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Tutto avvenne in una sola estate...
Edith Wharton è la mia scrittrice preferita, adesso posso dirlo senza alcun dubbio.
Famosa per il romanzo “L’età dell’innocenza”, come spesso succede, tutti gli altri suoi libri, considerati minori - a torto- sono sconosciuti ai più.
Le sue opere sono un concentrato di storie coinvolgenti e di stile letterario impeccabile. Una scrittura cristallina, lineare senza grossi salti temporali, che sa farsi delicata e poetica, ma anche acuta dai pesanti affondi nella psiche, soprattutto quella delle protagoniste femminili che rispecchiano l’animo ribelle ed anticonformista dell’autrice stessa. E, come ne “L’età dell’innocenza”, la protagonista di questo breve romanzo, Charity Royall, emana tutto quello spirito appassionatamente ribelle alle convenzioni, profondamente anticonformista che la porta a scontrarsi con la dura realtà, bigotta e ipocrita, della società dei suoi tempi. Chi non è ipocrita e non vuole sottostare alle leggi della società falsa e ipocrita è esiliato in qualche luogo dimenticato da Dio, la Montagna. Esattamente così, la Montagna, scritta con la maiuscola proprio ad identificare un toponimo, un luogo fisico abitato dagli esuli e dai reietti, dai banditi dall’umano consorzio.
Charity viene proprio dalla Montagna, salvata dalla povertà e dalla miseria della dall’avvocato Royall che la ospita in casa sua nel villaggio di North Dormer. La fanciulla disprezza in cuor suo il tutore e desidera un futuro indipendente al punto da farsi assumere come bibliotecaria nel modesto villaggio in cui vive. L’incontro casuale con il giovane architetto Lucius Harney le permette non solo di uscire dalla solitudine e dalla mediocrità della sua modesta esistenza, ma anche di riflettere ed indagare sulle proprie origini.
La sfrontatezza con cui Charity si mostra in pubblico insieme al giovane per accompagnarlo nelle sue ricerche sugli edifici di North Dormer, la passione che sboccia tra i due al di fuori delle convenzioni scandalizzò la società americana quando il libro venne pubblico nel 1917.
“C’erano altri casi di cui il villaggio era al corrente che avevano avuto conclusioni peggiori, meschine, miserabili, inconfessate. C’erano altre vite che si trascinavano stancamente, senza mutamenti visibili, prigioniere dell’ipocrisia. Ma non erano queste ragioni a trattenerla. Dal giorno prima sapeva con certezza cosa sarebbe accaduto se Harney l’avesse presa tra le braccia: il fondersi delle mani e delle bocche e la lunga fiamma che l’avrebbe divorata dalla testa ai piedi. Ma a questa sensazione se ne mescolavano altre: l’orgoglio un po’ stupito di piacergli, la tenerezza perplessa che il suo interesse aveva risvegliato in lei”.
Tuttavia la ragazza non vuole pensare alle ipocrisie e, nonostante qualche timore di venire additata come “una di quelle”, decide di vivere appieno la sua storia d’amore, dimostrando una ribellione, un modo di imporsi che denotano la diversità delle sue origini. Un libro che è una piccola perla, tiene incollata alle pagine fino al finale. Non rivelo altro, solo che, nonostante l’amarezza che connota sempre le storie d’amore, - questa, tra l’altro, durata una sola estate- della Wharton c’è una luce che scalda, e anche tanto.
Assaggino naturalistico, chi mi conosce sa quanto ami le descrizioni naturalistiche. Trovo che la Wharton con la sua penna non solo suggerisca la visione, ma anche la sensazione: della calda estate il lettore non solo vede le manifestazioni di luce, ma ne sente anche il calore:
“Davanti a lei un ramo di rovo si stagliava contro il cielo, coperto di fragili fiori bianchi e di foglie verde azzurro. spiccava tra i teneri germogli dell’erba e, al di sopra di esso, una farfallina gialla vibrava come una macchia di sole. E tuttavia, oltre a quello che vedeva, Charity percepiva anche il crescere vigoroso dei faggi che coprivano la cima della collina, l’arrotondarsi delle pigne verde pallido su innumerevoli rami d’abete, lo spuntare di migliaia di nuove foglie di felce nelle fenditure del pendio roccioso sotto al bosco e, più in basso ancora, l’infittirsi dei germogli di spirea e di acoro falso nei pascoli. Tutto questo gorgogliare di linfe, rivestirsi di foglie e sbocciare di calici, giungeva fino a lei portato da fragranze diverse. Ogni foglia, gemma e filo d’erba contribuiva con il suo effluvio alla dolcezza dell’aria, in cui l’odore pungente della resina prevaleva sull’aroma speziato del timo e sul profumo sottile della felce, per fondersi poi in un umore terroso simile al respiro di un enorme animale scaldato dal sole”.