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L'ultimo giorno di un condannato a morte
 
L'ultimo giorno di un condannato a morte 2015-02-25 11:35:33 Aurora_
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Aurora_ Opinione inserita da Aurora_    25 Febbraio, 2015
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L'Uomo e la Morte

“L’ultimo giorno di un condannato a morte” è la prima opera che abbia mai letto di Victor Hugo. Il breve romanzo è straziante, angosciante e crudele. Con grandi abilità, Hugo riesce a trasmettere le sensazioni di un condannato a morte nelle sue ultime settimane di vita. Allora, come in un cinema d’epoca, nella mente del condannato si alternano le più svariate riflessioni, accentuate dal racconto in prima persona, che rende i suoi sentimenti ancora più vividi e percepibili. Non si conosce il nome dell’uomo, non si sa con precisione il delitto che ha commesso e nemmeno si hanno grandi informazioni sulla sua esistenza. Tutto ha inizio in una cella; in questa cella, l’uomo decide di scrivere il resoconto degli ultimi attimi della sua vita, con la speranza che quest’opera venga conservata e trasmessa alla figlia, che se ne possa servire per commuoversi e ricordare l’ultimo giorno di vita del padre, e ai giudici, agli avvocati, ai giuristi che possano riconoscere, leggendo queste pagine, la crudele sofferenza cui sottopongono un uomo condannandolo a morte. “Condannato a morte! Sono cinque settimane che abito con questo pensiero, sempre solo con lui, sempre agghiacciato dalla sua presenza, sempre curvo sotto il suo peso!”, questo l’incipit del romanzo. Perché un uomo condannato a morte non sente altro che il peso della morte stessa sempre premere sulle sue spalle, non vede altro che la morte e la prigionia in ogni figura od essere che lo circondi. Un condannato a morte non sembra altro che aver accettato il suo destino ma così, in realtà, non è. L’uomo, finché non ha la morte di fronte a sé, sembra viverla come un qualcosa di così lontano, un qualcosa che non gli appartiene, localizzato a milioni di anni luce da lui. La morte è il finale comune della vita di tutti gli uomini, la tenera culla cui tutti, chi prima chi poi, siamo destinati. Eppure pare così lontana da noi, come un cattivo pensiero che non fa altro che procurarci noia , che tentiamo di scacciare. Questo è quello che fa il protagonista, fino al momento della sua condanna. Egli vede la sua morte come un qualcosa di terribilmente lontano, quasi come se fosse un’epoca antica che non gli appartiene e osa perfino concludere: “lavori forzati?! Meglio la morte!”. Ovviamente, come si suol dire, “la speranza è l’ultima a morire” ed è proprio questa che accompagna il protagonista fino ai suoi ultimi momenti. La speranza di ottenere la grazia dal Re, la speranza di riuscire a fuggire, la speranza di poter veder crescere la figlia e amare la moglie. Una speranza che diviene pesante, insistente, che si fa sentire e non si può far altro che provare pena, pietà e commiserazione per quest’uomo costretto alla morte che spera, in un barlume di lucida follia, di poter sfuggire al suo destino. A rendere il quadro ancor più terribile e straziante, è l’incapacità di chiunque di comprendere la sua sofferenza, di compatirlo e di consolarlo. Le persone attorno a lui, ormai, non lo concepiscono più come un uomo, bensì come un oggetto e non riescono nemmeno a riconoscere in lui emozioni ed umanità. Che questo forse sia dovuto al fatto che l’umanità tutta, e non solo il nostro protagonista, concepisca la morte come un qualcosa di così lontano, come un’immagine sfocata e irraggiungibile? La morte non ci appartiene, la morte è qualcosa di sfuggente, che non è sotto il nostro controllo, che ci procura ansia e terrore. E come potremo noi, esseri umani abituati ad avere ogni cosa sotto il nostro controllo, fuggire da questa sofferenza? Da un lato, sicuramente, percependola come un qualcosa che non ci appartiene, che non fa parte delle nostre vite e che “si, capita a tutti. Ma a me no!”. Dall’altro lato, il potere di decidere della vita di qualcuno, di poter condannare a morte un essere umano ci fa sentire forti, capaci di controllare questo essere così sfuggente che tanto ci terrorizza. Ci permette, quindi, di recuperare la nostra convinzione di un totale controllo, di un perfetto ordine. Ma è davvero così sbagliato il negare che la morte possa mai portarmi via con sé, il vivere come se potessi vivere per l’eternità? A voi le conclusioni e, come sempre, vi auguro una buona lettura!

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Ottima e attenta recensione. Di Hugo ho letto i suoi famosi classici ("I miserabili" e "Notre Dame de Paris") e quest'opera mi manca; le riflessioni che proponi sono considerevoli. Tutti dalla nascita siamo "condannati" a morte dal fato e/o dalla casualità dovuta a vicissitudini scelte o imposte. Ma sapere quando arriverà la nostra ora per decisione di un nostro simile, diventa, allora, una specie di smania che fa vivere intensamente i giorni e gli istanti prima dell'esecuzione. Un tema che andrebbe ampiamente affrontato e approfondito in altra sede. Grazie. Ciao.
Ferruccio
In risposta ad un precedente commento
Aurora_
25 Febbraio, 2015
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Grazie mille del tuo commento! Sono contenta ti piacciano le mie riflessioni. Davvero interessante la tua interpretazione sulle sensazioni che si provano quando il nostro destino è in mano di altri. Non ci avevo minimamente pensato, perciò ti ringrazio del tuo contributo. Si, indubbiamente sono tematiche che meriterebbero un ulteriore approfondimento. Di per sé, il libro offriva una miriade di spunti di riflessione; purtroppo, per esigenze di spazio, ho dovuto focalizzarmi sugli aspetti che ritenevo più salienti. A presto!
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