L'ultimo giorno di un condannato a morte L'ultimo giorno di un condannato a morte

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Signor K. Opinione inserita da Signor K.    05 Mag, 2021
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SOCIETÀ ASSASSINA

Sulla falsa riga dei "dei delitti e delle pene" queste poche pagine si impongono violentemente in un tema già ampiamente discusso all'epoca ,il trattamento del condannato.
Non c'è alcuna scusante per Hugo al crimine della pena di morte, egli sostiene con vigore il carattere orripilante degli ultimi istanti che precedono la ghigliottina.
Uccidere per punire un'omicidio è maggiore del delitto stesso.
L'assassinio compiuto dallo stato è incomparabilmente più atroce dell'assassino commesso dal delinquente.
Per far capire tutto ciò, Hugo catapulta il lettore direttamente nella cella del condannato, umida e oscura. Penetrando nella mente del disgraziato, cogli ogni suo minimo barlume di speranza e pian piano vedi direttamente dall'interno, la luce della vita spegnersi nei suoi occhi . Non c'è salvezza, la società, divinità autoproclamata, ti ha condannato.
Hugo scardina le convinzioni dei più severi amanti della giustizia punitiva. Colpevole o no, non importa. Non c'è alcuna attenuante allo stato assassino.
Il condannato potrebbe essere un qualsiasi essere umano, perfino tu che stai leggendo queste righe, é per questo che preferisce escludere più informazioni possibili dal personaggio principale. Il condannato è un ignoto di cui non si conosce il nome, la storia o il crimine, ciò che ci è dato sapere è solo il divagare della mente, quel filo ininterrotto di pensieri angoscianti che lo accompagnano fino al patibolo, prima "calmi" e consapevoli come se il condannato accettasse l'inevitabile fine, poi frenetici e confusionari in un febbrile riscatto della sacralità della vita. Per lui, però, non c'è più tempo, ogni speranza è persa.
Sta tutto qui il concetto: la ghigliottina non è la soluzione alla tortura, il dolore maggiore non sta tanto in quello fisico, ma nella convinzione che tra qualche ora, e poi 20 min, e poi qualche secondo non sarai più vivo e che lascerai questa terra.
Marchiato da molti come un racconto "indigesto" ,poco piacevole, mi chiedo: cosa ci si aspetta dall'ultimo giorno di un povero, condannato a morte?

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Novantatré
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martaquick Opinione inserita da martaquick    01 Novembre, 2020
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DIARIO DI MORTE

Una specie di diario degli ultimi pensieri di un condannato a morte, questo “romanzo” fu scritto dall’autore contro la pena di morte.
Romanzo tra virgolette perché sembrano più appunti e pensieri di un ragazzo che attende la ghigliottina, pieni di ansia e disperazione che ti rimangono addosso.
Devo dire che ho fatto fatica a leggerlo ma non perché non mi sia piaciuto, ma più che altro perché la tragedia che emana ogni pagina ti mette angoscia, ti tormenta, credo che l’intento dell’autore sia pienamente riuscito perché chi potrebbe condannare a morte una persona dopo aver letto queste pagine?
Interessanti le prefazioni riportate nell’edizione Feltrinelli e anche l’approfondimento.

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cristiano75 Opinione inserita da cristiano75    09 Ottobre, 2019
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Condannato il protagonista, condannato il lettore

Credo che un libro, più angosciante, pesante, terribilmente veritiero di questo non ne ho letti.
Mi è arrivato questo volumetto e pensavo fosse una lettura abbastanza scorrevole, ma poi nello sfogliare le pagine ed entrare sempre più nella psicologia e nella disperazione del condannato a morte, avevo proprio la sensazione che quel patibolo mi stesse aspettando a me.
Anche questa è la magnificenza della vera letteratura e di questo autore.
E' un lento, inesorabile cammino verso la forca, fatto di amare riflessioni, di impotenza, di consapevolezza di non aver sfruttato al meglio la vita e la salute.
E' una realtà da incubo, con le persone che si assiepano sotto la forca, come se stessero andando a guardare uno spettacolo di avanspettacolo.
Nessuno si salva, il condannato è condannato per sempre dalla società, che è a sua volta popolata da derelitti, rifiuti umani, da persone che traggono piacere nel vedere l'altrui disperazione.
Ecco date queste premesse potete immaginare, o voi che lo leggerete, in che razza di mattone state per imbattervi.

