Il processo Il processo

Il processo

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Questa opera può essere intesa come emblema della condizione umana segnata dall'angoscia e dalla solitudine, oppressa da potenze misteriose e imperscrutabili. Nella traduzione di un autore particolarmente congeniale.



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Il processo 2020-02-07 18:00:31 antonelladimartino
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antonelladimartino Opinione inserita da antonelladimartino    07 Febbraio, 2020
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Qualcuno doveva aver calunniato Josef K.

IL PROCESSO di Franz Kafka è un breve interminabile incubo, narrato con l’eleganza affilata di un coltello da macellaio.

Il paradosso della colpa inevitabile è narrato in luoghi quotidiani, trasfigurati da un doppiofondo metafisico. I personaggi, descritti con minuzia surreale, ricordano gli alieni della porta accanto. I dialoghi palleggiano con grazia l’assurdo, scorticando la superficie razionale della realtà: la stessa che sembra appartenerci, la stessa che sembra ancorata alla solidità ingannevole della materia.

Il ritmo narrativo è lento, ma incalza il lettore fin dall’incipit, come il processo che invade la vita di Josef K. in poco tempo. Il tribunale, con i suoi locali saturi di aria poco respirabile, allunga i suoi tentacoli ovunque, vicino alle case, nelle soffitte, dietro i letti, nascosto da porte improbabili.

La legge è umana, divina, onnipresente, eterna. La legge è un ingranaggio di significati inafferrabili dalle parole, un mostro che ingombra, soffoca e uccide. Le nostre parole si perdono in circoli viziosi senza ritorno, quando tentano di esprimerla. Un’unica certezza: l’assoluzione reale è impossibile, soprattutto se si è innocenti. Al massimo, si possono ottenere dei simulacri. Povero Josef K. Poveri noi.

Una delle opere più angoscianti che mi sia capitato di leggere. Una delle migliori.

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Il processo 2019-10-12 22:00:51 cristiano75
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cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    13 Ottobre, 2019
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Agonia parte terza

Agonia parte prima: l'America
Agonia parte seconda: il Castello
Agonia parte terza: il Processo

La triologia di Kafka sull'ineluttabile destino dell'uomo stritolato dal sistema comprende queste letture: il processo, il castello e l'America.
Il processo è forse quello leggermente più scorrevole dei tre tomi.
Ma a mio avviso per leggere Kafka, bisogna armarsi di una pazienza e una forza di animo che scoraggerebbero anche il lettore più cocciuto.
L'autore vuole con il processo, tirare un atto di accusa contro ogni sistema burocratico e legislativo, dove in una selva di articoli, leggi, processi, contro processi, appelli si entra in un meccanismo perverso e totalmente assurdo, dove le parti in causa finiscono alla fine per soccombore o meglio ancora finiscono quasi alla soglia della follia.
In questa opera, ci viene messo sotto il naso, un meccanismo legislativo che vede il cittadino come un semplice spettatore di una commedia tragicomica il cui finale sembra non arrivare mai.
E' una macchina infernale che una volta messa in atto pare non abbia più un sistema di arresto.
Il protagonista, suo malgrado, sarà costretto a far fronte a una serie di norme, leggi, personaggi che sembrano come organizzati in modo tale da creare un girone dantesco dove non vi è la fine di uscita e dove ogni persona dovrebbe guardarsi bene dal caderci dentro.
Per Kafka, secondo me, la società non da scampo alle persone.
E' sicuramente un autore molto negativo. Dai diversi testi che ho letto di lui, non ho mai trovato un clima sereno e disteso nei vari racconti. Ogni romanzo è come un lento inesorabile precipitare verso la disperazione dei personaggi che ne sono i protagonisti.
Egli è un realista, poichè sa bene che la società così come è strutturata è atta a reprimere il singolo, per potersi preservare, assicurare il potere a una ristrettissima elité, alla faccia della tanto paventata democrazia e che la legge è uguale per tutti.....

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Il processo 2019-06-09 09:35:15 cesare giardini
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cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    09 Giugno, 2019
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La rassegnazione di fronte alla Legge.

