Caminito. Un aprile del commissario Ricciardi
Letteratura italiana
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A cosa serve allora, tutto questo mare?
Maurizio De Giovanni ci offre un lavoro nuovo ed originale, con un protagonista antico e sempre uguale, il noto commissario di polizia Luigi Alfredo Ricciardi, titolare della squadra omicidi in servizio presso la Regia Questura di Napoli durante il ventennio fascista, che ci appare ora cresciuto, maturato, con le stesse sfaccettature ma con gli angoli arrotondati come accade a chiunque dopo anni, rivisto dopo un lustro, nel corso della propria evoluzione. Lo scrittore napoletano non scrive, riporta; non inventa, riferisce; non racconta, espone. Il segreto dell’autore non è la felice inventiva del “fatto” che contraddistingue il suo personaggio più famoso, piuttosto è che egli stesso è persona estremamente sensibile, ricca di umanità, sente in maniera tangibile le umane emozioni, le condivide, è con quelle solidale, potremmo dire che è in qualche modo pervaso da un “fatto” analogo a quello del commissario Ricciardi. Sia il commissario che il suo creatore sono tra di loro in simbiosi, uno è l’alter ego dell’altro, accomunati non a caso dall’identica evidenza: la straordinaria, profonda, incisiva sensibilità, ricettività, disponibilità a “sentire” il “fatto” dell’esistenza, nel bene e nel male. Allora per Ricciardi, che vive in un’epoca cupa, grigia, ingiusta, talora disumana, il “fatto” consiste nel vedere i lati oscuri della vita, che per il mestiere che svolge, risultano essere gli ultimi istanti di vita, le ultime parole pronunciate dalle vittime per violenza omicida, o anche dalle tante vittime di fame, ingiustizia, sfruttamento, incidenti, disumana cattiveria, e tutto quanto può produrre la disumanità in sé stessa, l’egoismo, la miseria morale, l’indifferenza, che sono altre forme di violenza non meno gravi di atti compiuti da mano assassine. Sono fatti che neanche gli risultano utili ai fini delle sue indagini. Questo però non lo esime dal provare con rara intensità anche sentimenti di ben altra valenza, a corrispondere l’amore con la sua Enrica con pagine di rara letizia, delicatezza, poesia e rapimento estatico. Anche l’amore, si sa, può far male, perciò Ricciardi soffre: si strugge per la perdita della sua amata; si angoscia per la dittatura fascista oramai dilagante in progetti ancora più folli; per il crescente liberticidio, per la minaccia che incombe sui suoi più cari amici, come il dottor Modo, contrari e resistenti al regime; si rattrista per le traversie dei suoi sottoposti come il brigadiere Maione, a cui si vuole sottrarre l’amatissima figliola adottiva; si indigna per le leggi razziali, risente per le preoccupazioni dei suoi congiunti acquisiti di etnia ebraica; in particolare si tormenta per la sua unica figliola, Marta, a cui vorrebbe fosse risparmiata la sua stessa estrema sensibilità, e non provare le sue stesse pene. Ogni scrittore riversa parte di sé nelle proprie creature, è inevitabile; Maurizio de Giovanni risente anche lui di un “fatto”; per fortuna sua vive in tempi ben diversi, in democrazia, con più luce e meno ombre, e soprattutto è figlio della sua città, la città più solare, con più calore fisico e umano per unanime definizione. Allora De Giovanni non vede gli ultimi istanti delle vittime di cattiva morte, come Ricciardi, e però, da persona ricettiva qual è, “sente” benissimo i momenti di cattiva vita di quanti lo circondano, e continuamente gli parlano, gli dicono, gli riferiscono, sa i fatti buoni e cattivi della sua città, e di quelli scrive, quasi sotto dettatura. Li trasmuta in altri tempi, in epoca diversa, inventa cose e persone con la sua inventiva letteraria, ma parla di sé, della sua città, soprattutto rivela la sua umanità, la sua apertura mentale, la finezza d’animo, la sensibilità del suo cuore. I lettori già dal penultimo episodio anelavano sapere se Marta è coinvolta come Ricciardi dal “fatto”; non è importante saperlo, qui e ora basti precisare che la deliziosa bambina è come la sua mamma, un’anima semplice e buona, che “sente”, “recepisce”, “intende”. “comunica” con il cuore, è quel tipo di creatura angelica che rende la vista ai ciechi, la parola ai muti, il suono ai sordi, e la speranza e la gioia nel cuore di chi vive in tempi e modi poco felici. “A cosa serve allora, tutto questo mare”, viene da chiedersi, a cosa serve parlare di amore e sentimenti, allora, nel ventennio fascista, e ai nostri giorni, in tempi simili con identici venti di guerra? Serve, è l’Amore che ci fa vivere, sempre. La vita, come l’amore, è una danza, è un tango, d’improvviso si rivela un incanto, le nubi si dissolvono e un vicolo, un piccolo cammino, un Caminito, indica un nuovo orizzonte. Si usa dire che è dalle crepe che entra la luce. Ecco, è lo stesso per un vicolo, un caminito, un piccolo sentiero, “nù vicariello” come si dice a Napoli. Tutto questo mare serve, il tango nasce in Argentina, ma si può danzare anche a Napoli, tutto questo mare serve, non a separare i continenti, ad unirli. È un “fatto”.
