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La bestia nella giungla
 
La bestia nella giungla 2015-10-27 22:31:25 Anna_Reads
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Stile 
 
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Anna_Reads Opinione inserita da Anna_Reads    28 Ottobre, 2015
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Non avete più nulla da aspettare. Ormai è successo

Dopo la bella recensione che mi ha preceduto ho dovuto rileggere questo racconto lungo. L'ho scoperto cinque anni fa e periodicamente lo rileggo.
Non sono esattamente una groupie di Henry James; mi sembra sempre che sia lì lì per sparare la bordata definitiva… ma poi io non la capisco. E mi rimane sullo stomaco “Cosa avrà voluto dire?”
Sarà che il nostro Henry e James non è un fondista, ma uno scattista, al massimo mezzofondista, ma nella forma di racconto, qui, tira fuori una delle cose migliori che io abbia mai letto (in assoluto).
Con tanto che non amo Henry James, i racconti, i maschioni egomaniaci e le donzelle ad essi votati. Ma qui abbiamo Pirandello, James Joyce, la previsione che si autoavvera, Parsifal, Tristano e Isotta e, en passant, una delle storie d’amore più belle che abbia mai letto.
Fine premessa, andiamo.

Lui e lei.
John Marcher e May Bartram.
Si incontrano per caso. Vagamente lui ricorda di averla conosciuta una decina di anni prima durante un soggiorno in Italia.
Lei è carina, lui fa lo splendido ed inanella dettagli. Dov’erano, con chi erano, dove andavano, cosa vedevano. “Vi ricordate, May…”
Va da sé che i dettagli sono quasi tutti sbagliati (ma lui è John Marcher, la memoria non è il suo forte, anche se l’ego non gli fa difetto). Lei fa notare le incongruenze dei suoi ricordi, ma con dolcezza, senza farlo pesare. Infine, quando la conversazione si fa un poco più intima (nella misura in cui i due si daranno del voi per tutta la vita, per capirci) lei gli chiede se finalmente abbia trovato ciò che bramava tanto dieci anni prima.
John casca dalle nuvole. Cosa mai cercava a Napoli (no, a Sorrento, ricorda May) dieci anni prima?
Poi vagamente ricorda che, senza nessun motivo, dieci anni prima, aveva parlato, proprio con lei, di quella sua strana ricerca. Con lei e con nessun altro, mai più. Tanto da dimenticarsene quasi, fino al nuovo colloquio con lei.
John si sente chiamato ad affrontare un destino importante.
Tragico forse. O straordinariamente felice. O particolarmente drammatico.
Ma comunque grandioso e non scontato.
Si adegua con molta fatica (e pochissimo trasporto) alla vita sociale londinese, che frequenta il meno possibile. Aspetta questo qualcosa di grande e terribile che è in serbo per lui. C’è una bestia, nella giungla della sua vita, che aspetta il momento buon per assalirlo e lui sta lì, pronto a riceverla e a respingerne l’assalto.
Ma May è a parte del suo segreto e lui-le-chiede/lei-accetta di aiutarlo e sostenerlo in questa guerra di nervi contro lo belva.
Così è.
I due diventano la vita sociale l’uno dell’altra.
May continua ad essere la memoria di John e ne diventa l’anima razionale, la confidente, la spalla, il palco all’opera, il dopoteatro, il cappotto d’inverno, il fazzoletto, il divano e le pantofole.
E lui più o meno lo stesso.
Ora fra le righe, noi lettori sagaci, vediamo anche che May ama John e che lui è abbastanza torsolo da non accorgersene praticamente mai.
MA.
Questa – secondo me – non è la solita storia di lei che si strugge e lui che se ne accorge quando lei muore (infatti se ne accorgerà dopo). Perché è una storia di devozione e di un amore che non si consuma mai. In entrambi i sensi in cui si può intendere il verbo “consumare”.
Non si concretizza in sesso e matrimonio, ma non finisce neanche.
È vero che John è preso da sé e dal suo ipotetico incombente destino. Ma è vero che passa la vita con May. Che ogni palpito, ogni sentimento, ogni slancio è per lei.
Che non è la fidanzata, sposa, moglie, madre dei figli.
Ma è la sua compagna di vita.
Per dire, siamo molto lontani da Newland ed Oleska.
Qui non c’è una banale infatuazione di un ego ipertrofico a cui piace pensare che sia stata chissacché, ma che al momento in cui doveva tirare fuori un minimo di attributi si è fatto mettere nell’angolo dall’altra May e poi è stato a lagnarsi forever and ever.
Qui abbiamo uno che un po’ tonto – innegabilmente – lo è davvero e che l’impressione che “qualcosa gli sia sfuggito” / “che mai avrà voluto dire?” probabilmente non se la leva mai di dosso, ma io, mentre leggo Henry James, mi sento solidale e mi identifico. Sfugge sempre qualcosa, a John. Qualcosa che invece May afferra sempre.
Aiutami, May.
E May ci prova ad aiutarlo, almeno fino ad un certo punto. Senonché May si ammala e – almeno lei – capisce che è cosa grave, breve e dolorosa. Da qui smette di aiutare John a tentare di sorprendere la sua ineffabile belva. E lo fa perché sa che John soffrirebbe troppo, qualora cogliesse il portentoso destino a cui era promesso.