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Martina248 Opinione inserita da Martina248    04 Settembre, 2019
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Penso che questa sera non penserò più

Un uomo. Un uomo qualsiasi, un anonimo. L'everyday man. Una madre, una moglie, una figlia e qualche ricordo sbiadito. Un crimine senza nome.
Questo, tutto ciò che basta per una condanna a morte.

Il primo Hugo, tanto giovane quanto agguerrito, attacca senza peli sulla lingua il boia, la ghigliottina, la pena di morte, cosciente del fatto che "Il castigo non deve punire per vendicarsi, deve correggere per migliorare".
Con lucidità Hugo si chiede come un uomo possa ergersi a regolatore della vita di un altro e decidere chi è degno di vivere e chi no sostituendosi a Dio poiché "Vendicarsi è dell'uomo, punire è di Dio".

Ma soprattutto, egli mette in discussione la figura del colpevole. L'assassino, a primo acchito terribile malvagio, non è altro che un uomo qualsiasi che trema di fronte alla morte e anela alla vita e, paradossalmente , egli è per Hugo un innocente "Che ignora la colpa del suo destino" poiché "Nessuno gli ha insegnato a sapere cosa faceva".
Si dispiegano nel corso del breve romanzo i disperati pensieri di un uomo in cui emerge la fragilità umana che spesso, con superficialità, si fatica a scorgere in tali figure.

Consiglio la lettura della prefazione alla quinta edizione (Marzo 1832) in cui Hugo contestualizza l'opera e mette in luce varie argomentazioni per perorare la sua causa.

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68 Opinione inserita da 68    02 Ottobre, 2018
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Inammissibilità di una morte certa


Condannato a morte! L’ affannoso e disperato respiro di un individuo giovane, sano e forte, rinchiuso in una piccola cella, un conto alla rovescia dentro le settimane, i giorni, le ore, i minuti che lo separano da una condanna definiva, la ghigliottina.
Un diario lucido, spietato, denuncia e condanna di uno spettacolo disumano al cospetto di una folla gaudente di curiosi, un muro di sconosciuti, l’ insopportabile peso di tanti sguardi fissi su di se’.
Un pathos crescente ed agghiacciante, una corsa contro il tempo nella attesa di una grazia, una fuga impensabile, sogni e ricordi di un passato felice vissuto solo un anno prima all’ interno delle gioie domestiche tra donne innocenti, oggi lo sguardo spaventato di una bambina che non riconosce il volto tumefatto e sofferto del proprio padre, solo una maschera del passato.
Il bel ricordo dell’ infanzia e della giovinezza, “…stoffa dorata dai lembi sanguinanti “…, tra allora ed adesso un fiume di sangue, il sangue dell’ altro ed il proprio e … “ quella vita piana e quieta lasciata e vista da lontano… “, attraverso … “ i crepacci dell’ abisso…”, una vita che gli altri continuano a percorrere.
L’ osservare ed il descrive angosce siffatte in un diario potrebbe alleviare le sofferenze, forse scrivere non sarà inutile, ma … “ un verbale del pensiero agonizzante, autopsia intellettuale d’ un condannato ed una lezione per quelli che condannano “...
Rifletteranno sulla differenza tra il dolore fisico e quello morale, e che cosa si intende per morte indolore e fine dolce, senza sofferenza, ma chi ne possiede la controprova e la consapevolezza?
Condannato a morte! … “ L’ infernale pensiero è sempre qui, in una rivoluzione compiuta in se’”….
Fino a questo infausto momento si respirava, si palpitava, si viveva nello stesso spazio degli uomini, adesso si distingue una barriera tra se’ e il mondo e gli altri assumono l’ aria di tanti fantasmi.
Non resta che chiudere gli occhi, coprirli con le mani e dimenticare il presente nel passato.
Una denuncia cruda, spietata, terribilmente vivida e pulsante, un crescendo di lucida consapevolezza, una contrapposizione luce-buio, speranza-disillusione, ragione-volontà , prigionia-libertà’, un percorso obbligato ed il flebile soffio di una grazia che non c’è e mai ci sarà.
Non viene citata la colpa commessa e non importa, così come, già al momento della nascita siamo stati condannati a morte certa, rimane un senso profondo ed un grido prolungato e strozzato di una attesa protratta, tra attimi di serenità e sospiri di umana dissolvenza, per il resto la terribile consapevolezza di un destino certo e di una fine crudelmente spettacolarizzata, una gogna “mediatica “ macabra e violenta, del tutto disumana, al servizio di un senso di giustizia ingiusto!!

