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Casa di bambola Casa di bambola

Casa di bambola

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Considerata dal marito, l'avvocato Torvaldo Helmer, l'immagine del decoro degna di essere esibita in società, nonché la bambola prediletta da ammaestrare a proprio piacimento, la giovane Nora vive all'ombra di un matrimonio di cui non ha mai sperimentato l'essenza in otto anni di convivenza. Ignara del proprio ruolo accessorio nella casa che lei crede la sua reggia, destinata però a rivelarsi una prigione di ipocrisia, Nora andrà incontro ad una personale epifania a partire da una vigilia di Natale carica di aspettative, in cui un antico prestito contratto con l'oscuro Krogstad illuminerà la natura dell'amore che la lega al marito e l'abisso che li divide. Nora si dichiarerà intenzionata a completare il suo personale percorso di affermazione interiore, alla ricerca di nuovo senso o forse, solo, di un altro sostegno su cui plasmare la propria vita.



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Casa di bambola 2018-08-06 16:16:33 Laura V.
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Laura V. Opinione inserita da Laura V.    06 Agosto, 2018
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Bambola sì, ma non troppo

Un testo teatrale molto interessante, questo del norvegese Henrik Ibsen, considerato sin dalla fine dell'Ottocento – la sua pubblicazione risale ormai al lontano 1879 – a favore della causa femminista.
In realtà, Nora Helmer, protagonista dell'opera, nonché rispettabile signora di buona famiglia borghese, non sembra affannarsi troppo dietro aspirazioni da donna emancipata e padrona di se stessa, come ha messo in luce la critica più autorevole. Già dalle prime battute, l'immagine che di lei si percepisce è quella di una persona particolarmente preoccupata (e in un certo qual modo ossessionata) per il lusso e il sempre apprezzato vil denaro, una moglie che esulta per l'imminente prospettiva di ben più cospicui guadagni da parte del marito, fresco di nomina di direttore di banca, facendosene addirittura vanto con chi conosce.

“Già a capodanno entrerà nella Banca e avrà un lauto stipendio. Da oggi possiamo vivere molto diversamente... proprio come vogliamo. Cara Kristine, come mi sento felice! È davvero una gran bella cosa avere molti quattrini ed essere senza preoccupazioni.”

A prima vista, una signora alquanto frivola e insulsa che non lascia di sé un'impressione positiva per buona parte dell'opera, così come insulsa, in verità, appare anche la figura del consorte, Torvald, che, con tutta evidenza, non le risparmia un trattamento da giocattolino sensuale e mero oggetto di proprietà consacrato dalla sacra morale del matrimonio borghese né vezzeggiativi (“lodoletta”, “scoiattolo” e altri di gusto discutibile) che la dicono lunga sulla sua considerazione del quoziente intellettivo di una moglie che – parole sue – “consuma mucchi di quattrini”. Pian piano, tuttavia, viene a galla l'illecito di cui la rispettabile signora si è macchiata e, soprattutto, il motivo a cui è imputabile tanta sventatezza. E allora s'inizia a intuire che la stessa donnetta frivola e insulsa è pronta a rischiare per il marito molto più di quanto quest'ultimo, preoccupato soltanto di salvare la faccia e la propria miserabile rispettabilità, sia disposto a fare per lei come si scoprirà tristemente alla fine.
Ma è nelle ultimissime pagine che Nora si riscatta pienamente agli occhi del lettore, trasformandosi da bambola, ruolo che in fondo non le era poi così dispiaciuto interpretare, in “creatura umana” pensante e riversando pacatamente su un sempre più inebetito Torvald discorsi più esplosivi di una bomba.

