Narrativa straniera Classici Fiabe variopinte
 

Fiabe variopinte Fiabe variopinte

Fiabe variopinte

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L'autore definì arlecchinesche le Fiabe variopinte pubblicate nel 1833. Il lettore resta abbagliato da una fantasmagoria di immagini impalpabili, di luci, di colori e viene trascinato nel regno dell'immaginario. Qui gli oggetti vivono di una vita propria: gli animali si assumono il compito di far riflettere gli uomini e gli uomini si spogliano del oro corpo come di un vestito; le teste, i nasi e le pance si mettono al servizio del demonio e le ragazze, come bambole, finiscono sotto campane di vetro e, quando vengono a noia, vengono buttate dalla finestra.



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Fiabe variopinte 2015-09-22 17:00:11 viducoli
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viducoli Opinione inserita da viducoli    22 Settembre, 2015
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Il fantastico come realtà aumentata

Questo bellissimo volumetto della Marsilio, oggi di difficile reperibilità, ci permette di scoprire l’opera di uno dei più importanti rappresentanti del romanticismo russo, Vladimir Odoevskij.
Come detto ampiamente nella bella prefazione di Emilia Magnanini, Odoevskij, pur essendo uno degli autori del primo ottocento che più ha influenzato la letteratura russa posteriore, è poi caduto in una sorta di oblio, da cui – almeno in Italia – non è ancora uscito, se è vero che attualmente nella grande distribuzione è reperibile solo una novella di Odoevskij e che la sua opera più importante, Notti russe, non è mai stata tradotta integralmente in italiano.
Eppure, come detto, Odoevskij non è certo un autore minore nel panorama letterario russo: scrive nella prima metà dell’800, è contemporaneo quindi di Puškin e Gogol’ – e il fatto di doversi confrontare con tali giganti può sicuramente aver rappresentato un limite alla diffusione della sua opera – ed introduce nella letteratura russa – nella quale in quei decenni si stanno innestando le tematiche romantiche – l’elemento fantastico, in particolare nelle Fiabe variopinte. In un ipotetico e forse insensato raffronto tra la letteratura romantica russa e quella tedesca, se Puškin, per la sua ufficialità e la sua universalità poetica, sta a Goethe, allora si può certamente affermare che Odoevskij sta a E. T. A. Hoffmann.
Le Fiabe variopinte sono un ciclo di sette fiabe pubblicato nel 1833, introdotte da un antefatto, e narrate da un personaggio, Irinej Modestovi? Gomozejko, che l’autore utilizzerà anche in altre sue opere.
Non si tratta di fiabe raccolte dalla tradizione popolare e rielaborate letterariamente, come ad esempio le opere dei fratelli Grimm, ma di veri e propri racconti fantastici, nei quali – come giustamente fa osservare Emilia Magnanini nella prefazione, il fantastico ha la funzione, in analogia con Hoffmann, di suggerirci l’esistenza di una realtà altra, diversa e più elevata rispetto a quella quotidiana, i cui cardini non possono essere rivelati se non attraverso l’uso della metafora e dell’inverosimile.
Sempre Magnanini si affanna quasi a negare all’opera di Odoevskij una funzione di critica sociale, o perlomeno a marginalizzare questa funzione rispetto a quella di pura espressione attraverso la forma artistica della concezione filosofica di fondo di Odoevskij, legata all’incompatibilità tra la vita materiale e quella spirituale, al disagio dell’essere spirituale rispetto alla grettezza del vivere quotidiano. Ora, a mio avviso, se è indubbio che la matrice romantico-schellinghiana è quella che informa l’opera di Odoevskij, è altrettanto innegabile che l’espressione poetica concreta cui, almeno nelle Fiabe variopinte tale matrice approda, è quello di un genuino "realismo magico" che – con indubbia analogia rispetto all’opera di Hoffmann – usa il fantastico anche per riportarci solidamente con i piedi sulla terra della società, delle sue grettezze, delle sue convenzioni. Oggi si potrebbe classificare questa modalità espressiva (che innerva come noto una parte consistente della letteratura del XX secolo) come una sorta di "realtà aumentata" ante litteram. Certo, sia nell’opera di Hoffmann sia in quella di Odoevskij molti altri sono i livelli interpretativi cui si può accedere durante la lettura, ma a mio giudizio la riduzione ai minimi termini dell’aspetto critico delle Fiabe variopinte fa parte di una tendenza in qualche modo neoidealista della critica letteraria italiana che pur di validare le proprie ipotesi giunge a negare l’evidenza.
