La peste
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UNA MORALE LAICA
E’ generalmente riconosciuto come la peste descritta da Camus rimandi metaforicamente al flagello nazista dilagante in Europa durante gli anni della stesura del romanzo. Allo stesso modo, al drappello di uomini che combattono strenuamente l’implacabile malattia, si associano il movimento partigiano e la lotta di Resistenza.
Eppure, mi pare innegabile che il messaggio morale del libro abbia valenza universale e vada ben al di là della contingenza storica.
Qui è l’eterna lotta tra Bene e Male ad andare in scena in una rappresentazione scarna tratteggiata a tinte forti e prive di sfumature.
La Peste è male assoluto, violento, sozzo, irrazionale, atroce ed implacabile. Sordidi topi emergenti dalle viscere della terra annunciano l’arrivo del flagello rantolando di lì a poco enfiati e deformati dalla orribile malattia. Un’umanità stordita li osserva accumularsi stecchiti ai bordi della strada senza coglierne la minaccia perché “tutti stentiamo a credere ai flagelli quando ci piombano addosso”.
Ed il Male dilaga senza far preferenze, strazia il potente come il reietto, il vecchio come il bambino, il saggio come lo stolto.
Forzatamente rinchiusi e separati dal resto del mondo i cittadini di Orano vagano come fantasmi: chi in preda a cupa disperazione, chi terrorizzato dalla paura della morte, chi lacerato dal dolore della perdita dei propri cari.
Eppure il Bene esiste e poco importa se non trionfa. Il dottor Rieux ed i volontari che attorno a lui si raccolgono, paiono obbedire ad un imperativo categorico che rende la buona azione necessaria ed inevitabile. Chi professa questo credo laico ha un intima esigenza di combattere il Male pur consapevole che la lotta è impari e le proprie forze inconsistenti.
“Essenziale era fare bene il proprio lavoro”, afferma il dottore. Ed ancora: “Si tratta di onestà … il solo modo di lottare contro la Peste è l’onestà”. Non c’è nulla di eroico in questo ne’ tantomeno di salvifico.
A ben vedere quello di Camus è un grido di speranza e di fiducia nell’uomo.
In fondo i Santi non hanno bisogno di Dio.
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Pessimo, piatto, senza un filo logico.
Quello che mi ha meravigliato di più è scoprire che questo libro è stato scritto dopo "Lo Straniero" che è del 1942, mentre questo romanzo, a mio avviso pessimo, è del 1943.
Come se l'autore invece di migliorare ed affinare la sua scrittura, sia all'improvviso precipitato in una crisi creativa che gli ha fatto appunto scrivere un opera a mio avviso insulsa e su alcuni punti senza senso alcuno.
Ritengo "Lo Straniero" un capolavoro "minore" della letteratura del '900, un piccolo volume, denso, estraniante, altamente psicologico, cupo, passionale e delirante.
Quindi quando in libreria, mi sono trovato tra le mani questo testo "La peste" ho pensato, sbagliando, che forse avrei potuto godere di un'altra intensa lettura dello scrittore di francese.
Ed invece è stato un calvario portare avanti la lettura, con descrizioni di bubboni, ratti, personaggi insulsi che appaiono e scompaiono all'improvviso. Una scrittura che procede a tentoni, come se l'autore non sapesse dove andare a parare, che pesci (o sorci) prendere.
Il classico libro che non ha una chiave di lettura, improvvisato, senza un filo logico che lega gli avvenimenti e con un finale messo li per caso, per porre fine all'agonia del lettore.
"Lo straniero" è considerato il vero capolavoro di questo autore, gli altri suoi testi non mi sembra abbiano avuto uguali fortune. E questo "La Peste" secondo me, dimostra, che dopo aver scritto un grande romanzo di esordio, questo scrittore si sia perso, forse sopraffatto dalla fama improvvisa o dai guadagni che gli sono arrivati.
Avete mai sentito un album o una canzone meravigliosa, folgorante, di un compositore e poi a distanza di anni, vi siete dimenticati della sua esistenza.....e poi riascoltando quel pezzo che tanto vi era piaciuto vi chiedete: "ma che fine aveva fatto?", poi cercate la sua discografia e scoprite che negli anni ha continuato a scrivere musica, testi, canzoni che non li fanno passare neanche alla radio una misera volta....per me la parabola di Camus appunto è stata come la candela che brucia da entrambe le parti, arde con più luce ma alla fine si consuma prima.