Con “Il castello”, è una delle opere più significative dello scrittore di Praga, uno dei capolavori del primo Novecento pubblicato nel 1925 da Max Brod, contro la volontà dell’autore che voleva distruggere il manoscritto. Sono dieci capitoli, che la Libraria Editrice s.r.l. ha pubblicato nel 2018 in una Collana dedicata ai Classici, aggiungendovi sei capitoli incompiuti. Il lavoro è del 1914/15 e, come noto, è stato ed è oggetto di svariate interpretazioni, tante sono le chiavi di lettura che i critici letterari hanno voluto usare per leggere tra le righe qualcosa che forse Kafka aveva intuito o solo percepito, pur senza esplicitare i veri nodi delle critiche che in cuor suo voleva manifestare nei confronti del sistema giudiziario in primis, dei rapporti umani e della vita più in generale. E’ la storia, sospesa tra realtà e immaginazione, di un impiegato di banca, Joseph K., al quale improvvisamente viene notificato un mandato di arresto per gravi colpe mai chiarite e mai commesse. Il malcapitato si trova coinvolto in un processo assurdo e inesplicabile, si rifiuta di accettare la propria sorte, crede fermamente in un errore giudiziario pur restando invischiato in una ragnatela di situazioni e incontri – scontri con una burocrazia cieca e complessa, popolata da personaggi surreali e sfuggenti. Lo stile narrativo è freddo e disadorno, a tratti delirante e astratto, quasi avulso dalla realtà degli accadimenti. La legge segue il suo corso, inesorabile e complessa: il poveretto alla fine verrà giustiziato, mormorando “Come un cane!” (e fu “ come se la vergogna gli dovesse sopravvivere”!). Il romanzo, che ebbe una versione cinematografica ed un famoso sceneggiato televisivo nel 1978, si presta a interpretazioni svariate. Oltre alla più comune, vale a dire una critica feroce e scontata contro la “giustizia”, troppe volte caratterizzata da meccanismi imprevedibili e tragici che escludono rapporti di fiducia e che rendono inutile qualsiasi tentativo di difesa, altre possono essere le chiavi di lettura. Vi si può, a mio parere, intuire un latente senso di colpa, aggravato dalla solitudine e dall’impotenza ineluttabile di fronte agli ingranaggi inarrestabili di leggi preconfezionate o addirittura di un mondo che non ascolta e soprattutto non perdona. Un individuo solo contro tutti, che sembra, alla fine di un calvario, accettare la condanna e la morte come una desiderata liberazione. Illuminante il capitolo VII, che disquisisce su vari tipi di assoluzione: la “vera”, quasi mai comminata, quella “apparente”, che protrae le inchieste all’infinito, il “rinvio”, che consiste in un basso profilo delle procedure che mai si concludono. Una sorta di intrighi, degni dell’Azzeccagarbugli manzoniano. Un’altra chiave di lettura può leggersi nel capitolo IX: la predica, con “voce possente ed esercitata”, di un prete dal pulpito del Duomo della città, rivolta esclusivamente a Joseph K. ivi recatosi per incontrare un cliente della banca, si traduce alla fine in colloquio, apparentemente oscuro, nel quale il predicatore, sedicente cappellano del tribunale, cita ripetutamente una imperscrutabile Legge il cui accesso è proibito all’uomo da una sola persona, un fantomatico Guardiano. “ Il tribunale non vuole niente da te. Ti accetta quando vieni, ti lascia andare quando vai”. Una metafora della vita, indifferente alle umane vicissitudini, un fluire lento, inutile lottare o cercare di capire.
I personaggi del romanzo, almeno alcuni, sembrano simboli irreali: l’ispettore del tribunale, i colleghi di Joseph K., il giudice istruttore, Karl, lo zio del protagonista, l’avvocato Huld, perennemente malato, inconcludente nel procedimento giudiziario, il vicedirettore della banca che s’approfitta delle difficoltà di Joseph K., cercando di trarne vantaggi, il pittore Titorelli, strana e ambigua figura di ritrattista , e poi le donne, sfuggenti, la signora Grubach, affittacamere, la signorina Burstener, le tre monelle del pittore, e soprattutto Leni, infermiera e domestica dell’avvocato Huld, dolce e compiacente, civettuola quanto basta per tingere di leggerezza e di sensualità una trama narrativa altrimenti cupa e angosciante. E sono proprio i personaggi simbolici a suggerire una nuova interpretazione del romanzo, inteso come paradossale visione onirica, un lungo, snervante sogno di un individuo tormentato, rassegnato di fronte all’incombere di un destino già scritto.

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" Il castello" di Franz Kafka.
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Il processo 2018-10-12 08:35:43 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    12 Ottobre, 2018
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LA COLPA E' SEMPRE FUORI DISCUSSIONE

“Il principio… è questo: la colpevolezza è sempre fuori discussione.” (Franz Kafka, “La colonia penale”)