Torvald: Lasciare la tua casa, tuo marito e i tuoi figli! Pensa: che cosa dirà la gente?
Nora: Questo non può riguardarmi. So soltanto che per me è necessario.
Torvald: È rivoltante. Così ti sottrai ai tuoi doveri più sacri?
Nora: Quali sarebbero secondo te i miei doveri più sacri?
Torvald: Devo dirtelo io? Non sono i doveri verso tuo marito e verso le tue creature?
Nora: Ho altri doveri che sono altrettanto sacri.
Torvald: Non è vero. Che doveri potrebbero essere?
Nora: I doveri verso me stessa.
Torvald: In primo luogo sei moglie e madre.
Nora: Non lo credo più. Credo d'essere prima di tutto una creatura umana al pari di te... o almeno voglio tentare di diventarlo. So bene, Torvald, che il mondo darà ragione a te e che qualcosa di simile si legge nei libri. Ma ciò che dice il mondo e ciò che si legge nei libri non può più essere norma per me. Io stessa devo riflettere per vederci chiaro nelle cose.
Torvald: Possibile che tu non ci veda chiaro nella tua posizione, nella tua famiglia? Non hai in queste cose una guida infallibile? Non hai la religione?
Nora: Oh, Torvald, non so neanche esattamente che cosa sia la religione.

La signora Helmer, infine, rinuncia alla sua casa di bambola, dove lascia una fittizia felicità coniugale, marito e figli piccoli, poiché colui che riteneva il proprio compagno di vita, e invece non è altro che un estraneo, alla prova dei fatti non si dimostra abbastanza uomo, abbastanza protettivo, abbastanza rassicurante né, ancor meno, si offe d'immolarsi per lei.
Non importa se Nora non incarna il femminismo che, a torto, si è visto in questa importante pagina del teatro ibseniano; è comunque una donna che dà prova di coraggio, coerenza, dignità e questo è sufficiente a consacrarla al pantheon dei personaggi più emblematici e degni di ricordo della grande letteratura senza tempo.

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Casa di bambola 2017-04-13 15:54:51 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    13 Aprile, 2017
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Nora.

Composto da tre atti, “Casa di bambola” di Henrik Ibsen è un’opera che descrive in modo chiaro ed inequivocabile il volto dell’istituzione matrimoniale. La coppia, composta da, Nora, donna solare, allegra, frivola, apparentemente senza problemi e dedita alla crescita dei figli, e Torvald Helmer, il marito avvocato prossimo al conseguimento di una importantissima promozione, si offre al pubblico esterno quale modello da seguire, quale unione perfettamente solida ed armonica, per poi dimostrarsi, nell’intimità, caratterizzata un rapporto tanto fragile quanto ormai corroso.
Goccia che fa traboccare il vaso non è altro che il rischio di uno scandalo: Nora che sin dal principio ha deciso di rinunciare alla sua personalità e al suo carattere per indossare la maschera e i panni della bambola, del giocattolo accondiscendente nei confronti del marito e dei dogmi che la società stessa le hanno imposto, per aiutare il coniuge nel momento di difficoltà ricorre ad un prestito, denaro che le arriva da un uomo malvisto nella comunità, il signor Krogstad. La minaccia di dichiarare pubblicamente quanto accaduto fa si che la donna cada nel dubbio, non sappia come comportarsi e cerchi, nel suo piccolo, di assecondare quell’unica richiesta del creditore; mantenere il posto di lavoro. Peccato che Torvald si rifiuti categoricamente di ascoltarla e/o prometterle qualcosa del genere; ne andrebbe della sua credibilità, della sua moralità, ora soprattutto che il posto al vertice della banca ove presta la sua attività è arrivato. Ed è al momento della scoperta del “misfatto” che le crepe fanno breccia nella realtà di facciata, sgretolandola, ed è al momento della denuncia pubblica che il vero volto dei protagonisti di Ibsen viene alla luce.
Torvald, infatti, appreso l’errore della donna, non solo non la consola, non solo la colpevolizza, ma la ritiene talmente inaffidabile che la interdisce della possibilità di continuare ad educare i figli. Il suo unico pensiero è rivolto all’immagine pubblica; cosa ne sarà della sua promozione, cosa ne sarà della sua brillante carriera se quelle voci inizieranno a circolare? Come può un uomo della sua posizione vedersi esposto a simili critiche e giudizi a causa dello scellerato comportamento di una donna che ha agito di propria iniziativa quando sino ad allora si era perfettamente conformata al ruolo di soprammobile? Come ha osato costei, come si è permessa di far uso del suo libero arbitrio? Come ha potuto macchiare in modo così indelebile l’onore del marito? Da questo momento, ella è ai suoi occhi soltanto una figura inaffidabile, priva di qualsivoglia moralità e priva di minima maturità.
Le circostanze però non sono avverse all’avvocato che, tramite una serie di interventi – paradossalmente – esterni, riesce a salvarsi. E riecco che, dopo essersi spogliato dei panni del marito-guida-premuroso ed attento per indossare quelli dell’egoista a cui interessa esclusivamente del proprio ruolo e ceto sociale, è pronto nuovamente a ricambiarsi per tornare a rivestire gli abiti di colui che affettuosamente fa strada alla tenera ed indifesa moglie-bambola. Peccato però che il legale mal abbia fatto i suoi conti… Le parole proferite dall’uomo, hanno risvegliato Nora, che di fronte alla realtà dei fatti, vede, forse per la prima volta, l’uomo che ha davanti. Inizia così la riflessione su quella che è stata sino ad allora la sua vita, a quelli che dovevano essere i suoi desideri e a quelli che in realtà celava, alla considerazione e all’opinione che colui che doveva proteggerla, consigliarla, difenderla ed appoggiarla, in verità nutriva della sua persona; considerazioni che la portano inevitabilmente alla scelta – per il tempo – di coraggio per eccellenza.
Seppur come anticipato il testo sia composto da pochi atti e si concluda nel lasso di tempo di una giornata “Casa di bambola” è un elaborato che racchiude molte riflessioni che invitano il lettore ad interrogarsi sulle questioni sollevate. Da sempre considerato emblema del femminismo, esso si dimostra capace di ricreare una perfetta fotografia della società del tempo, una realtà in cui la donna veniva confinata nell’annullamento poiché intrisa di sacri ed imprescindibili doveri. Riprova di ciò sono proprio le parole di Torvald, che appresa la decisione della donna, immediatamente ritratta per poi – appurato che la sua è una linea irrevocabile – arrivare a rinfacciarle proprio questa sua incapacità di far fronte a quei doveri coniugali che si è assunta. A Nora, che non è compresa completamente nemmeno dal suo ideatore, non resta altro che partire, incamminarsi alla ricerca di una nuova identità; una strada irta di difficoltà, un percorso ancora in crescendo, ancora in essere.