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Belmi Opinione inserita da Belmi    01 Aprile, 2016
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Riflessioni sulla pena di morte

“L’ultimo giorno di un condannato a morte” è uno di quei libri che non lascia indifferenti, sia per il messaggio che porta sia per l’intensità con cui viene colpito il lettore.

Dalla quinta edizione in poi, pubblicata nel 1832, il libro si presenta composto anche da due parti che precedono il libro. La prima è una prefazione, fatta da Hugo in cui la sua dichiarazione contro la pena di morte è ben argomentata e decisa, con esempi da brividi, “Niente boia dove basta il carceriere”. La seconda parte è “Una commedia a proposito di una tragedia”, in cui Hugo immagina la società del suo tempo, alle prese con la lettura del suo romanzo, in cui tutti i protagonisti sono indignati, ma anche tutti informati.

“Bisogna convenire che i costumi si stanno depravando di giorno in giorno. Mio Dio, che idea orribile! Sviluppare, scavare, analizzare, una dopo l’altra e senza trascurarne nessuna, tutte le sofferenze fisiche, tutte le torture morali che deve provare un uomo condannato a morte, il giorno dell’esecuzione! Non è atroce? Vi rendete conto, signore, che si è potuto trovare uno scrittore per questa idea, e un pubblico per questo scrittore?”

La terza parte è l’opera, anzi il capolavoro vero e proprio. Hugo, sotto forma di diario, ci racconta le ultime settimane di vita di un condannato a morte. Di lui sappiamo pochissimo, ma i pochi stralci che ci regala sono importanti. Molto toccante è la parte dedicata alla figlia e al loro incontro. Hugo condanna la pena di morte e ci da anche un piccolo assaggio di quello che aspetta coloro che invece andranno al bagno penale (grazie a “Papillon” di Henri Charriere ho il quadro della situazione chiaro su questo argomento) e di come la società lì “accoglierà” il giorno della fine della pena.

Tramite il suo protagonista, Hugo ci mostra “una progressione sempre crescente di dolori, in questa specie di autopsia intellettuale di un condannato”. La sensazione che mi è rimasta più addosso e la continua speranza dell’uomo, fino alla fine. Lei è sempre lì e quando si riaccende ogni volta, è più dura da digerire. E poi l’attesa, il non sapere e il popolo, si proprio quest’ultimo ha un ruolo tutto suo.

Dopo la lettura di questo testo, ho deciso di proseguire la lettura di altre opere su questo tema. Un giovane Hugo, che spera di colpire la società, ci mostra qualcosa che purtroppo non è stato ancora bloccato duecento anni dopo.

Lo consiglio a tutti, sia per l’intensità e la profondità dell’argomento sia per la riflessione e il pensiero che rimangono al lettore.

Buona lettura!