Quante volte abbiamo usato o udito usare, più o meno a proposito, il termine “kafkiano”, ad indicare una situazione angosciosa ed inquietante alla quale l’uomo, a dispetto dei suoi disparati tentativi, non riesce a dare una spiegazione logica e razionale? Molte volte, senza dubbio. Il termine “kafkiano” è infatti entrato di diritto nel linguaggio comune, assumendo per l’uomo contemporaneo una potenza evocativa ed una connotazione emozionale altrimenti irriproducibili. A partire dalla sua morte, l’importanza di Franz Kafka nella cultura contemporanea è andata crescendo sempre di più, fino a raggiungere nel secondo dopoguerra una universale e definitiva consacrazione. La ragione principale di questo successo risiede a mio avviso nel fatto che i temi portanti delle opere dello scrittore boemo sono diventati paradigmi sorprendentemente attuali della profonda crisi spirituale dell’uomo moderno. In un mondo dilaniato da isterismi e da rigurgiti di barbarie, straziato dall’affannosa ricerca di nuovi valori in grado di sostituire quelli vecchi ormai giunti al tramonto, caratterizzato dall’irrazionalismo, dall’insofferenza verso le istituzioni e dall’incapacità di comunicare con il prossimo, l’emblematica ed anticipatrice sfiducia di Kafka nell’Illuminismo e nel principio della ragione umana come saldo potere di composizione e di superamento delle contraddizioni dell’essere ci appare sempre più come la tragica e consapevole visione di un geniale profeta.
Della produzione letteraria di Kafka, “Il processo” è sicuramente l’opera più famosa ed emblematica. Il suo famoso incipit (“Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato”) getta subito il lettore in medias res, smorzando già sul nascere lo stupore e rendendo non più realizzabile il ritorno alla normalità. Né i capi di accusa (“Non le posso nemmeno dire che lei è accusato – afferma l’ispettore che conduce l’interrogatorio preliminare – o meglio, non so se lo sia. Lei è arrestato, questo è vero, ma non so altro”) né l’autorità che ha ordinato l’arresto vengono rivelati al protagonista, e l’intero romanzo in fondo altro non racconta se non i suoi strenui, inesausti ma pateticamente vani tentativi di venire a capo dell’imputazione mossagli dall’enigmatico tribunale. La Legge kafkiana non ha bisogno di ascrivere una colpa specifica ai suoi imputati, di accusarli di avere infranto questo o quel precetto: la colpa è completamente inconoscibile e immotivata. Nel tentativo, che noi intuiamo essere già fallito in partenza, di difendersi dall’imperscrutabile Tribunale, Josef K. è costretto a doversi difendere fino all’ultimo istante della propria vita. “Se sono condannato – si legge nei “Diari” – non sono condannato soltanto a morire, ma anche condannato a difendermi sino alla fine”. E’ questo, secondo me, il significato più profondo de “Il processo”, ed è illuminante analizzare in questa ottica la vicenda umana di Josef K. Egli inizialmente sottovaluta gli eventi, o meglio è convinto di poterli dominare agevolmente con la ragione: “Quando uno è al mondo da trent’anni e ha dovuto destreggiarsi da solo come è capitato a me – dice K. all’ispettore subito dopo l’arresto – è avvezzo alle sorprese e non le piglia troppo sul serio… D’altro canto però la cosa non può essere molto importante. Lo deduco dal fatto che sono accusato, ma non riesco a trovare la minima colpa della quale mi si possa accusare”. Ciononostante, il germe del processo, prima latente manifestazione di un dirompente complesso di colpa, si è irrimediabilmente insinuato nel suo animo. Egli ad esempio vorrebbe ristabilire l’ordine nell’appartamento della signora Grubach illudendosi che, con l’eliminazione di ogni traccia degli incidenti del mattino, l’esistenza possa riprendere il regolare andamento di prima; oppure pretende di esorcizzare l’idea dell’arresto e metterne in risalto l’inconcretezza semplicemente parlando della sua avventura con le persone della pensione. Josef K. in realtà non accetta la rivelazione dell’irrazionale di cui ha avuto improvvisa nozione ed è costituzionalmente incapace di stare al gioco paradossale del Tribunale. Di fronte alla grottesca sceneggiata del primo interrogatorio, K. volta le spalle e fugge via, ma la settimana successiva è di nuovo là, ad aggirarsi inquieto intorno alla sala delle udienze. Nel corso della visita alle cancellerie, K. dà un’ulteriore prova del suo rifiuto di sottomettersi alla logica del processo. Nella squallida sala d’aspetto, egli ha l’occasione di incontrare numerosi imputati seduti in paziente attesa di ricevere notizie della loro causa. Benché tutti appartengano chiaramente ad un ceto elevato, il loro aspetto è arrendevole e dimesso, evidentemente per le molte umiliazioni ricevute. Josef K. prova un fiero disprezzo per quegli uomini rassegnati ed acquiescenti e, non nascondendo la sua aria di sprezzante superiorità, giunge perfino a schernirli e maltrattarli. Ma quando, oppresso dall’aria soffocante e insopportabile delle cancellerie, K. è costretto a trascinarsi penosamente all’uscita sorretto da due persone, la situazione si capovolge: agli occhi degli stessi imputati si presenta ora un uomo profondamente cambiato, prostrato e mortificato, oggetto per giunta del sarcasmo dei suoi soccorritori. In queste pagine il simbolismo di Kafka assurge a livelli di straordinaria efficacia. I luoghi in cui regna la Legge appaiono come luoghi claustrofobici, mefitici e irrespirabili. La Legge vizia l’aria della vita, distrugge la libertà e la freschezza dell’universo, soffoca l’uomo e gli impedisce di respirare liberamente. Non appena K. raggiunge l’uscita, “ecco arrivargli, come se la parete davanti a lui si fosse squarciata, una corrente d’aria fresca”; il malessere scompare all’improvviso e, mentre le forze ritornano miracolosamente in lui, K. si allontana di corsa per le scale. Ma ormai il cerchio del processo si è stretto inesorabilmente intorno a lui e lo ha catturato. Josef K. non può più vivere che in funzione del processo e tutto, dal lavoro in banca agli svaghi, deve essere sacrificato alla sua difesa. “Il disprezzo che prima aveva provato per il processo non contava più… Egli non era quasi più in grado di scegliere se accettarlo o respingerlo, ormai c’era dentro e doveva difendersi. Se era stanco, peggio per lui”. La spavalda sicurezza iniziale di K. ha sortito il solo effetto di rendere più dolorosa ed umiliante la sua sconfitta. Perduta con il passare del tempo la fede nel naturale emergere della propria innocenza e diventato egli stesso un patetico personaggio al pari di quegli imputati verso i quali provava prima tanto disprezzo.