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Casa di bambola 2017-02-05 08:52:08 sonia fascendini
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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    05 Febbraio, 2017
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Gabbie

Siamo ala fine dell'800 nella casa di un avvocato fresco di nomina a direttore di banca. quindi un notevole avanzamento di carriera, che ne consoliderà anche il benessere economico. Adesso Helmer ha tutto: una moglie carina ed obbediente, tre figli educati e sani, ma soprattutto la sua immagine è solida e pulita. Con dedizione si preoccupa che niente offuschi il suo buon nome, di essere accettato nei posti che contano, di non essere oggetto di maldicenza. Ci si può sempre girare dall'altra parte quando qualcuno spazza la polvere sotto il tappeto: l'importante è non vedere. Tutto queso sarà scolvolta da Nora. la moglie che è appunto quella che in passato ha tenuto in mano la scopa ed in un momento di dificoltà ha risolto i problemi economici della famiglia in modo non proprio ortodosso. Quando però non riesce più a tenere il tappeto al suo posto ed il marito intravede la polvere che c'è sotto da lodoletta canterina diventa agli occhi del marito una fedifraga capace di corrompere anche i figli. Salvo poi come per magia tornare ad essere un incantevole uccellino quando il tappeto torna al suo posto. Ed è qui che la mogliettina ubbediente da oggettino decorativo si trasforma in una persona pensante e fa una scelta sorprendente sia per l'epoca sia per una madre.
Commedia sicuramente di rottura che pur ricorrendo ad espedienti leggeri ed a momenti di divertimento dà una grande lezione. attenzione alle acque chete. Sottolinea inoltre la condizione di molte donne dell'epoca imprigionate in gabbie le cui sbarre sono le convenzioni, il buon nome, il decoro. Sbarre che non sono più così serrate da impedire loro di vedere che cosa c'è di fuori, ma che non hanno ancora la forza di abbattere.
Piacevole da leggere, nonostante si tratti di un lavoro teatrale e quindi la scorrevolezza ne soffra.