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Orano
«Nel mondo ci sono state tante epidemie di peste quante guerre. Eppure la peste e la guerra colgono sempre tutti alla sprovvista. Era stato colto alla sprovvista il dottor Rieux, come lo erano stati i nostri concittadini, e questo spiega le sue titubanze. E spiega anche perché fosse combattuto tra la preoccupazione e la fiducia. Quando scoppia una guerra tutti dicono: “È una follia, non durerà.” E se forse una guerra è davvero una follia, chiunque se ne accorgerebbe se non fossimo sempre presi da noi stessi. A questo riguardo, i nostri concittadini erano, come tutti gli altri, presi da se stessi, in altre parole erano umanisti: non credevano ai flagelli. Dal momento che il flagello non è a misura dell’uomo, pensiamo che sia irreale, soltanto un brutto sogno che passerà. Invece non sempre il flagello passa e, di brutto sogno in brutto sogno, sono gli uomini a passare, e in primo luogo gli umanisti che non hanno preso alcuna precauzione.»
Orano, in un anno come tanti e in un tempo sconosciuto, un luogo che altro non è che una prefettura francese della costa algerina che un giorno come un altro viene colto dalla fuoriuscita di topi. Topi e ancora topi, ovunque. Nelle case, per le strade, in prossimità degli uomini. Sono una moltitudine e man mano che escono dai loro nascondigli per affrontare la luce del giorno, periscono. Cosa sta succedendo? Può essere che quel fenomeno inspiegabile correlato ai ratti possa essere ricollegabile anche agli esseri umani stante che ben presto i medesimi iniziano a soffrire di quella patologia che a Rieux appare subito propria del suo nome di peste? E come parlare di quell’epidemia che nulla risparmia e niente concede se non per mezzo di una vera e propria cronaca dell’evoluzione dei fatti?
«Ci si stanca della pietà, quando la pietà è inutile.»
Ed è così che Camus ci prende per mano e conduce tra i meandri di queste pagine intrise di una verità ad oggi molto vicina a quella che noi per primi abbiamo vissuto – e stiamo vivendo – con l’epidemia covid-19. Lo scrittore descrive e delinea con cura quelle che sono le maturazioni delle circostanze così come dell’animo umano. Ci parla di solidarietà, ci parla di assenza di solidarietà, di luoghi comuni, di vite che cambiano e assumono nuove dimensioni e forme ma ci parla anche di egoismo e cattiveria, divergenze economiche e sociali che in un momento dove dovrebbero essere assenti sono al contrario presenti e onnipresenti.
Dopo averlo letto negli anni di studio e in lingua francese sono tornata a “La peste” con un occhio nuovo e diverso, con un occhio che ha osservato il narrato da una diversa e ulteriore prospettiva che si è sommata e fusa con la precedente data dalla prima lettura. L’effetto di impotenza resta e si amplifica, anche se ci sentiamo parte e partecipi, anche se ci sentiamo complici degli abitanti di Orano e delle loro disavventure.
Una lettura che invita alla riflessione e che suscita, per l’impostazione cronachistica di cui è improntata, sensazioni ed emozioni diverse nel conoscitore che se da un lato è incuriosito dai fatti, dall’altro rifugge dall’empatia completa e dal coinvolgimento totale. Ad ogni modo un titolo immancabile nel bagaglio di ogni lettore a prescindere dalla situazione che stiamo vivendo anche noi.
«E mentre svoltava nella via di Grand e di Cottard, Rieux pensava fosse giusto che almeno ogni tanto la gioia ricompensasse coloro che si accontentano dell’uomo e del suo povero e terribile amore.»
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L'Assurdo si combatte con la solidarietà
L’autore narra la storia di Orano, una piccola città algerina, che dopo essere stata travolta da un’epidemia di peste è costretta a chiudersi al mondo esterno combattendo senza tregua contro il morbo. Camus descrive in modo introspettivo i personaggi, dando una rappresentazione dei vari modi con cui la psiche umana può reagire ad un evento del tutto inaspettato. C’è chi si rifugia nella fede, chi si dà da fare per contrastare gli eventi, chi prova a fuggire e chi lucra sulle disgrazie altrui. Tuttavia, col passare del tempo, apparirà evidente che l’unico modo per salvarsi è unire le forze per combattere insieme un nemico invisibile, figlio di quella rappresentazione dell’Assurdo alla base del pensiero filosofico dell’autore. Il messaggio che vuole dare Camus con il suo romanzo è chiaro: soltanto attraverso la solidarietà gli uomini riusciranno a vincere le sfide assurde, in quanto inaspettate, che la vita mette loro davanti; il conseguimento della felicità del singolo anche a discapito degli altri porterà soltanto ad una sconfitta di tutti.
