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La peste
 
La peste 2020-01-08 13:28:56 David B
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David B Opinione inserita da David B    08 Gennaio, 2020
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L’uomo al bivio

Routine. Solitudine. Sofferenza. Attesa. Speranza. Gioia. Con l’amore come sfondo.
Potrei già concludere qui la disamina che ripercorre dall’inizio alla fine il libro di Albert Camus.
Reduce dalla lettura de “Lo straniero”, questo libro mi ha impressionato. È stato un pugno nello stomaco e una campanella nella mente.
Quest’ultimo aspetto è semplicemente un fatto personale, nulla di particolare. Nel senso che l’accurata e abile descrizione della città di Orano, teatro e in un certo senso anche vittima del racconto, mi ha ricordato la descrizione di Coketown in “Hard Times” (Tempi Difficili) di Dickens. Una città grigia, materialista e priva di emozioni dove il solo sussulto sembra essere la monotona e lenta routine. Poi il flagello. E tutto è cambiato.

“La peste aveva tolto la disposizione all’amore e all’amicizia” ecco, in una frase il famoso ‘pugno nello stomaco’. Le scene descritte di una umanità in lotta, in preda a un male misterioso, all’inizio e sempre più definito con il passare del tempo, colpiscono e rapiscono il lettore.
Camus ci racconta con una drammaticità sempre crescente i cambiamenti nella città, nel volto delle persone e nei comportamenti stessi. E tutto diventa metafora. La malattia che si è abbattuta sui cittadini, costretti all’isolamento e all’impossibilità di ricongiungersi con i propri cari onde evitare il propagarsi del morbo, pone in ognuno domande esistenziali, autentiche, profonde che prima erano come superflue. Inutili. Ma la realtà obbliga all’interrogazione con se stessi e all’esame di coscienza. E se ne esce, per forza di cose, cambiati.

Accade così anche nella nostra vita: ogni ostacolo o, per rimanere in tema, tragedia che incontriamo ci investe di mille difficoltà e domande.
Come superarlo? Come posso essere ancora felice? Cosa significa questo, oggi?
La mente si fa confusa e annebbiata. Perché quando le cose vanno male, attorno a te sembra esserci solo sofferenza (tua e/o di altri), tristezza e solitudine. Ed è quello che avverte Rieux, il medico che coraggiosamente si erge a colonna portante per tutti: curando e dirigendo una città ormai in ginocchio. Ma alla fine è sempre l’amore (l’amore come sfondo, appunto), l’attaccamento alla vita, a vincere. A farci uscire da quello stato così depotenziante in cui siamo finiti per poter tornare di nuovo a porci degli obbiettivi e a vivere. E non sopravvivere.
La peste va combattuta. Rieux e i suoi aiutanti fino all’ultimo non si sono arresi. Hanno compreso che essere felici oggi significa “essere colui che rimane”. Superare l’ostacolo significa amare: “un uomo deve battersi per le vittime, certo. Se però poi smette di amare tutto, a che serve che si batta?”

È l’amore che ho detto all’inizio, posto lì come sfondo, immobile, mai prono e pronto a subentrare. La peste lo aveva quasi sopraffatto, ma lui è rimasto dietro le quinte, celato, in attesa di imporsi con forza distruttiva contro il male del suo tempo. È la convinzione degli uomini a chiamarlo. Paneloux, il prete, che con le sue omelie scuote la cittadinanza ormai oppressa: Dio ci chiede un estremo atto di amore per i nostri peccati. Rambert che va avanti, nutrito dall’affetto verso la donna che ama, salvo poi capire che “ci sarebbe da vergognarsi a essere felici da soli”. E quindi comprende che non può abbandonare la città dove i suoi amici stanno lottando per un futuro che forse non ci sarà mai: relegare loro e la città al proprio destino, significa ‘abbandonare’. Non potrà mai essere felice.
Scegliere l’amore non significa, dunque, scegliere subito e per forza la donna che si ama, ma significa scegliere l’azione giusta da fare in quel momento per amore di altri. Anche per la sua stessa donna. Vivere un amore felice con lei è ben diverso che viverlo con un peso nel cuore tale da lacerarti l’anima e rovinarti la coscienza. Perché si può sempre scappare e lasciare tutto al suo destino consapevole però che sarà tragico. Oppure, conscio che amore senza felicità non vale la pena di essere vissuto, fai un atto di passione per una vita migliore per te stesso, per la donna che ami e per gli altri. Insomma, deciditi di essere “quello che rimane”.

Ecco che in una città oppressa, in ginocchio, dilaniata da quella peste un po’ preannunciata e un po’ improvvisa, è la forza e la convinzione di pochi uomini mossi dal loro grande -e per ognuno- differente amore che li spinge a dover scegliere, a doversi interrogare, a dover comprendere che coniugare questo con la felicità non è scontato. Va meritato e conquistato.
Scappare per amore quando puoi lottare per una causa e ti arrendi, non è felicità. Questo ci dice Camus.
Rimanere per opporsi alle avversità così da costruire quella vita, beata e desiderata, è ammirevole e audace. Ma difficile. Tuttavia una scelta va fatta. E alla fine quella scelta, per la crudele fatalità, è proprio tra amore e felicità. I binari sono gli stessi, ma qualcosa (e qui è la peste) può farli deragliare. Sta a ciascuno scegliere se saltare da quel treno scampando al pericolo ma con l’infelicita nel cuore, oppure provare a lottare per tornare a casa senza lasciare indietro quelli che puoi salvare.

Camus insegna questo: la potenza dell’essere uomo, della sua convinzione e della sua infinita bontà. La religione non è dirimente per l’autore. Ciò che conta è la capacità di ognuno di farsi promotore di un cambiamento e di una resistenza. Per amore di patria e di popolo.

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