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Casa di bambola 2015-09-20 08:20:33 CogitaBionda
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CogitaBionda Opinione inserita da CogitaBionda    20 Settembre, 2015
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Il doppio volto dell’istituzione matrimoniale

Attenzione, il testo contiene spoiler.

Scritto da Ibsen nella seconda metà dell’Ottocento, Casa di Bambola è un’opera che in tre soli atti dipinge a tinte vivaci il doppio volto dell’istituzione matrimoniale: quello pubblico, nel quale gli sposi si sforzano di mostrare al mondo esterno (e a loro stessi) di aver costruito un nido di perfetta armonia e felicità, vezzeggiandosi e celebrandosi reciprocamente, e quello privato, celato perfino agli sposi stessi, che non vedono – o non vogliono vedere – le fondamenta farraginose di un legame che non va oltre l’apparenza e la formalità, ma che esplode con prepotenza in tutta la sua drammatica realtà quando la coppia si trova sull’orlo dell’abisso, a contemplare sgomenta una crisi che rischia di travolgere l’immagine pubblica di entrambi e che mette in gioco la morale di ognuno di loro, morale desolatamente personale anziché condivisa.
La crisi dunque è la vera forza, capace di sollevare il velo delle apparenze e scardinare il teatrino sapientemente costruito da Torvald nel quale Nora si muove, danza e canta, recitando perpetuamente la parte della bambolina allegra e un po’ sciocca, perfetta per intrattenere il marito e gli ospiti ma ben lontana dall’avere una personalità, dei pensieri, delle ambizioni, una profondità spirituale propri. Quando il ricatto di Krogstad – a cui Norma si era imprudentemente affidata per ottenere un prestito che la aiutasse a provvedere alla salute del marito – minaccia la perfetta armonia della sua casa, Torvald viene assalito dall’angoscia di veder distrutta la propria immagine pubblica, veder compromessa la propria brillante carriera, vedersi esposto a critiche e giudizi a causa del comportamento sconsiderato di una moglie che egli considerava un grazioso soprammobile e che ha invece osato agire di propria iniziativa, rivelandosi ai suoi occhi come una donna inaffidabile e di scarsa moralità.

Salvato da fortunose circostanze, Torvald si cala nuovamente nel ruolo di marito-guida premuroso e attento alla sua fragile bambolina senza capire che le dure parole che ha usato contro sua moglie hanno risvegliato la coscienza di Norma che, in un attimo, realizza di non avere mai avuto pensieri e desideri propri e che sente, improvviso e irresistibile, il desiderio di vita, di autorealizzazione, di ricerca della propria personalità. In una casa ormai silenziosa e al cospetto di un marito attonito per l’improvvisa dimostrazione di coraggio della sua bambola, Norma decide di lasciare marito e figli (alla cui educazione non si sente più in grado di provvedere), e fuggire alla ricerca di sé.

Se da un lato è stato considerato manifesto del femminismo, in un’epoca in cui il matrimonio era vincolo sacro e inscindibile, per la denuncia della condizione della donna all’interno della società e della coppia, dell’annullamento di ogni iniziativa e di ogni aspirazione personale in nome di quei “sacri doveri” che Torvald rinfaccia a Norma nell’estremo tentativo di dissuaderla dal lasciarlo, dall’altro la stessa riflessione di Ibsen sulla sua opera ci fa capire quanta strada ancora ci fosse da fare: «Ci sono due tipi di leggi morali, due tipi di coscienze, una in un uomo e un’altra completamente differente in una donna. L’una non può comprendere l’altra; ma nelle questioni pratiche della vita, la donna è giudicata dalle leggi degli uomini, come se non fosse una donna, ma un uomo».
Se Kant non è stato invano, sappiamo che non è certo pensabile assegnare un genere alla morale – universale e necessaria – e l’auspicio sottinteso che le donne siano giudicate dalla legge “in quanto donne” e non “come fossero uomini” è quanto di più lontano si possa immaginare dalle rivendicazioni femministe che nel secolo successivo scossero le basi di un’Europa profondamente maschilista e sessista.
Norma, bambolina incompresa perfino dal suo autore (“Credo di essere prima di tutto una creatura umana, come te… o meglio, voglio tentare di divenirlo”), parte alla ricerca di una nuova identità e di una nuova considerazione di se stessa.
Ma ancora non è tornata.