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Non c'è isola nella peste
"Ma egli sapeva tuttavia che questa cronaca non poteva essere la cronaca della vittoria definitiva; non poteva essere che la testimonianza di quello che si era dovuto compiere e che, certamente, avrebbero dovuto ancora compiere, contro il terrore e la sua instancabile arma, nonostante i loro strazi personali, tutti gli uomini che, non potendo essere santi e rifiutandosi di ammettere i flagelli, si sforzano di essere dei medici."
A Orano, una prefettura francese della costa algerina, un giorno dal nulla incominciano ad uscire topi, se ne trovano ovunque, nelle case, per strada, escono a frotte e muoiono. Quello che all'inizio sembra uno scherzo innocente porta la città nel panico.
"Nel mondo ci sono state in ugual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati."
Camus tramite il suo narratore ci presenta una cronaca oggettiva che racconta tutta l'evoluzione della peste e gli animi di coloro che si trovavano dentro le mura chiuse.
Un libro che visto il periodo storico arriva ancora di più. Siamo negli anni '40, ma si parla di congiunti, di separazioni, di quarantene, di sieri che funzionano e non funzionano, di evoluzioni, di ingiustizie e di come tutte le pestilenze non fanno differenze fra ricchi e poveri.
Uno stile chiaro, poco pretenzioso e diretto. Camus ci rende partecipi ma allo stesso tempo impotenti. Anche noi come gli abitanti di Orano stiamo aspettando che quelle porte si possano finalmente aprire e ricominciare una vita normale, perché è proprio la normalità che ci manca.
Una lettura molto interessante, l'ho preferita a "Lo straniero" che invece non mi aveva particolarmente colpita.
Buona lettura!
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Corsi e ricorsi storici
E’ stata l’emergenza coronavirus ad indurmi a scegliere questa lettura, che, soprattutto nella prima parte, mi ha spiazzato. Perché sembrava di leggere gli articoli del Corriere e della Repubblica di questi giorni, con un linguaggio decisamente meno moderno, ma con gli stessi elementi. I primi segnali, il paziente zero, la sorpresa dei primi tempi che, a poco a poco, si trasforma in panico, il comitato scientifico, i focolai infettivi, l’aumento del numero di casi, perfino i famosi “congiunti”. La ricerca dei posti letto negli ospedali, i prefetti ed il governo centrale, la chiusura della città, il limbo in attesa della riapertura e la riapertura. Tutta la storia è raccontata da un narratore ed è una relazione scritta con obiettività e fatta con buoni sentimenti. Anche i protagonisti di questo libro sono tutti nel medesimo sacco e capiscono che, in un qualche modo, ne devono uscire, devono cavarsela. Camminano in avanti, nelle tenebre, un po’ alla cieca, con tutta l’incertezza, soprattutto, ma non solo, quella dei primi tempi e cercano di fare ognuno del proprio meglio e comunque tutti un po’ di bene. Comprendono che la fantasia, in un qualche modo, aiuta nella sopravvivenza. E, nel male, c’è comunque del bene. Il buono della figura dei medici. Il fatto che un evento di questa portata apre gli occhi e costringe a pensare. Perché quanto l’uomo può guadagnare al gioco della peste e della vita è la conoscenza e la memoria. Ed il più grande insegnamento che se ne può trarre è che dobbiamo fare tesoro, di questa conoscenza e di questa memoria.
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Né santi, né eroi
Non è necessario essere santi, né eroi, ma non per questo ci si deve rassegnare al Male. Occorre invece combatterlo, curarlo, limitarne i danni, consapevoli che una vittoria definitiva non la potremo mai ottenere. Il medico non può impedire la morte, può semmai ritardarla, curare la malattia, conscio che si tratta sempre di successi provvisori.
Questo mi pare, in estrema sintesi, il messaggio di questo romanzo, che ho voluto leggere per la prima volta nel tempo dell’attuale pandemia.