“Il processo” è, secondo la definizione di Carlo Sgorlon, una vera e propria “proiezione scenografica di un ancestrale complesso di colpa”. Nessun ragionamento è in grado di eliminare il senso originario della colpa: esso cresce, si diffonde, diventa sempre più grande e insopportabile fino ad annientare totalmente la coscienza. Pur essendo formalmente libero e desideroso di dimenticare l’esperienza del processo, Josef K. è come se fosse rinchiuso tra le sbarre di una prigione come l’ultimo dei carcerati. La cupa ombra del sospetto non lo abbandona neppure per un istante, mentre tutte le persone con cui si imbatte casualmente per strada, dal ragazzo incontrato nell’androne di casa ai tre scialbi impiegati di banca che hanno assistito in disparte alla scena iniziale dell’arresto, sono inconsciamente messe in relazione con il processo, quasi fossero anonime pedine dell’organizzazione incaricate di tenerlo sotto controllo. D’altra parte, il suo comprensibile desiderio di riserbo e di discrezione è vanificato dal fatto che tutti intorno a K. sono a conoscenza del processo, anzi sembrano per una ragione misteriosa saperne molto più di lui. Quando, nell’ufficio della banca, l’industriale lo interpella a bruciapelo sull’andamento del processo, confessandogli poi di ricevere spesso qualche notizia dal Tribunale, Josef K. commenta sconsolato tra sé: “Quanta gente ha rapporti col Tribunale!”. Il pittore Titorelli, ambiguamente immischiato nel mondo dei giudici e delle cancellerie, glielo conferma più tardi quando, fra lo scherzo e la spiegazione, gli confida: “Tutto fa parte del Tribunale”. Al senso di colpa non si può quindi sfuggire. Siccome esso proviene da un’autorità superiore e inappellabile non si può fare altro che accettarlo remissivamente. Ne “La colonia penale”, che ho citato all’inizio, Kafka aveva affermato che per l’Essere giudicante la colpa è sempre fuori discussione: ora ne “Il processo” questa consapevolezza si è propagata come un cancro nell’animo dell’uomo, annientandolo.
Insieme alla paura di aver violato la Legge, vi è talvolta nei personaggi kafkiani l’atroce sospetto di avere commesso un errore iniziale che possa vanificare tutti i loro sforzi, il dubbio di avere imboccato fin dal principio una strada sbagliata. La stessa decisione di K. di scrivere una comparsa difensiva in grado di rievocare tutti i fatti della propria vita non è altro che lo sforzo disperato di scoprire un qualsiasi indizio in grado di rimandare ad una colpa sconosciuta. La ricerca di questa colpa diventa per l’uomo una questione vitale, perché solo trovandola egli riuscirebbe a giustificare razionalmente la sua incapacità di raggiungere la rivelazione. Kafka avverte però nel racconto “I patrocinatori” che non c’è più il tempo di voltarsi indietro: “Il tempo che ti è assegnato è così breve che se perdi un secondo, hai già perduto tutta la vita, perché non dura di più, dura solo quanto il tempo che perdi. Se dunque hai imboccato una via, prosegui per quella in qualunque circostanza, non puoi che guadagnare, non corri alcun pericolo, alla fine forse precipiterai, ma se ti fossi voltato indietro fin dopo i primi passi e fossi sceso giù per la scala, saresti precipitato fin da principio, e non forse, ma certissimamente”. Novello Sisifo, l’uomo di Kafka è così costretto ad andare sempre più avanti, facendo rotolare il greve peso della sua colpa.
La filosofia di Kafka può essere anche sintetizzata, a mio avviso, come la tragedia della ragione che, pur sognando di sollevarsi dal relativo, non riesce, per quanti sforzi essa faccia, a raggiungere l’Assoluto. “Il processo” è infatti senza dubbio centrato sul problema della colpa e della punizione, ma può allo stesso tempo essere letto come una disperata ricerca di Dio da parte dell’individuo. In questa prometeica scalata all’Olimpo, Josef K. è completamente solo. Non voglio riferirmi qui alla solitudine intesa come impossibilità di intrattenere rapporti umani, bensì alla solitudine metafisica che prova colui che, dopo aver abbandonato il consesso degli uomini, si incammina senza conoscere la meta lungo l’impervio sentiero della conoscenza eterna, a quella cioè, narrata dal cappellano del duomo nella parabola “Davanti alla legge”, dell’uomo di campagna che si presenta davanti alla porta della Legge. E’ significativo che, nel finale della leggenda, il guardiano dica al contadino, proiezione simbolica dell’imputato del romanzo: “Questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo”. Parimenti, in una sorta di simmetrica apertura di parentesi, quando K. si reca al primo interrogatorio, la donna che lo invita a entrare nella grottesca aula del tribunale gli sussurra: “Dopo di lei devo chiudere, nessun altro potrà più entrare”. In questo solitario tentativo di giungere fino al giudice supremo, Josef K. tocca con mano la terribile lontananza della sfera umana da quella divina, distanza che è materializzata nel romanzo dalla elefantiaca e labirintica burocrazia, nella cui enigmatica sfera i valori sono costantemente sovvertiti e l’assurdo diventa la normalità.
Pur dedicando tutta la sua vita al tentativo di venire a capo dell’imputazione mossagli dall’enigmatico tribunale, Josef K. morirà senza riuscire a conoscere la colpa commessa. Una mattina due uomini si presentano alla porta della sua camera e, senza che venga opposta da parte sua alcuna resistenza, lo conducono ad una cava di pietra, dove uno dei due lo uccide brutalmente colpendolo al cuore con un coltello da macellaio. L’ultimo disperato pensiero di Josef K. prima dell’esecuzione è l’impressione che la vergogna sia destinata a sopravvivergli. La morte “come un cane” di Josef K. è uno straziante grido di dolore levato al cielo, che oppone fino all’ultimo la sua glaciale incomprensibilità a chi gli chiede soccorso. La malvagità del fantomatico dio kafkiano raggiunge qui il suo culmine e fa riecheggiare le presaghe parole che Josef K. aveva pronunciato a Titorelli: “Un unico giustiziere potrebbe sostituire l’intero tribunale”. L’iniquità divina è per Kafka assoluta e indubitabile, e all’uomo non resta che sperimentare fino all’estremo istante sulla propria pelle l’estenuante assurdità del mondo.