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Casa di bambola 2013-11-14 15:38:21 GiammarcoCamedda
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GiammarcoCamedda Opinione inserita da GiammarcoCamedda    14 Novembre, 2013
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L'ideale borghese in crisi

Partendo dal fatto che si tratta di un'opera risalente alla fine dell'800, e che è un'opera teatrale, possiamo benissimo affermare che non c'è nulla di più succoso e gustoso di un bellissimo seducente infangamento di un luogo comune: l'inferiorità della donna nella società.
Ibsen, l'autore di questo dramma, vedeva già nel futuro, su questo non ci piove. Con magnifica lucidità ci vengono espressi i cardini morali della società a lui contemporanea: i soldi, il perbenismo, l'inferiorità in tutto e per tutto della donna. Con fare bigotto, la borghesia, ormai classe sociale egemone, ha già plasmato le persone, a tutti i livelli sociali. Le rivoluzioni di questo secolo e anche dei secoli precedenti (mi riferisco a quella Francese) non sono altro che echi distanti e non ascoltati.
Veniamo catapultati in uno scenario classico quanto spesso mal descritto: una casa con marito, moglie, 3 figli, bambinaia. La scena, già presentata in passato e ripresentata nel futuro, non è nuova dal punto di vista stilistico, ma lo è dal punto di vista ermeneutico, dell'interpretazione. Il pover uomo, che lavora duramente, torna a casa e si ritrova con la moglie che non ha fatto nulla e che non può offrirgli nessuna pace, nessun sollievo alla giornata perché considerata incapace di comprendere determinate cose. Con lucidità immensa Ibsen ci prospetta questa visione inerente in tutto e per tutto al suo tempo.
La trama racconta una normale storia familiare, ma in chiave diversa dal gusto della borghesia: la donna, che non accetta più la sottomissione, si ribella.

Il testo è scorrevole e piacevole, di facile comprensione e soprattutto di visionaria interpretazione. Pensando alla società di quel tempo possiamo solo stupirci di quanto Ibsen avesse visto avanti, di quanto avesse scrutato nella mente umana per giungere a quella conclusione. La storia è una critica pesantissima ai paletti che la gerarchia sociale imponeva (e se vogliamo dirlo impone anche ora) nei confronti della donna. Essa non è all'altezza di nulla, se non di stare in casa. Anzi, leggendo, il marito (che a quanto pare è una mente superiore) dice addirittura che le cattive cose vengono ereditate dai figli per colpa della madre.
L'interpretazione è una sola: ideale bigotto bocciato. La donna è e sempre sarà al pari dell'uomo dal punto di vista umano. La società impone però che sia sempre su un piano inferiore, anche adesso. L'unica cosa non tollerabile è l'immancabile presenza di chi la pensa realmente così. Io, da uomo, mi rifiuto di pensare a una nostra superiorità. Al contrario, così pensando, adeguandoci al pensiero comune, dimostriamo la nostra inferiorità nei loro confronti. Le cose si fanno in due, non da soli.
Per concludere, consiglio vivamente il libro a tutti quanti, essendo scritto veramente bene. Si dice che con Ibsen il teatro drammatico moderno sia nato. Devo sottomettermi a questa definizione, perché è la verità

Per ampliare il discorso ad un piano più attuale possiamo benissimo affermare che la stessa idea venga adesso applicata per gli omosessuali, le persone di altre culture o anche con chi è anticonformista. Triste situazione, la nostra. Un giorno soccomberemo tutti al peso dell'insensatezza di questi discorsi e ci renderemo conto degli errori che commettiamo nel pensare questo.
Infine, dirò solo che la stupidità, anche se molti non la vedono, risiede proprio nella totale assenza di crederci tali. Una persona è stupida proprio quando è convinta di non esserlo.