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sonia fascendini Opinione inserita da sonia fascendini    05 Settembre, 2015
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Il marito della vedova

Un giovane Victor Hugo sceglie di dire di no alla pena di morte con un racconto essenziale, sintetico eppure complesso nel descrivere il dramma che precede gli ultimi giorni di un condannato a morte. Ha quasi dell'incredibile che un poco più che ventenne sia riuscito a descrivere con questa intensità che cosa si possa dibattere nella mente di chi aspetta che la propria ora rintocchi per mano del boia.
Hugo decide di ricorrere ad un diario scritto da un condannato dal giorno in cui viene emessa la sentenza di primo grado, fino a sei settimane dopo, a pochi minuti dalla salita sul patibolo. Sappiamo poco su questo carcerato: non il nome, non il delitto di cui è accusato. Salvo qualche riferimento alla sua bambina che rimarrà orfana non c'è nessun tentativo di impietosirci. Non si professa innocente, non cerca attenuanti. Lo stesso galeotto ci spiega di voler scrivere quelle righe nella speranza che l'opinione pubblica si renda conto della barbarie della ghigliottina. Con amarezza aggiunge che forse ha poco senso impegnarsi per abolire la pena di morte, visto che in ogni caso non sarà lui a godere di questo atto di civiltà.
Le descrizioni delle condizioni di vita indegne dei carceri sono state raccontate in innumerevoli romanzi. Questo ha qualcosa di diverso: ci parla delo stato d'animo del condannato. Ci racconta che dentro la sua testa solo tre parole trovano spazio: condannato a morte. Ci racconta del desiderio di farla finita il prima possibile e dell'assurdità che i suoi carcerieri si impegnino per evitare che anticipi il lavoro del boia. Ci parla della folla che sbava di fronte alla ghigliottina in attesa di vedere il sangue e della situazione desolante i cui si trovano carcerieri e cappellano per i quali anche la morte è diventata routine.
Bel libro, sicuramente ancora attuale: se anche le condizioni di alcuni bracci della morte sono migliorati, di sicuro non c'è nulla che possa porre sollievo ad un'attesa di questo tipo. Hugo ci dice che ognuno di noi ha una condanna a morte se pur dilazionata nel tempo. Il dramma maggiore non è averla, ma conoscere il giorno in cui sarà eseguita. E ancora la chiamano giustizia.

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Rollo Tommasi Opinione inserita da Rollo Tommasi    17 Mag, 2015
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Tre stazioni per il patibolo

“Tutto è prigione attorno a me; ritrovo la prigione sotto tutte le forme, sotto forma umana come sotto forma di cancello o di catenaccio. Questo muro, è prigione di pietra; questa porta, è prigione di legno; questi secondini, sono prigione in carne e ossa. La prigione è una specie di essere orribile, completo, indivisibile, metà casa, metà uomo. Sono in sua balia: mi cova, mi avviluppa con tutte le sue pieghe. Mi racchiude nelle sue pareti di granito, mi chiude a chiave con le sue serrature di ferro, e mi sorveglia con i suoi occhi da carceriere. Ah! Miserabile! Che cosa sarà di me? Che cosa mi faranno?”

Bicetre, la Conciergerie, la Greve. Tre tappe verso l'esecuzione capitale.
Bicetre era ospizio per vecchi ed alienati (tanto che di qualcuno che compia un atto insensato ancora si dice in Francia: “è scappato da Bicetre") ma anche prigione sita nel dipartimento della Senna.
La Conciergerie è l'antico carcere di Parigi ubicato nel palazzo di giustizia omonimo, dove venivano incarcerati per breve tempo i condannati a morte prima di essere giustiziati.
La Greve è la piazza dove nel giorno stabilito viene montata la “creatura” del dottor Guillotin, e la folla si assiepa festante per vedere la lama cadere e la testa cascare.
“L'ultimo giorno di un condannato a morte” è la narrazione in prima persona di queste tre tappe, fatta da un carcerato che si avvicina sempre più alla fine. Narrazione della propria pena, dunque; ma anche narrazione della prigionia in uno spazio buio e angusto, delle procedure umilianti e impietose della burocrazia carceraria, di isolati lampi di umanità e dei diversi modi in cui (almeno in apparenza) ogni condannato vive i suoi ultimi giorni.