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"Il castello" di Franz Kafka
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Il processo 2017-02-12 12:07:46 Valerio91
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Valerio91 Opinione inserita da Valerio91    12 Febbraio, 2017
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Smarrimento

Questo testo entra di diritto nella lista di quelli più controversi che ho mai letto.
Kafka imbastisce una storia che fa dell'assurdo la sua materia principale: rende tutto inafferrabile, strano e mai comprensibile del tutto.
Eppure, sembra chiaro al lettore quanto questo sia voluto dall'autore, che fosse consapevole di stare lì a produrre una storia che provocherà un senso di profondo smarrimento. Ci ritroveremo a camminare nell'incubo kafkiano nella sua accezione più pura.

Josef K. si sveglia in una mattina che dovrebbe essere come tante altre, ma che in realtà lo trova incomprensibilmente sotto arresto. Non si sa quale sia l'accusa né chi lo abbia denunciato, gli unici fatti constatabili sono il suo arresto e le guardie fuori dalla porta. Eppure, quello di K. sarà un arresto che gli permetterà di essere libero per tutta la durata del suo misterioso processo.
Accompagneremo Josef nel seguito del suo processo: gli ambienti si faranno sempre più cupi, asfissianti e claustrofobici, definendo sempre più il senso di impotenza del protagonista, che cerca disperatamente di capire come venirne fuori vittorioso, pur essendo all'oscuro delle sue colpe e non conoscendo nulla del Tribunale che dovrebbe giudicarlo.
E lungo questo viaggio, come se la passa il lettore? Anche lui è spiazzato come il protagonista, anche se per altri motivi. Molte delle vicende sono confuse, poco chiare, e il lettore (in questo caso io) tenta invano di trovare un senso ai fatti narrati. A tratti, ci sembra assurdo quanto il protagonista sembri NON VOLERNE sapere di più, considerando che non fa mai domande esplicite riguardo a ciò di cui è accusato. E se il fine di Kafka fosse stato fargli sperimentare lo stesso senso di smarrimento che prova il protagonista?
In quel caso, ci sarebbe riuscito alla grande.
Insomma, non avete capito se mi è piaciuto o meno? Bene, vorrà dire che sarò stato Kafkiano proprio come volevo.