Orano, un’anonima cittadina sulla costa algerina viene sconvolta negli anni Quaranta del secolo scorso da un’epidemia di peste. Stupore, incredulità, preoccupazione, panico, rassegnazione si susseguono velocemente tra i cittadini indifesi e le autorità impreparate a gestire la situazione. “Nel mondo ci sono state tante epidemie di peste quante guerre. Eppure la peste e la guerra colgono sempre tutti alla sprovvista”.
L’amorfa collettività di Orano, senza caratteristiche particolari che la possano distinguere dall’Umanità tutta che vuole rappresentare, è il primo fondamentale personaggio del romanzo. Con i suoi bollettini sanitari, le ordinanze prefettizie, le inquietudini, le leggerezze, lo stato di perenne incertezza sulla durata dell’epidemia e dei provvedimenti, lo sfinimento dei medici e delle squadre volontarie di soccorso, i funerali negati, l’impaurita disciplina e l’altalenante emotività, è proprio questa la voce che noi lettori dei giorni del Coronavirus andiamo a cercare, raccogliendo analogie e discordanze.
Da questa moltitudine si distingue una manciata di personaggi che sostengono la trama e ne arricchiscono il significato allegorico.
Bernard Rieux è un giovane medico che con umanità, competenza, concretezza e testardaggine si batte senza sosta per salvare il salvabile. “L’essenziale era fare bene il proprio lavoro”. “Non possiamo contemporaneamente curare gli uomini e sapere. Quindi occupiamoci di curare gli uomini il più in fretta possibile. E’ questa la cosa più urgente.”
Raymond Rambert è un energico e ambizioso giornalista, che si trova a Orano per lavoro allo scoppio dell’epidemia e, impossibilitato a ricongiungersi con i suoi affetti, è l’emblema degli esuli, delle persone e delle famiglie improvvisamente separate dal dilagare del male. “In realtà soffrivamo due volte – della nostra sofferenza e poi di quella che immaginavamo negli assenti, figli, moglie o amante”. Le numerose, appassionate pagine che Camus scrive su questa umanità divisa da una barriera ostile e impenetrabile ci fanno rabbrividire al ricordo di tutti i Muri, da Berlino in poi, che sarebbero stati costruiti, progettati o semplicemente vagheggiati nei decenni successivi.
L’onesto impiegato comunale Joseph Grand è un ometto triste, insospettabilmente romantico, alla perenne ricerca delle parole giuste, una persona rispettabile come ce ne saranno sempre, di quelle che il male non riesce proprio ad eliminare.
Il suo vicino di casa Cottard, al contrario, vive di espedienti, nel torbido prospera e lucra, teme il ritorno alla normalità, che lo rende scontroso e guardingo. Il disordine, invece, gli dona lucentezza e affabilità.
Il giudice Othon, algidamente disumano nella fanatica comprensione del suo ruolo, nella disgrazia più prevedibilmente trova un’occasione di redenzione.
Infine c’è il misterioso Jean Tarrou, il cui confronto con Rieux nel finale del romanzo ci fornisce la chiave per la sua interpretazione.
Intellettuale ed idealista ormai disilluso, Tarrou si trova in un vicolo cieco: la peste ce la portiamo dentro, è praticamente impossibile evitare di contagiare qualcuno (“allora ho capito che, almeno io, anche nei lunghi anni in cui pure credevo con tutta l’anima di lottare conto la peste, non avevo mai smesso di essere un appestato”), nel combattere il male si rischia di generare altro male (“ho scoperto che avevo acconsentito indirettamente alla morte di migliaia di uomini, che avevo addirittura provocato quella morte trovando buone le ragioni e i principi da cui fatalmente era conseguita”) e si può solo scegliere tra essere flagello o essere vittima. La terza categoria, quella dei veri medici, è la più rara, ed è la strada più difficile.
Un po’ più semplice, paradossalmente, è ambire alla santità, magari una santità senza Dio, fatta di pura compassione, ossia un immolarsi dalla parte delle vittime per giungere infine alla pace.
Il dottor Rieux, obietta: “Non provo granché interesse, credo, per l’eroismo e la santità. Quel che mi interessa è essere un uomo”.