Sull'assurdità della pena di morte è stato detto e scritto: sono numerosissime le opere letterarie, teatrali e cinematografiche che ne parlano.
La visuale scelta da Hugo non è quella, astratta, di Cesare Beccaria, che spiega in punto di diritto l'errore insito nella “morte di Stato”. Nemmeno è quella del film “Dead man walking” – diretto da Tim Robbins – che punta i riflettori sulla procedura attraverso cui alcuni Stati americani amministrano la pena di morte (con la ridicola pretesa che in tal modo essa sia legittimata, mentre sempre e soltanto di giustiziare un essere umano si tratta).
Con quest'ultimo film, il pamphlet di Victor Hugo ha in comune l'importante presupposto: il condannato è colpevole (il libro fa solo intuire che ha compiuto un omicidio, in quanto egli stesso parla di un fatto di sangue). Ciò che rende possibile allo scrittore francese far intendere come la pena di morte non sia ingiusta per l'innocente e proporzionata per il colpevole: essa non ha alcuna reale giustificazione giuridica ed è dunque inattuabile da uno Stato democratico.
Ma prima ancora è disumana. Difatti il punto di vista del racconto è il dolore, lo smarrimento, la pena di un uomo al quale la fine è nota: le settimane che lo separano dall'esecuzione non sono un'ultima occasione, ma la vera sofferenza che gli viene inflitta. Un'idea che il romanziere francese riesce a far risaltare ancora di più nei pochissimi incontri che il condannato ha in carcere con altri uomini: il prete che riconosce come un ennesimo burocrate anziché come un umile intermediario della misericordia di Dio, il vecchio che lo seguirà verso l'esecuzione ed al quale regala la propria redingote più per paura che per compassione, e così via.
Togliete a vita la libertà ad un uomo e ancora gli resterà qualcosa, sembra dire Hugo. Toglietegli la speranza, e davvero gli avrete preso tutto.

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"Notre-Dame de Paris" dello stesso autore; "Il conte di Montecristo" di Alexandre Dumas; "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria; "Il perdono responsabile" di Gherardo Colombo...
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FrankMoles Opinione inserita da FrankMoles    06 Marzo, 2015
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La bilancia della giustizia

“Ci sono due modi per dar conto dell’esistenza di questo libro. O è realmente esistito un fascio di fogli ingialliti e irregolari che registravano, uno ad uno, gli ultimi pensieri di uno sventurato; o si è incontrato un uomo, un sognatore impegnato a osservare la natura a beneficio dell’arte, un filosofo, un poeta, chissà, che ha fatto di un’idea la propria fantasia, che l’ha presa, o meglio, che si è lasciato prendere da essa e non ha saputo liberarsene se non riversandola in un libro. Di queste due spiegazione, il lettore sceglierà quella che più gli aggrada.”

Condannato a morte!
Queste tre parole risuonano nella mente dell’autore di questi fogli ingialliti e irregolari. E’ un uomo, ma non ha un nome. Ha una colpa, ma non sappiamo quale. Ha una vita, ma ancora per poco. E’ solo nella sua cella, ma questa è popolata dai fantasmi dei suoi precedenti “inquilini”. Nella voce anonima di questo uomo, lo scrittore (o sognatore o filosofo o poeta) Victor Hugo ha riversato con veemenza la sua critica alla pena di morte, che nullifica un essere umano, a prescindere da chi questo sia o da cosa abbia fatto. La pena di morte era ai tempi di Hugo una triste consuetudine spettacolarizzata nella quotidianità di una Parigi troppo indifferente alla vita e all’umanità.