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Il dolore e la speranza in un futuro migliore.
E’ il tredicesimo capitolo della serie dedicata al commissario napoletano Ricciardi, siamo nell’aprile del 1939, un mese primaverile particolare e suggestivo, un mese di profumi, novità, sorprese, ma anche di rimpianti e ricordi che scavano nell’anima e rinnovano dolori mai sopiti. E’ il caso di Ricciardi, ancora sconvolto per la dolorosa perdita dell’adorata moglie Enrica, cinque anni prima: vive parlandole come se ci fosse ancora, la sofferenza è attenuata dalla presenza della figlia, Marta, affidata alle cure di una cara amica, la contessa Bianca di Roccaspina, ed alle solerti attenzioni di una premurosa istitutrice, Nelide. Il momento storico non è dei migliori: il duce e l’alleato tedesco progettano guerre ed invasioni, le camicie nere spadroneggiano, ogni tanto qualcuno, specialmente se ebreo od omosessuale, scompare definitivamente o finisce perseguitato e recluso nel carcere delle isole Pontine. La vita a Napoli prosegue tra speranze e mugugni; il profumo del mare penetra nei vicoli e nelle strade, ove un’umanità variopinta tira a campare impegnata in traffici e attività di ogni genere. Un brutto giorno, però, viene casualmente scoperto un orribile delitto: in un boschetto alle spalle di un caseggiato in rovina vengo ritrovati, l’uno sull’altra, i cadaveri di due giovani: lei con la gola tagliata, lui con il cranio fracassato. Ricciardi inizia ad indagare e scopre, grazie all’aiuto di un amico medico legale e antifascista, che il giovane ucciso è il secondo ufficiale di una nave da trasporto e, clandestinamente, porta messaggi alle famiglie di oppositori del regime reclusi alle Pontine. Scopre anche che il delitto non è opera di fascisti: un funzionario dei servizi segreti, infatti, gli rivela che i servizi hanno occhi dappertutto e sanno tutto, ma non intervengono se le attività clandestine non mettono seriamente in pericolo la stabilità del regime. Dopo una lunga e complessa serie di indagini, emergono come veri colpevoli alcuni componenti della famiglia della ragazza uccisa: la poveretta, rifiutando un matrimonio con un boss della zona, aveva inconsapevolmente condannato a morte sé stessa ed il suo innamorato.
Si intreccia con il racconto principale un’altra storia, che coinvolge un collaboratore di Ricciardi, il brigadiere Maione ed una sua amatissima figlia adottiva: quando si fa vivo uno zio americano della ragazza, ricchissimo, deciso a portarsela via, scopre con l’aiuto del commissario che il lontano parente è un truffatore ricercato dalla polizia, speranzoso solo di mettere gli artigli sulla cospicua eredità della nipote. Suo malgrado sarà costretto a tornarsene oltreoceano con le pive nel sacco.
Confesso di non aver mai letto nulla di Maurizio De Giovanni, e sono rimasto piacevolmente impressionato dal suo stile narrativo: uno stile ricco di sfumature, che scava nell’animo dei personaggi e ne mette a nudo sentimenti, rimpianti, paure. La dolorosa ossessione del commissario Ricciardi nei confronti della moglie perduta, i suoi colloqui ricordandola, verranno guariti solo da una gita con la figlioletta Marta al parco, dove gli sembrerà di iniziare una nuova vita dedicandosi interamente alla bimba.
“Aprile che dà speranze, aprile che ne toglie, aprile che sussurra parole terribili, con il tono della poesia”.
Ma c’è anche un altro aprile, sotto i cieli lontanissimi di un altro continente.
“Aprile piovoso, aprile freddo. Aprile che sembra l’autunno. Aprile dall’altra parte del mondo”.
Un’altra storia, laggiù, dov’è nata un secolo fa una struggente melodia, “Caminito”, la musica composta nel 1923, il testo aggiunto nel 1926. Poche pagine di Maurizio De Giovanni sul testo (“piccola strada su cui ogni sera correvo cantando il mio amore, non dirle se ritornasse a passare che fu solo il mio pianto a bagnarti”) e su una misteriosa cantante, “bella, di una bellezza animale, felina”, fuggita dall’Italia per la paura di essere rapita, torturata, forse uccisa. Una cantante che si esibisce in un caffè e, accompagnata dal suono del bandoneon, interpreta bene la melodia del tango, ma non sa “viverla” immedesimandosi nel dolore senza speranze , buio, inestinguibile del testo: il suo personale dolore invece, le fa notare il maestro di canto, non è così profondo, sembra intravvedere una lontana speranza, un sogno realizzabile “di mare, di primavere che sembravano primavere, di occhi verdi e di speranze”.
“Bastava saper aspettare”, conclude l’autore.
E sarà probabilmente un’altra storia…