Scrivendo nel 1947, sulle macerie provocate dal Male assoluto, in un periodo di grande tensione ideale e di scontro ideologico, Camus vuole ammonirci contro la tentazione di costruire la società perfetta, quella in cui il male sia definitivamente estirpato: è una speranza vana, fonte di ulteriori sofferenze e distruzioni, come la Storia ha ampiamente dimostrato. Tra l’intransigente purezza della santità e tutti i limiti di un’umanità imperfetta, meglio la seconda.
“Ascoltando infatti le grida di esultanza che si levavano dalla città, Rieux si ricordava che quell’esultanza era sempre minacciata. Poiché sapeva quel che la folla in festa ignorava, e che si può leggere nei libri, cioè che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte, e che forse sarebbe venuto il giorno in cui, per disgrazia e monito agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice”.
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L’uomo al bivio
Routine. Solitudine. Sofferenza. Attesa. Speranza. Gioia. Con l’amore come sfondo.
Potrei già concludere qui la disamina che ripercorre dall’inizio alla fine il libro di Albert Camus.
Reduce dalla lettura de “Lo straniero”, questo libro mi ha impressionato. È stato un pugno nello stomaco e una campanella nella mente.
Quest’ultimo aspetto è semplicemente un fatto personale, nulla di particolare. Nel senso che l’accurata e abile descrizione della città di Orano, teatro e in un certo senso anche vittima del racconto, mi ha ricordato la descrizione di Coketown in “Hard Times” (Tempi Difficili) di Dickens. Una città grigia, materialista e priva di emozioni dove il solo sussulto sembra essere la monotona e lenta routine. Poi il flagello. E tutto è cambiato.
“La peste aveva tolto la disposizione all’amore e all’amicizia” ecco, in una frase il famoso ‘pugno nello stomaco’. Le scene descritte di una umanità in lotta, in preda a un male misterioso, all’inizio e sempre più definito con il passare del tempo, colpiscono e rapiscono il lettore.
Camus ci racconta con una drammaticità sempre crescente i cambiamenti nella città, nel volto delle persone e nei comportamenti stessi. E tutto diventa metafora. La malattia che si è abbattuta sui cittadini, costretti all’isolamento e all’impossibilità di ricongiungersi con i propri cari onde evitare il propagarsi del morbo, pone in ognuno domande esistenziali, autentiche, profonde che prima erano come superflue. Inutili. Ma la realtà obbliga all’interrogazione con se stessi e all’esame di coscienza. E se ne esce, per forza di cose, cambiati.
Accade così anche nella nostra vita: ogni ostacolo o, per rimanere in tema, tragedia che incontriamo ci investe di mille difficoltà e domande.
Come superarlo? Come posso essere ancora felice? Cosa significa questo, oggi?
La mente si fa confusa e annebbiata. Perché quando le cose vanno male, attorno a te sembra esserci solo sofferenza (tua e/o di altri), tristezza e solitudine. Ed è quello che avverte Rieux, il medico che coraggiosamente si erge a colonna portante per tutti: curando e dirigendo una città ormai in ginocchio. Ma alla fine è sempre l’amore (l’amore come sfondo, appunto), l’attaccamento alla vita, a vincere. A farci uscire da quello stato così depotenziante in cui siamo finiti per poter tornare di nuovo a porci degli obbiettivi e a vivere. E non sopravvivere.
La peste va combattuta. Rieux e i suoi aiutanti fino all’ultimo non si sono arresi. Hanno compreso che essere felici oggi significa “essere colui che rimane”. Superare l’ostacolo significa amare: “un uomo deve battersi per le vittime, certo. Se però poi smette di amare tutto, a che serve che si batta?”
È l’amore che ho detto all’inizio, posto lì come sfondo, immobile, mai prono e pronto a subentrare. La peste lo aveva quasi sopraffatto, ma lui è rimasto dietro le quinte, celato, in attesa di imporsi con forza distruttiva contro il male del suo tempo. È la convinzione degli uomini a chiamarlo. Paneloux, il prete, che con le sue omelie scuote la cittadinanza ormai oppressa: Dio ci chiede un estremo atto di amore per i nostri peccati. Rambert che va avanti, nutrito dall’affetto verso la donna che ama, salvo poi capire che “ci sarebbe da vergognarsi a essere felici da soli”. E quindi comprende che non può abbandonare la città dove i suoi amici stanno lottando per un futuro che forse non ci sarà mai: relegare loro e la città al proprio destino, significa ‘abbandonare’. Non potrà mai essere felice.