“Miserabile” e “orrendo”.
Colpisce con quanta frequenza ritornino queste due parole nel diario del condannato, la prima riferita a sé stesso, la seconda a ciò che lo circonda. Privato del sole e del cielo, della famiglia e della libertà, egli racconta le troppo lunghe e troppo brevi ultime sei settimane della sua vita, quelle comprese tra la sentenza e la ghigliottina. Il viaggio nella sua mente si districa tra il pericoloso far nulla nella sua sordida cella e i ricordi di una vita passata che riaffiorano, come nel più banale degli esseri umani. Tutti sappiamo che la morte fa parte della vita, ma avere la certezza del momento in cui questo accadrà determina l’angoscia inesplicabile di un tragico conto alla rovescia. Speranza e rassegnazione si rubano continuamente il posto nell’animo del condannato; ma ciò che vince è lo sgomento di fronte all’apparentemente ordinaria amministrazione della vita di un uomo, indifferente come una pietra della cella, banale come un nome nell’agenda del prete confessore, morto come una persona dimenticata.
Che differenza c’è poi tra un condannato e un re? Denaro e potere possono consentire a qualcuno di aver nella sue mani la speranza di un animo e la vita di un corpo?
Che differenza c’è poi tra un condannato e un giudice? La vita è un prezzo troppo alto da pagare, soprattutto se giudicare spetta a Dio.
Che differenza c’è poi tra un condannato e la folla che assiste a un’esecuzione come a uno spettacolo? Forse che qualcuno di loro può dirsi certo che non toccherà anche a lui un giorno, o a un marito, una moglie o un figlio?
E’ dunque peggiore un condannato di chi lo condanna? O di chi assiste alla sua uccisione con entusiasmo? O di chi non lo salva avendone il potere?

“In questo processo verbale del pensiero agonizzante, in questa progressione sempre crescente di dolori, in questa specie di autopsia intellettuale di un condannato, non ci sarà più di una lezione per quelli che condannano? Forse questa lettura renderà la loro mano meno frettolosa, quando capiterà qualche altra volta di gettare una testa che pensa, una testa di uomo, in ciò che essi chiamano la bilancia della giustizia? Forse non hanno riflettuto, questi poveretti, su questa lenta successione di torture racchiusa nella sbrigativa formula di una sentenza di morte? Si sono mai soltanto soffermati sulla straziante idea che nell'uomo che sopprimono c'è un'intelligenza, un'intelligenza che aveva contato sulla vita, un'anima che non si è preparata alla morte? No. In tutto questo non vedono altro che la caduta verticale di una lama triangolare, e probabilmente pensano che per il condannato non esista nulla, né prima né dopo. Queste pagine li faranno ricredere. Pubblicate forse un giorno, fermeranno per qualche istante le loro menti sulle sofferenze dello spirito, poiché sono proprio queste che essi non sospettano.”

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Aurora_ Opinione inserita da Aurora_    25 Febbraio, 2015
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L'Uomo e la Morte