L’elemento di critica sociale che caratterizza le Fiabe variopinte emerge sin dall’antefatto, intitolato L’alambicco, nel quale il protagonista-narratore, trovandosi ad un ballo in società, dove si chiacchiera, si mangia e si gioca a carte, si rende conto a un certo punto che l’intero palazzo è stato rinchiuso in un alambicco da un diavoletto (non un diavolo importante, ma un principiante…) al fine di distillarne il contenuto. Da questa distillazione però ottiene solo '…fuliggine e acqua, acqua e fuliggine, roba da far nausea.' Nulla di utile si può distillare quindi da una società vuota, che vive di riti e di esteriorità. Il primo capitolo di questo antefatto, che ha una forte connotazione teorica, la funzione di creare la cornice entro cui leggere le successive fiabe, è una sorta di manifesto contro la specializzazione della scienza, per il recupero di un rapporto diverso tra l’uomo e la natura rappresentato dall’alchimia.
La prima fiaba vera e propria del ciclo, intitolata Fiaba del cadavere di ignota provenienza, ha accenti quasi Gogoliani (giustamente la prefazione ne fa quasi un’anticipazione de Le anime morte) nel modo in cui vengono descritti l’aridità della burocrazia, la corruzione dei suoi rappresentanti: ciò che la differenzia da Gogol’ è l’introduzione del fantastico come elemento scatenante la vicenda. Emerge appieno a mio avviso in questo breve racconto la funzione del fantastico sopra accennata: alla fine, il lettore non è più in grado di capire se sia più assurdo il fatto che un uomo si sia separato dal proprio corpo o il comportamento delle autorità.
Il racconto successivo è una critica feroce e dolente da un lato allo scientismo antropocentrico, dall’altro alle relazioni di potere che si instaurano tra gli individui, che li spingono a comportamenti estremi. E’ un racconto disperato, nel quale emerge uno degli aspetti peculiari del romanticismo filosofico di Odoevskij, vale a dire la mancanza di soluzione, di eroi positivi in grado di indicare la via d’uscita rispetto alle meschinità e alle restrizioni che caratterizzano i rapporti umani e sociali: è questo un elemento a mio avviso di estrema modernità di Odoevskij, che prelude indubbiamente alla grande letteratura posteriore.
Nel terzo racconto, dall’emblematicamente burocratico titolo 'Fiaba delle ragioni per cui il consigliere collegiale Ivan Bogdanovi? Otnošen’e non riuscì a porgere gli auguri ai superiori nella domenica di Pasqua' gli elementi di critica sociale sono palesemente al centro della narrazione. Il consigliere collegiale e i suoi colleghi non sono uomini: sono ridotti quasi ad automi dal loro ruolo nella società, tanto che anche quando si ritrovano fuori dall’ufficio non fanno altro che comportarsi da automi, sino ad essere in balia delle cose (le carte da gioco), a divenire essi stessi cose. Sembra quasi di poter reperire in questo racconto il concetto di alienazione come verrà sviluppato di lì a pochi anni dal giovane Marx.
'Igoša' è l’unico racconto in cui vengono ripresi elementi della tradizione popolare, sotto forma di uno spiritello dispettoso che semina lo scompiglio in una tranquilla famiglia borghese, introducendovi l’irrazionale che naturalmente gli adulti non saranno in grado di gestire.
'Solo una fiaba' è una metafora dell’ideologia, dell’acritica accettazione di modelli culturali imposti, che non può che portare alla perdita della propria capacità di giudizio. Emerge anche qui la visione disperata di Odoevskij rispetto ad una società che indica falsi miti di progresso (il positivismo borghese) rispetto ai quali non c’è salvezza, il cui potere attrattivo nei confronti degli spiritualmente deboli porta comunque alla distruzione.
Chiudono il ciclo i due racconti più complessi: in realtà si tratta dello stesso racconto, narrato la seconda volta all’incontrario, con un breve intermezzo didattico del narratore. La fiaba della ragazza russa trasformata in bambolina dal negromante occidentale (anche qui quante reminiscenza Hoffmanniane!), che non è più in grado di provare sentimenti veri piacque molto agli slavofili, ma va molto al di là della polemica culturale su base nazionalista: ne è prova il fatto che nella seconda parte la situazione si ribalta, ed è la fanciulla, rinsavita, a cercare di instillare l’amore per le cose belle e vere in Kivakel’, semiautoma metafora della mentalità dell’uomo russo medio. L’ironia che pervade il racconto (al proposito consiglio di leggere attentamente le note sull’ironia nella prefazione) in ogni pagina, a cominciare dall’irresistibile corteo delle fanciulle scortate dalle madri lungo i viali di San Piteroburgo, e il suo stesso svolgimento – capovolgimento ne fanno ancora una volta un esempio mirabile della disperazione di Odoevskij rispetto alla possibilità di un riscatto culturale della società russa, sia che provenisse da modelli occidentali sia che affondasse le radici in una pretesa arcaicità slava.
Questa disperazione diverrà manifesta pochi anni dopo, quando Odoevskij deciderà di abbandonare la letteratura, probabilmente percepita ormai come strumento inutile rispetto all’immutabilità della situazione sociale russa: si dedicherà a studi giuridici e ad opere di bene, avendoci lasciato un patrimonio letterario tutto da scoprire, che tuttavia la sempre più provinciale editoria italiana si ostina pervicacemente a nasconderci.

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E. T. A. Hoffmann
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