Scegliere l’amore non significa, dunque, scegliere subito e per forza la donna che si ama, ma significa scegliere l’azione giusta da fare in quel momento per amore di altri. Anche per la sua stessa donna. Vivere un amore felice con lei è ben diverso che viverlo con un peso nel cuore tale da lacerarti l’anima e rovinarti la coscienza. Perché si può sempre scappare e lasciare tutto al suo destino consapevole però che sarà tragico. Oppure, conscio che amore senza felicità non vale la pena di essere vissuto, fai un atto di passione per una vita migliore per te stesso, per la donna che ami e per gli altri. Insomma, deciditi di essere “quello che rimane”.
Ecco che in una città oppressa, in ginocchio, dilaniata da quella peste un po’ preannunciata e un po’ improvvisa, è la forza e la convinzione di pochi uomini mossi dal loro grande -e per ognuno- differente amore che li spinge a dover scegliere, a doversi interrogare, a dover comprendere che coniugare questo con la felicità non è scontato. Va meritato e conquistato.
Scappare per amore quando puoi lottare per una causa e ti arrendi, non è felicità. Questo ci dice Camus.
Rimanere per opporsi alle avversità così da costruire quella vita, beata e desiderata, è ammirevole e audace. Ma difficile. Tuttavia una scelta va fatta. E alla fine quella scelta, per la crudele fatalità, è proprio tra amore e felicità. I binari sono gli stessi, ma qualcosa (e qui è la peste) può farli deragliare. Sta a ciascuno scegliere se saltare da quel treno scampando al pericolo ma con l’infelicita nel cuore, oppure provare a lottare per tornare a casa senza lasciare indietro quelli che puoi salvare.
Camus insegna questo: la potenza dell’essere uomo, della sua convinzione e della sua infinita bontà. La religione non è dirimente per l’autore. Ciò che conta è la capacità di ognuno di farsi promotore di un cambiamento e di una resistenza. Per amore di patria e di popolo.
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Differenze e comunanza dell'umanità
Dopo la mia prima esperienza con "Lo straniero" (una vita fa, a dire il vero) Camus mi aveva colpito, ma non abbastanza da spingermi ad approfondire la sua opera nel breve periodo, così come mi è successo ultimamente con Steinbeck. Eppure, dopo anni, ecco che mi cimento con la lettura de "La peste", che devo dire mi ha folgorato e ha fatto rinascere in me il desiderio non solo di approfondire quel che mi manca dell'opera dell'autore, ma anche di rileggere nuovamente "Lo straniero".
Questa è un'opera di una profondità fuori dal comune, che riesce col pretesto del morbo a riflettere su molte sfaccettature dell'animo umano, che un flagello come questo può far salire in superficie in un modo che sarebbe impossibile, in condizioni normali. Camus prende il lettore e lo scuote, lo prende per le orecchie e gli gira il volto, costringendolo a osservare tutto quello da cui tende a distogliere lo sguardo.
Gli uomini si ritrovano a combattere qualcosa che è infinitamente più grande di loro, qualcosa che ne controlla quasi totalmente il destino; un destino oltremodo tormentoso in quanto è affidato totalmente al caso e alla volontà della malattia, che stronca chi vuole, quando vuole. È interessante osservare le diverse reazioni allo stesso male, allo stesso terrore; Camus ha trovato un modo incredibilmente realistico di mettere in risalto le differenze ma, allo stesso tempo, di mostrare quel che accomuna tutti gli esseri umani. Questo è secondo me un lavoro che solo un grande autore e una grande mente potevano mettere in piedi.
Messi a confronto e in lotta con tale flagello gli esseri umani diventano un turbinio di emozioni, divisi tra speranza e rassegnazione; tra riscoperta delle piccole gioie e profonda disperazione; tra la gabbia di terrore del presente e liberazione dalle preoccupazioni del futuro e i tormenti del passato. La peste, la prospettiva della morte, porta gli uomini a contemplare cose che nel torpore dei tempi quieti non avrebbe mai considerato, cose che un essere umano dovrebbe contemplare in ogni caso, a prescindere dal dolore che esse comportano, ma che si ritrova a considerare solo nel momento della fine, che nella maggior parte dei casi arriva troppo tardi nel percorso della vita. La malattia, invece, li porterà ad affrontare tutto questo prima del tempo, costringendoli a un cambiamento graduale ma permanente e che, paradossalmente, ha molti risvolti positivi: perdita delle illusioni, consapevolezza, conoscenza, tempra.