"Le donne hanno molto potere. Se riuscissi a muovere certe donne che conosco ad operare di comune accordo a mio favore, dovrei spuntarla. Tanto più con questo tribunale composto quasi soltanto da donnaioli. Mostra al giudice istruttore una donna da lontano, e per arrivare a tempo lui travolgerà il banco e l'imputato."

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Il processo 2016-11-25 21:05:53 annamariafabbian
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annamariafabbian Opinione inserita da annamariafabbian    25 Novembre, 2016
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Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie

Lo scorso Natale, per mano di un caro amico, ho ricevuto il volume. Copertina morbida, spessore non troppo spaventoso. E sì, lo ammetto - ahimè - non avevo mai letto "Il processo" di Kafka.
Onirico, lo definirei. Siamo immersi nel surreale grottesco di una realtà inesistente. Eppure tutto è reale: gli odori così descritti ci sembrano attraversarci il naso, le sensazioni sono così reali che siano lì mentre il protagonista tocca la pelle morbida e calda di Leni. Siamo lì ad aspettare e temere in questa Marienbad fatta di solai polverosi. L'afa ci fa sudare le tempie mentre siamo seduti sul letto del pittore.
Il mondo del pensiero e dei vortici mentali supera di gran lunga i fatto che realmente accadono.
È davvero successo quello che fin dall'inizio sembra sia stato raccontato? Oppure nulla è possibile? Siamo intrappolati nella rete immortale dell'isolamento? Quale sfida si combatte tra l'irrazionale e il razionale?
Da leggere. Lo stile può a volte risultare difficoltoso, ma non può mancare Kafka nella nostra libreria.

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Il processo 2016-11-03 17:11:50 Nuni83
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Nuni83 Opinione inserita da Nuni83    03 Novembre, 2016
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Una lettura grigia e polverosa

Ho appena terminato questo classico della letteratura. Lo stile è scorrevole anche se il libro in molti punti è noioso. Le situazioni sono ovviamente assurde ma c'è qualcosa in questo romanzo che proprio non mi ha convinta. Sono sempre a disagio quando un testo di questa portata in qualche modo mi delude, ho sempre come il dubbio di non averlo capito fino in fondo.
Sarà che "Il Processo" è un'opera postuma e in qualche modo incompiuta ma ho trovato troppa superficialità in questo romanzo. Secondo la mia modesta opinione i personaggi sono appena accennati, le decisioni maturano in modo che non pare sentito, il finale sembra troncare una storia che ancora non è realmente iniziata.
Nulla da eccepire per quel che concerne la scrittura di Kafka, nonostante alcune pagine di narrazione a dir poco lenta, il testo si lascia leggere agevolmente e trasmette al lettore la sensazione di inadeguatezza al cospetto della legge, nonchè inadeguatezza della legge nei confronti dell'uomo. Tutta la storia appare come un brutto sogno, un sogno grigio, polveroso, ambienti angusti nei posti più impensabili. La legge e la macchina giudiziaria sono incomprensibili il che trasmette una sorta di claustrofobia costante. Durante la lettura avevo il bisogno di luce, di spazio, di un cambio di prospettiva che però non c'è mai stato.
E' un libro che consiglio per la sua capacità di suscitare emozioni nel lettore, anche se non ci si deve aspettare che queste emozioni siano piacevoli.

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Il processo 2016-09-21 15:05:51 StefanoTecchi
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StefanoTecchi Opinione inserita da StefanoTecchi    21 Settembre, 2016
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Naturalmente assurdo

“Il Processo”



Il Processo (1925), così come Il Castello (1926) e America (1927), sono romanzi usciti dopo la morte dello scrittore (1924), anche se nel testamento letterario dello scrittore, affidato all’amico Max Brod, veniva chiesto di bruciarli. Tutti e tre questi romanzi sono rimasti incompiuti