“L’ultimo giorno di un condannato a morte” è la prima opera che abbia mai letto di Victor Hugo. Il breve romanzo è straziante, angosciante e crudele. Con grandi abilità, Hugo riesce a trasmettere le sensazioni di un condannato a morte nelle sue ultime settimane di vita. Allora, come in un cinema d’epoca, nella mente del condannato si alternano le più svariate riflessioni, accentuate dal racconto in prima persona, che rende i suoi sentimenti ancora più vividi e percepibili. Non si conosce il nome dell’uomo, non si sa con precisione il delitto che ha commesso e nemmeno si hanno grandi informazioni sulla sua esistenza. Tutto ha inizio in una cella; in questa cella, l’uomo decide di scrivere il resoconto degli ultimi attimi della sua vita, con la speranza che quest’opera venga conservata e trasmessa alla figlia, che se ne possa servire per commuoversi e ricordare l’ultimo giorno di vita del padre, e ai giudici, agli avvocati, ai giuristi che possano riconoscere, leggendo queste pagine, la crudele sofferenza cui sottopongono un uomo condannandolo a morte. “Condannato a morte! Sono cinque settimane che abito con questo pensiero, sempre solo con lui, sempre agghiacciato dalla sua presenza, sempre curvo sotto il suo peso!”, questo l’incipit del romanzo. Perché un uomo condannato a morte non sente altro che il peso della morte stessa sempre premere sulle sue spalle, non vede altro che la morte e la prigionia in ogni figura od essere che lo circondi. Un condannato a morte non sembra altro che aver accettato il suo destino ma così, in realtà, non è. L’uomo, finché non ha la morte di fronte a sé, sembra viverla come un qualcosa di così lontano, un qualcosa che non gli appartiene, localizzato a milioni di anni luce da lui. La morte è il finale comune della vita di tutti gli uomini, la tenera culla cui tutti, chi prima chi poi, siamo destinati. Eppure pare così lontana da noi, come un cattivo pensiero che non fa altro che procurarci noia , che tentiamo di scacciare. Questo è quello che fa il protagonista, fino al momento della sua condanna. Egli vede la sua morte come un qualcosa di terribilmente lontano, quasi come se fosse un’epoca antica che non gli appartiene e osa perfino concludere: “lavori forzati?! Meglio la morte!”. Ovviamente, come si suol dire, “la speranza è l’ultima a morire” ed è proprio questa che accompagna il protagonista fino ai suoi ultimi momenti. La speranza di ottenere la grazia dal Re, la speranza di riuscire a fuggire, la speranza di poter veder crescere la figlia e amare la moglie. Una speranza che diviene pesante, insistente, che si fa sentire e non si può far altro che provare pena, pietà e commiserazione per quest’uomo costretto alla morte che spera, in un barlume di lucida follia, di poter sfuggire al suo destino. A rendere il quadro ancor più terribile e straziante, è l’incapacità di chiunque di comprendere la sua sofferenza, di compatirlo e di consolarlo. Le persone attorno a lui, ormai, non lo concepiscono più come un uomo, bensì come un oggetto e non riescono nemmeno a riconoscere in lui emozioni ed umanità. Che questo forse sia dovuto al fatto che l’umanità tutta, e non solo il nostro protagonista, concepisca la morte come un qualcosa di così lontano, come un’immagine sfocata e irraggiungibile? La morte non ci appartiene, la morte è qualcosa di sfuggente, che non è sotto il nostro controllo, che ci procura ansia e terrore. E come potremo noi, esseri umani abituati ad avere ogni cosa sotto il nostro controllo, fuggire da questa sofferenza? Da un lato, sicuramente, percependola come un qualcosa che non ci appartiene, che non fa parte delle nostre vite e che “si, capita a tutti. Ma a me no!”. Dall’altro lato, il potere di decidere della vita di qualcuno, di poter condannare a morte un essere umano ci fa sentire forti, capaci di controllare questo essere così sfuggente che tanto ci terrorizza. Ci permette, quindi, di recuperare la nostra convinzione di un totale controllo, di un perfetto ordine. Ma è davvero così sbagliato il negare che la morte possa mai portarmi via con sé, il vivere come se potessi vivere per l’eternità? A voi le conclusioni e, come sempre, vi auguro una buona lettura!

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Ulysses Opinione inserita da Ulysses    24 Agosto, 2013
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il primo,grande Hugo