Lui a tratti si fa quasi petulante (Dimmelo-dimmelo-dimmelo, May!!), tanto che durante uno dei loro ultimi colloqui lei gli dice di mettersi tranquillo, che tutto è compiuto. Ha affrontato la belva e ha vinto, tutto è passato.
La parte successiva alla morte di May è quella che amo di più. Perché John innanzitutto deve fare i conti con la realtà. E la prima cosa che impara è che non ha nessun diritto sulla memoria di lei, né sul dolore per la sua morte. Gli hanno strappato un pezzo d’anima e lui non può neppure lamentarsi, piangere e disperarsi. Perché non era sua moglie/fidanzata/sorella. E lui non era marito/fidanzato/fratello.
Solo amici.
Nessun diritto a voler morire a sua volta. Nessuna comprensione.
Come un po’ ci attendiamo, John scappa e se ne va in giro per il mondo. Inutilmente. Finisce per credere alle parole di May. Ha affrontato il suo destino, ha vinto. E non se ne è neanche accorto. E infondo non è neppure più importante. Torna a Londra e gira gira ritrova la tomba della sua compagna e se ne esce con una delle dichiarazioni più belle di sempre. Eccola qui:
«Fu così che la tomba di May, nel più singolare dei modi, si trasformò per lui in una risorsa positiva; tanto da indurlo a realizzare l’idea di periodici pellegrinaggi, che finirono col diventare una delle sue più inveterate abitudini. Riuscì insomma, per quanto possa sembrare strano, a far sì che, nel contesto del suo mondo ormai talmente ridotto all’essenziale, quel giardino di morte gli concedesse i soli pochi metri quadrati di terra sui quali gli era ancora permesso vivere. Era come se, non rappresentando più nulla in nessun luogo e per nessun altro, nulla persino per se stesso, qui invece si sentisse tutto, e sebbene non certo alla presenza di una folla di testimoni o a nessuno all’infuori di John Marcher, se non altro per attestazione di quel registro che poteva sempre consultare. Il registro aperto era, appunto, la tomba della sua compagna, ed era lì che giacevano i fatti del passato, era lì che era contenuta la verità della sua vita, lì erano le trascorse distanze nelle quali poteva smarrire se stesso. E infatti, di quando in quando, ci si smarriva, e con un effetto tale che gli pareva di vagare attraverso i vecchi tempi, dando il braccio a un compagno che era, nel modo più straordinario, l’altro se stesso, il più giovane; e cosa ancor più straordinaria, di girare e rigirare attorno a una terza presenza… lei, immobile, fissa, i cui occhi, seguendolo in quel girare, non lo abbandonavano mai, e la cui sede era, per così dire, il suo punto d’orientamento. Così in breve s’adattò a vivere… nutrendosi della stessa illusione di un tempo, e ricavandone non solamente un sostegno ma anche una identità.»
Naturalmente, abbiamo anche Joyce, e John ha la sua brava “epifania” finale. Proprio quella che May aveva cercato di evitargli sempre (non come la stronza sconosciuta della lettera di Zweig, per riguardo, che io queste che muoiono in silenzio, ma ci tengono tanto a fartelo sapere, le metterei al rogo).
Eccola qui.
«Gli tornarono alla mente le parole di May… la catena si allungava all’infinito. La Bestia era stata davvero in agguato, e la Bestia, al momento giusto, aveva spiccato il suo balzo; era balzata fuori nel crepuscolo di quella fredda giornata d’aprile quando, pallida, malata, consunta, ma pur sempre bella, e forse allora persino recuperabile, May era scattata dalla poltrona, gli si era parata di fronte e aveva lasciato che lui indovinasse. Era balzata fuori, la Bestia, e lui non aveva saputo indovinare; era balzata fuori mentre lei s’allontanava da lui sconsolata, e gli era ripiombata addosso, al momento stabilito, quando era ormai lontano. Ecco giustificate le sue paure e compiuto il suo destino; con assoluta precisione, aveva fallito tutto ciò che doveva fallire; e un gemito gli salì ora alle labbra, al ricordo di quanto May avesse pregato perché lui non sapesse.»

E con questo, Henry si è fatto perdonare anche l'insopportabile Isabelle Archer e chi non piange è una brutta persona. Se avanza ancora un po’ di forza, consiglio di provare a leggerlo in inglese, perché è incommensurabilmente più bello.

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Ciao Anna.
La tua bella recensione e quella che ti ha preceduta mi fanno capire che questo è un libro da leggere.
Cercherò di provvedere.
In risposta ad un precedente commento
Anna_Reads
28 Ottobre, 2015
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È un po' riduttivo dire che mi sia solo "piaciuto".
:)
In risposta ad un precedente commento
Anna_Reads
28 Ottobre, 2015
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Ciao Emilio,
sì mi sento decisamente di consigliartelo. È un racconto di una cinquantina di pagine, ma ti lascia molto.
Poi fammi sapere :)
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