Il Processo di Franz Kafka uscito postumo (1925), narra la storia di Josef K. impiegato bancario che sarà accusato di un reato non specificato. L’interna vicenda ruota attorno a questa accusa e vedrà il protagonista cercare in tutti i modi di essere assolto. Le ambientazioni in cui vedremo muoversi il protagonista sono luoghi chiusi, oscuri e con un’aria irrespirabile, (come l’aula del tribunale, i solai sparsi per la città dove si trovano le cancellerie del tribunale, la stanza dell’avvocato e lo studio del pittore) in più di un’occasione il protagonista si sentirà schiacciato da questi ambienti lugubri.
Inizialmente Josef K. non si occuperà troppo del processo ritenendolo futile, infatti continuerà a svolgere le sue attività sia lavorative che sociali. Con lo svilupparsi della trama vedremo il protagonista sempre più preso dal Processo, dopo l’incontro con suo zio, che è venuto a sapere di questo processo a carico del nipote, K. incontrerà l’avvocato (Huld) che lo aiuterà nella causa. Dall’avvocato come da altri personaggi tra cui il pittore Titorelli, il protagonista si recherà per ricevere aiuto e consigli sulla sua causa, ma le lunghe digressioni, con questi personaggi, che dovrebbero fare chiarezza sulle procedure del tribunale, lasciano sempre, sia al lettore che al protagonista, un senso di frustrazione; infatti nonostante nel dialogo con l’avvocato e il pittore venga dimostrato che ogni stranezza della causa ha una spiegazione, nulla viene realmente chiarito, così la logica è costretta a girare a vuoto.
Il protagonista, assieme al lettore, si perderà all’interno di questo processo, che diventerà la sua unica preoccupazione.
Si resta così bloccati e perduti nell’insieme di questi avvenimenti naturali per il protagonista, ma assurdi per il lettore. Questo è il punto di forza di questa storia, tutto ciò che succede dall’accusa mai specificata contro Josef K., ai dialoghi con i personaggi, fino al finale risulta essere tratto con una naturale assurdità.
Per catturare così il lettore Kafka sperimenta l’assenza di un narratore, difatti non ci sarà all’interno del romanzo nessun intervento chiarificatore da parte dello scrittore. Infatti il narratore è il protagonista stesso, tutto quello che succede viene descritto dal punto di vista di Josef K., di conseguenza il lettore non sa e non vede più di quello che sa e vede il protagonista. Ed è grazie a questa tecnica che i testi di Kafka hanno una costante capacità di turbamento sul lettore, che si sente accerchiato e schiacciato, come K.
In definitiva è un romanzo che consiglio, ha un stile piacevole e scorrevole e tutto è continuamente avvolto nell’incertezza, che fa sembrare tutto naturalmente assurdo. Non cercherò di dare una spiegazione delle intenzioni dell’autore, ci sono molte interpretazioni, che vanno dal senso di colpa dell’uomo ad una denuncia sociale, ma Kafka ha un utilizzato un simbolo ed i simboli molto spesso vanno oltre quello che uno scrittore si è prefissato.

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Il processo 2016-07-11 14:16:06 Giovannino
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Giovannino Opinione inserita da Giovannino    11 Luglio, 2016
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Un processo kafkiano.

Quante volte avrete sentito durante una conversazione il termine “kafkiano”? Magari con il classico significato di “paradossale” o “assurdo”. E vi siete mai chiesto perché e da dove arriva tale termine o accezione? Ecco la risposta la trovata interamente in questo libro, dove le situazioni kafkiane non mancano di certo, anzi…direi che probabilmente il termine è proprio qua che ha origine.

Il protagonista di questo breve romanzo (circa 240 pagine) è Josef K., e resterà K. per tutto il corso del romanzo, infatti di lui sapremo solo il nome e la professione: procuratore finanziario. Tutto ha inizio una mattina, quando Josef K. viene svegliato da due guardie che lo accusano di un reato non specificato e gli dicono che dovrà presentarsi in tribunale a breve per la prima udienza.
Da lì inizia l’avventura di Josef K. che, intenzionato a difendersi da una non precisata accusa, farà di tutto per uscirne fuori pulito da queste accuse. Nel corso delle sue avventure si imbatterà inoltre in diversi personaggi, dalla severa ma gentile padrona di casa, all’inquietante pittore Titorelli che prima rassicurerà il nostro Josef dicendogli che tramite le sue conoscenze può aiutarlo e poi subito dopo affermerà che se il tribunale chiama, volente o nolente, non perderà la causa.
La fine è tanto assurda quanto allineata con il resto del romanzo, infatti pur essendo tragica viene raccontata con la stessa linearità e con lo stesso understatement con cui è caratterizzato il libro, e riesce a far passare un evento tragico come una banale formalità. Molto divertente anche il capitolo sul sacerdote, che forse è il più kafkiano di tutto il libro...