Il percorso artistico di molti autori,quasi la totalità,è rappresentabile come una montagna:si parte con le prime opere,che rappresentano la base della cima, poi il capolavoro,visto come vetta della scalata iniziata e coronamento della magia dell'autore e infine la discesa;vi sono però scrittori che mantengono un'altezza incredibile fin dall'inizio della loro carriera,oltre a nomi illustri troviamo l'abbastanza noto Hugo.Dico abbastanza perché troppo poco considerato,vista la sublime qualità di ogni suo scritto:nella sua poetica(perché in ogni sua opera vi è una traccia delle prime poesie) Hugo mantiene una piacevolezza,una ricchezza di contenuto,adattabile a ogni filosofia dall'empirismo all'idealismo,e una capacità di imporre immagini,stati d'animo e sensazioni solite dei grandi nomi della poesia come Leopardi o Shakespeare.Un esempio è dato da questo primo Hugo,trentenne,che si destreggia con inquietudini,speranze,illusioni e certezze di un uomo,un condannato a morte.Oltre ad essere un pugno al lettore(intendiamoci un piacevolissimo pugno che riesce a far crescere il lettore senza farlo annoiare,detto tale per la drammaticità della storia) è un meraviglioso fendente contro la pena di morte e la politica del tempo,che ha contribuito a aprire definitivamente una ferita già causata dallo scritto di Cesare Beccaria "Dei delitti e delle pene".
Oltre ad essere una condanna contro una pena ingiusta,è anche un altissimo racconto dove Hugo ci trascina in un vortice di emozioni.La storia presenta un condannato a morte dedito a ripercorrere la propria esistenza evocando le speranze e gli affetti perduti,narrando il suo terrore nell'attesa di una illusoria grazia,che neanche a dirlo non arriverà mai,passando per deliranti fantasie,dolorosi ricordi,e tremende profezie di un futuro che non vedrà mai.Un altro punto di interesse del romanzo è l'ambientazione,non propriamente romantica,di una prigione statale;questa è descritta magistralmente dall'autore che riesce a farci arrivare ogni angolo nella sua cruda verità,trasmettendoci odori e dolori,brevi attimi di luce a interminabili oscuri tutto condito dalle emozioni del condannato:dalle tristissime speranze alle lacrime più amare,dai momenti di delirio agli attimi di folle tranquillità,il tutto passando per varie situazioni(che includono ammirazione drammatiche di compagni di destino…) fino ad arrivare alla folla che assisterà al suo saluto al mondo,e alla fiera esalazione dell'ultimo respiro.Tra i momenti più toccanti e alti del libro vi sono:la previsione del futuro terribile che toccherà alla figlia debole,alla moglie flebile e alla mamma pronta ormai a seguirlo,e l'ultimo discorso con una stessa figlia che oramai non lo riconosce neanche come padre.
Non mi vengono in mente altre parole da spendere su questo opera,la quale non ne necessita,se non la maestria del giovane Hugo con cui ha saputo cucire le emozione, che queste memorie suscitano, a una prosa così meravigliosa da elevare Hugo a uno dei massimi romanzieri di sempre.

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consigliato a chi voglia leggere una condanna contro un' ingiustizia ricamata con maestria ed emozioni
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martino81 Opinione inserita da martino81    07 Marzo, 2013
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romanzo imperdibile

Il tema scottante come la pena di morte non poteva essere raccontato meglio come in questo romanzo..
Del protagonista di cui non sappiamo nulla ci viene trasmessa la rabbia,l'ansia,la depressione,l'angoscia
delle ultime settimane di vita.Personalmente lo definisco uno delle migliori opere in assoluto.sperando che un giorno venga abolita finalmente questa pena visto che la vita rimane sacra anche quella dei criminali.

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antares8710 Opinione inserita da antares8710    23 Febbraio, 2013
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Riflessione contro la pena di morte

Piccolo romanzo del grande scrittore francese Victor Hugo, L'ultimo giorno di un condannato a morte ripercorre le ultime sei settimane di vita del protagonista condannato alla ghigliottina. L'uomo, accusato di omicidio, trascorre gli ultimi giorni della sua esistenza in un turbinio di emozioni, riflessioni e ricordi, lontani e vicini, legati alla sua famiglia e alla sua vecchia madre. In questi giorni contrassegnati dall'inquietudine e dalla disperazione, l'uomo inzia a scrivere la sua storia nella speranza che quei pochi fogli possano in qualche modo essere un insegnamento per l'avvenire. Egli spera con tutte le sue forze che quelle pagine possano diventare un manifesto contro la pena di morte.
Di lui non sappiamo niente: non sappiamo il nome, l'età, l'aspetto, la condizione sociale, il lavoro che svolgeva prima di entrare in carcere. Niente. Non sappiamo nemmeno se la sua condanna è giusta oppure no, se veramente ha commesso l'omicidio di cui è accusato oppure no.
L'unica cosa che rimane, è la solitudine di un uomo davanti alla morte.
Scritto nella metà dell'800 da un Hugo poco più che trentenne, questo piccolo romanzo può sembrare un piccolo manifesto contro la pena di morte, tema che già in quell'epoca suscitava grandi dibattiti. E' un romanzo duro, un pugno che colpisce lo stomaco con violenza, grazie all'abilità dello scrittore di trasmettere al lettore il panico, la rassegnazione, l'angoscia e l'abbandono che prova il protagonista.

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