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Opere teatrali di fine '800.
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Casa di bambola 2013-06-16 23:13:17 DanySanny
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DanySanny Opinione inserita da DanySanny    17 Giugno, 2013
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Casa di bambola

Marito, casa, figli, educazione e denaro: questi gli imperativi dell'ottica borghese.
Maschilismo, ipocrisia, arrivismo: questo il retroscena culturale di una mediocrità abnorme, oscena, spaventosa.
Femminismo, il male da debellare. Anzi, l'interrogativo perennemente posticipato, la richiesta spasmodica di donne alla ricerca di libertà, indipendenza.
Dramma: lo scontro tra apparenza e essere.

Questa l'effervescente borghesia di pieno 800', un carnevale sordido, continuo; maschere sociali ed affettive, labirinto intricato tra i cui meandri si nasconde una personalità individuale, sacrificabile eppure pulsante, tanto forte non poter essere cambiata, non abbastanza per non essere mimetizzata, anzi, dimenticata. Un ricettacolo di apparenza che tra i ricami dorati della ricchezza e del progresso scientifico, è dissolvimento della dignità, rinuncia a se stessi, prostituzione dell'individualità. Moneta di cambio: la convenienza sociale, l'adesione all' "educazione della società". Cos'è poi quest' educazione sociale se non un'altra dannosa, nonché priva di significato, difesa del mondo dall' istintualità dell'uomo? Da quella ferinità connaturata così temuta, così stigmatizzata da essere ingabbiata nei dettami comuni?

Di questa società è figlia Nora. Non donna, ma bambola, creatura plasmata prima da un padre, poi da un marito, assuefatta dal fascino ipocrita della società borghese, plagiata da una natura (quella di femmina) non riconosciuta, mezzo per la figliazione, la celebrazione sociale. A questo è consacrata, una marionetta che latita in una casa mediocre, sognante per la promessa di uno stipendio più altro ovvero più prestigio sociale. Eppure le tre dimensioni in cui vive non sono altezza, lunghezza, larghezza, non è uno spazio fisico; sono marito, figli, il "cosa penseranno i vicini" lo spazio in cui vive, la prigione in cui sconta la pena di essere nata donna. Eppure per quanto la vita possa essere il frutto di un piano altrui, per quanto le proprie azioni possano esser propaggini di un'altra mente, rimane l'amore. L'emozione che non si può sopprimere nonostante tutto: sentimento che talora erompe, dettato più dalla disperazione, che dall'autenticità aprioristica, causa di azioni che nemmeno il tempo cancella. E quando il passato torna, quando la tensione fra apparire e consapevolezza di sé diviene insostenibile, quando l'io concepisce se stesso, anche solo per paura, allora la convenienza sociale crolla. L'io si sostituisce al noi, ovvero lo scandalo. Allora Nora capisce ciò che è: non madre, non moglie, ma donna. Eppure comprendere non è accettare, e il finale è solo un silenzio infranto.

Con uno stile secco, limpido, disincantato, Ibsen smaschera l'ipocrisia della società borghese, fotografa con realismo implacabile, amaro, scattante, il mondo a lui contemporaneo, la falsità di una classe sociale viziata dalle buone maniere, dal perbenismo, pronta ad occultare, a nascondere, a fingere pur di salvaguardare se stessa. Il risultato è un ritratto impietoso, che ammicca al femminismo allora emergente, senza però soffermarsi su esso. L'attenzione non gravita sui personaggi, né tantomeno sul contenuto, né sulle emozioni: polo strutturale è il dramma in se stesso, la tragedia che si consuma, inevitabile, fatale. Eppure per un lettore moderno, assediato dalla tragica cronaca quotidiana, sempre più macabra, sempre più scandalosa, infarcito di spot sulla difesa delle donne (non che non siano necessari), non può pienamente percepire le radici della rivoluzione che il libro testimonia. Troppo distante, quasi scontata.

L'attenzione invece è per l'antinomia tra donna e bambola: l'essere umano pretende libertà, la idealizza, la consacra, anzi, la mistifica, eppure ne è annichilito, terrorizzato: annientato dal peso della responsabilità delle proprie azioni. E' per questo che il vero paradiso perduto è l'infanzia: la libertà di non essere responsabili. Ma questo non è la riflessione di Ibsen, non è quella dell'Ottocento. E per evitare di condizionare erroneamente il lettore, anche questa, di riflessione, deve fermarsi qua.

(E' un'opera teatrale, il voto di approfondimento è dettato da semplici necessità di media)

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