo presso i posteri.
Anche se all’epoca in cui era morta, Laura era diventata una “botte da vino” (p.59). ingrossata ed invecchiata dalle troppe gravidanze, continuerà ancora ad ispirare Petrarca, perché il ricordo della sua bellezza rimarrà intatto del suo cuore e nella sua memoria.
“Laura era giovane e bella. Non importava che in quell’aprile lontano fosse morta una donna obesa e invecchiata. Era giovane, perché con lei morivano tutti i giovani. Anzi, tutti gli uomini. Anche i vecchi muoiono giovani rispetto all’eternità. Giovani e belli, perché la vita, unico bene che possediamo, è bella” (pag. 111).

Ed ecco la penna del Santagata ritrarre quei tormentati momenti, riprodurre quei nessi “tra biografia ed ispirazione” di un uomo solo ed abbandonato, ormai stanco nel corpo e nello spirito, stanco di credere nell’al di là, che trova ancora dei fulminei barlumi di autentico slancio artistico per terminare la sua canzone dedicata a Laura.




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Il Canzoniere di Petrarca
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Commenti

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Quella "botte da vino", l'avrei risparmiata, meglio il R.V.F!! Ero quasi convinta, lo avrei letto ma Mi cade un mito: Santagata!! Dimmi che ho capito male; Marianna!
Ehm ehm. Laura...ha detto pure che il suo lato B è grosso quanto una nave e il davanzale è stato oltraggiato da un irreversibile crollo al punto che non si distingue più dal resto del corpo centrale.
Appena ho cominciato a leggerlo mi ha infastidita così tanto che a stento le tre stelle gli avrei attribuito. Non tanto per l'irriverenza verso Laura e questa visione disincantata che Santagata ha immaginato potesse aver avuto un uomo lacerato dai lutti, lontano da quello slancio romantico e passionale della gioventù, il suo carattere burbero dovuto alla malattia, quanto piuttosto uno spiacevole indugiare sui particolari del decadimento fisico del poeta (flatulenze, acidità di stomaco e... compagnia sonante). Quello per me è stato quasi intollerabile. Poi ho proseguito,. Il Santagata ha voluto rappresentare gli ultimi momenti di ispirazione di un uomo provato, invecchiato, senza più fede nella misericordia divina, ammalato che ha visto morire gli affetti più cari per colpa della pestilenza e non ha più nulla da perdere, quasi quasi non gliene frega più nulla neppure della gloria presso i posteri.
Tuttavia Santagata rende vivi ed umani personaggi così lontani nel tempo, perfino i personaggi minori sconosciuti ai più e l'intento di cogliere gli ultimi istanti in cui l'animo è catturato dallo slancio poetico e partorisce poesia è stato lodevole.
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