Tutto questo è reso in maniera eccelsa, pur essendo una lettura che richiede una buona soglia di attenzione per essere compresa e apprezzata appieno.
Orano è una cittadina francese in cui, da un giorno all'altro, si cominciano a scovare cadaveri di topi a ogni angolo di strada; nei palazzi, nelle cantine, nei ristoranti. Quello che all'inizio si presenta solo come un fatto insolito che scuote leggermente la monotonia della vita di una città piuttosto noiosa e spenta, diventa il presagio di un flagello che la devasterà per più di un anno; perché quello che uccide i topi comincerà a uccidere anche gli uomini, e certo non con numeri più generosi.
Il dottor Bernard Rieux si troverà ad affrontare questo morbo che si credeva ormai sparito, perso in un sonno eterno; che ha devastato la vita degli uomini nei secoli passati ma che ormai aveva smesso di tormentarci. È difatti difficile ammettere che sia tornato, nei primi tempi in cui si presenta; è difficile addirittura pronunciarne il nome: peste. Ma alla fine non si potrà più negare e avrà inizio una lotta in cui gli esseri umani non possono fare altro che provare ad assorbire i colpi nel modo migliore possibile, senza mai avere la possibilità di sferrare un attacco: come si può, infatti, colpire il morbo della peste? È una cosa che si può soltanto sopportare, e che se dovesse lasciarci vivi potrebbe ancora tormentarci col ricordo della sua spietatezza. Dunque tutto quel che resta da fare all'uomo è subire e cercare di non soccombere, sopravvivere e, in tale fortunato caso, bendarsi le ferite e ricominciare.
"Il male presente nel mondo viene quasi sempre dall'ignoranza, e la buona volontà, se non è illuminata, può fare altrettanti danni della malvagità. Gli uomini sono più buoni che cattivi, e in realtà il problema n on è questo. Ma sono più o meno ignari, e questo è ciò che chiamiamo virtù o vizio, dove il vizio più desolante è l'ignoranza che crede di sapere tutto e si concede per questo il diritto di uccidere. L'anima dell'assassino è cieca e non c'è vera bontà né vero amore senza tutta la chiaroveggenza possibile."
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Un calore di vita e un'immagine di morte
Sempre più di rado mi capita di chiudere un libro con un senso di nostalgia per situazioni e personaggi; con questo romanzo è successo, e tanto più inaspettatamente in quanto si è trattato di lasciare gli abitanti di una città appestata.
La causa più verosimile è da ricercarsi nel senso profondo di umanità che emanano le pagine, un'umanità laica e santa, cocciuta quanto può esserlo la forza della vita.
L'inizio è carico di un'ironia sottile e amara che si avvicina molto al sarcasmo e strappa qualche sorriso, come se l'autore, muovendo le fila degli eventi che precipitano, si prendesse gioco delle illusioni a cui i personaggi si aggrappano per non cedere al panico.
Ma quando la farsa lascia il posto alla tragedia sembrano essere le diverse anime dello scrittore a parlare attraverso un vasto campionario di individui: eroi per caso, antieroi, cinici spettatori, sommersi e salvati. Personaggi commoventi, per molti versi, così lontani dalla perfezione, così perfettamente delineati.
La prosa resta asciutta, ma si fa strada un senso profondo di compassione, unito a ideali come lealtà e amicizia che più dell'amore risplendono tra le ombre della pestilenza, mentre la narrazione raggiunge il punto più alto con l'interrogativo cruciale: è il caso di rifugiarsi nella fede, accettando supinamente la volontà divina, o sarebbe meglio rinunciare a credere, e combattere con ogni mezzo il morbo?
“Non ne so niente”, risponderebbe il dottor Bernard Rieux, protagonista del romanzo.
Eppure, se c'è una cosa che i flagelli insegnano, è che vale sempre la pena lottare per la salvezza degli esseri umani, essendoci in essi più cose da ammirare che da disprezzare.
E non a caso le due opzioni - fede o scienza - finiscono per mescolarsi nella strenua ricerca della pace a servizio degli uomini:
“Un calore di vita e un'immagine di morte: era questa la conoscenza”.