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Flatlandia
 
Flatlandia 2016-04-23 10:06:09 lapis
Voto medio 
 
4.0
Stile 
 
3.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
4.0
lapis Opinione inserita da lapis    23 Aprile, 2016
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Questo mondo. Altri mondi.

Geometria e immaginazione sembrano due elementi distanti, addirittura inconciliabili, invece Edwin A. Abbott nel 1882 li ha ingegnosamente fusi per dare vita a questo libro, davvero difficile da commentare perché sfugge a ogni definizione. Favola matematica? Satira sociale? Rivelazione intellettuale? Sicuramente, ma forse anche di più.

Nella prima parte veniamo introdotti ai principi e ai costumi di “Flatlandia”, una terra bidimensionale in cui figure geometriche piane si muovono orizzontalmente su una vasta superficie che costituisce tutto il loro mondo. Il protagonista, un quadrato, ci racconta così del clima del luogo, dei metodi di riconoscimento degli abitanti, della storica rivoluzione del colore repressa nella violenza, della gerarchia sociale governata dal principio di regolarità e dal numero dei lati. Operai e militari sono triangoli isosceli dagli angoli aguzzi, stolti e pericolosi, i commercianti triangoli equilateri, i gentiluomini quadrati e così via, a salire, fino alla classe ecclesiastica, i circoli, figure delle quali non è nemmeno più possibile enumerare i lati. Le donne? Miseri segmenti, stupide e micidiali. Sebbene stilisticamente didascalico, non si può non apprezzare la coerenza dell’invenzione allucinatoria, l’arguzia del gioco intellettuale e, soprattutto, la satira provocatoria di una società classista, animata da una ferocia ottusa e a tratti quasi demenziale.

Ma è nella seconda parte che il libro si rivela davvero sorprendente e quasi visionario. Il quadrato scopre che il mondo in cui ha sempre vissuto e che credeva l’unico possibile, in realtà, è solo una parte, una sezione, di qualcosa di più ampio che i suoi strumenti percettivi gli hanno sempre impedito di vedere: lo spazio a tre dimensioni. E nel rendersi conto della propria cecità viene a conoscere il re del mondo lineare e il punto, unico nel suo universo adimensionale. Tutti accumunati dalla convinzione di conoscere la verità e dall’incapacità di vedere oltre la propria esperienza. Tutti soddisfatti e felici, nella propria ignoranza.

E se fossimo anche noi dei solidi ottusi, abituati a credere nell’unicità del nostro mondo tridimensionale e incapaci di andare al di là delle nostre intuizioni immediate? E se si potesse quantomeno ipotizzare l’esistenza di altre dimensioni, inconcepibili con i sensi e con la ragione, attraverso cui vedere la limitatezza della nostra realtà? Certo questa invenzione fantasiosa ha un sapore speciale per il lettore moderno, alla luce della relatività di Einstein, ma lo spessore di queste domande non si esaurisce, a mio avviso, nell’ambito dell’intuizione scientifica. E’ un invito ad aprire la nostra mente oltre i confini delle percezioni, nelle sfere dell’assurdo, per capire quanto i pregiudizi e l’ottusità delle regole che crediamo assolute ci impediscano di aspirare a qualcosa di diverso, forse migliore.

Un libro originale e sicuramente consigliato perché immaginare e interrogarsi è già di per sé un arricchimento.

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Commenti

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Ho letto con interesse il tuo commento, ripensando alle teste composte dell'Arcimboldi, ritratti o natura morta (alcuni, infatti, si possono osservare anche capovolti). Per articolare un discorso allegorico, e metaforico, occorre sempre un grande coraggio. Ne ha avuto Arcimboldi in pittura, nel Cinquecento; senz'altro doveva averne Abbott, per scrivere questo libro nel 1882.
In risposta ad un precedente commento
lapis
25 Aprile, 2016
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Grazie Giulio, per l'interessante spunto!
Hai ragione, serve davvero coraggio e fantasia per risucire a trasmettere, nella coerenza della propria illusione metaforica, un messaggio capace di attraversare i secoli. E, in questo caso, anche la scienza.
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