Il romanzo ha uno stile leggero e piacevole, ed è continuamente avvolto da un manto di incertezza, tipica dello scrittore, che fa sembrare ogni situazione assurda ma allo stesso tempo naturale. Inoltre ogni situazione viene sempre descritta e non descritta, e questo stato di aleatorietà accompagna tutti i personaggi del romanzo che ci vengono sempre svelati solo parzialmente.
Alla fine della mia versione del libro c’erano inoltre delle aggiunte postume dei vari capitoli (infatti quest’opera è parzialmente incompiuta) molto divertenti e piacevoli.
Insomma se avete letto Kafka non ve lo consiglio neanche perché probabilmente già vi sarete imbattuti in questo ottimo romanzo, se invece non lo avete fatto mi sembra un’opera perfetta per iniziare a leggere lo scrittore ceco.

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Il processo 2016-06-24 05:42:40 FrankMoles
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3.0
FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    24 Giugno, 2016
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Come un cane!

Interpretato allegoricamente in un’infinità di prospettive, ora interconnesse ora contrapposte, questo romanzo incompiuto, pubblicato postumo nel 1925 dall’amico Max Brod e divenuto uno dei capisaldi della letteratura moderna, ben riflette le inquietudini che travagliavano Kafka. Vi ritornano infatti immagini e riflessioni che ricorrono altrove nella sua produzione, nonché nei diari ed epistolari; e si tratta di suggestioni di varia natura (religiose, esistenziali, filosofiche, letterarie, storico-sociali), il che ha favorito il pullulare di interpretazioni sostanzialmente equipollenti.

“Come può essere colpevole un uomo?”
Quando in una mattina qualunque Josef K., un comune impiegato bancario, viene inspiegabilmente arrestato da due uomini in divisa, presentatisi a casa sua senza alcun preavviso, ha inizio la sua affannosa corsa nel surreale. Una corsa tesa a scavare e a districarsi nelle profondità dell’enigma irrisolto della condizione umana. Sempre indefinita rimarrà la colpa di cui K. è accusato, eppur sempre presente a gravare sulle sue spalle. Sempre indefinita rimarrà la somma autorità del Tribunale, che sembra muovere i fili degli accusati senza ragione. Sempre indefinito rimarrà il ruolo degli altri uomini e delle altre donne che compaiono nel romanzo a dar il loro misterioso contributo alla vicenda di K. E sempre indefinito rimarrà lo stesso protagonista, sospeso tra le sue contraddizioni, mai indagate romanticamente ma trasparenti dalle sue azioni.

Nel suo forsennato e claustrofobico tentativo di ricondurre tutto alla razionalità e all’oggettività, K. rivela tutta la drammaticità della situazione degli uomini. Nel corso della storia, lo stupore dell’innocente viene costantemente a scontrarsi con la realtà di un’atavica colpa, la ricerca di un ordine col dispiegarsi dell’insensato. Il tentativo di difendersi dunque lascia gradualmente il posto alla consapevolezza di una condanna già pronunciata. Non c’è per l’uomo possibilità di un’assoluzione completa, preclusa dalla sua stessa razionalità che gli impedisce di abbandonarsi ad assoluti; al più egli può aspirare a un’assoluzione apparente o al differimento: e se la prima non è che il vano trionfo dell’effimero, dell’istante, in un eterno ritorno alla drammatica oscillazione del pendolo tra colpa e assoluzione, l’altro non è che quasi un pascaliano divertissement, una continua lotta contro i mulini a vento, altrettanto tragica nella sua umanamente nobile, ma pur sempre vana perseveranza. La spinta vitalistica, poi, che vuole anestetizzare la coscienza di K. non attecchisce mai del tutto, anzi viene in ultima analisi sconfitta dalla scelta di vita nichilistica; una scelta difficile, ma l’unica rimasta possibile a chi sa di esser già stato condannato a morire come un cane, per il solo fatto di esser nato uomo.

Lo stile essenziale e disadorno, a tratti faticoso a leggersi nell’apparente e grottesca insignificanza, è attentamente ricercato dall’autore, che giunge così a scarnificare anche con la parola l’esistenza. Non è lasciato il minimo spazio alla liricità o al soggettivo, tutto è volto alla spersonalizzazione e all’oggettività, in un vuoto razionale che raggiunge l’akme della sua sconfitta nella cruenta ed impietosa scena finale. Kafka prosegue sulla strada della modernità inaugurata dal romanzo di fine Ottocento legandola alla propria angoscia esistenziale. L’indugio talvolta espressionistico nelle descrizioni, nella gestualità o in motivi liberi prettamente allegorici marcano l’alterità tra il linguaggio e la vita, tra l’ordine e l’insensato. Il linguaggio non risulta mai adeguato a cogliere o a descrivere il reale sconosciuto: del resto per lo stesso Kafka risultò a lungo impossibile contemperare la sua vita personale con la sua vita da scrittore, vissuta come un mondo altro rispetto a quello reale ma mai del tutto distaccato.

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