Narrativa straniera Classici Alla ricerca del tempo perduto
 

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Alla ricerca del tempo perduto

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"A confronto con l'opera di Proust, quasi tutti i romanzi che si conoscono sembrano dei semplici racconti. Alla ricerca del tempo perduto è una cronaca ricavata dal ricordo: nella quale la successione empirica del tempo è sostituita dal misterioso e spesso trascurato collegarsi degli avvenimenti, che il biografo dell'anima, guardando all'indietro e dentro di sé, sente come l'unica cosa vera. Gli avvenimenti passati non hanno più potere su di lui, ed egli non finge mai che quanto da tempo è accaduto non sia ancora accaduto, e che non sia ancora deciso quanto da tempo è deciso. Perciò non c'è tensione, non c'è acme drammatico, non c'è assalto e scontro, ne susseguente soluzione e pacificazione." (Erich Auerbach)



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Alla ricerca del tempo perduto 2022-11-12 14:59:17 siti
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siti Opinione inserita da siti    12 Novembre, 2022
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Sodoma e Gomorra

Volume corposo, l’ultimo curato personalmente dall’autore al fine della pubblicazione, pare contenga il periodo più lungo in assoluto: novecento parole, non ho verificato anche perchè mi sembra in linea con lo stile del nostro; ad ogni modo è il vertice del periodare ipotattico che connota la prosa proustiana.
Volume complesso per la forma e per il contenuto, si apre con l’introduzione della materia principe: l’omosessualità che attraverso una metafora legata al mondo botanico diventa il mezzo che rende visibile un pensiero che oggi sarebbe definito omofobo. Il narratore compie infatti una serie di lunghe considerazioni che, oltre a essere percepite disturbanti oggi, prevale di gran lunga un’altra etica, determinano una nuova visione del medesimo. Alla voce autorevole e filosofica che finora ci ha accompagnati pare sostituirsi infatti un piccolo borghese che niente ha da fare nella vita se non spiare quella altrui, cogliendone i risvolti più intimi in puro assetto voyeuristico: assiste a un amplesso tra il barone Charlus e il vecchio farsettaio Jupien ed esprime le sue considerazioni sulla deriva morale dell’aristocrazia, facendo assurgere a simbolo di essa lo stesso barone, una delle figure più riuscite del romanzo.
Il quarto volume è però anche quello nel quale l’amore vissuto in prima persona viene rappresentato in maniera più esplicita: il narratore racconta di sé e di Albertine e soprattutto dei suoi sospetti che anche la ragazza abbia tendenze sessuali lesbiche, ciò gli fa vivere un sentimento di forte gelosia che lo fa agire in modo decisamente immaturo e indeciso. Un uomo bisognoso ancora del conforto materno, irrisolto e fondamentalmente infelice: perso tra il ricordo di luoghi vissuti e la riscoperta dei medesimi che si mostrano ormai mutati per sempre. Balbec non è più la stessa, le situazioni sono altre, sempre artificiose ma anche scadute in uno scenario al cui centro vi è un tentativo meschino di emulazione da parte di una nobiltà non paragonabile a quella cittadina dei Guermantes. Un mondo parallelo, ancora più ridicolo del precedente; una giustapposizione di vizi che non godono nemmeno del primato dell’originalità. In tutto questo, il narratore ancora ricorda la nonna e compiange un tempo che non tornerà.


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Alla ricerca del tempo perduto 2021-09-01 13:39:59 siti
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siti Opinione inserita da siti    01 Settembre, 2021
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La parte di Guermantes

Il terzo volume della Recherche è notoriamente conosciuto come quello non solo più lungo, ma anche come quello più impegnativo, eppure è un passaggio obbligato e , nell’economia generale dell’opera, necessario quanto il resto. É infatti il volume che introduce il protagonista nel bel mondo dell’aristocrazia parigina, in pieno Faubourg Saint-Germain, e ne rappresenta insieme l’anelito iniziale con la fascinazione conseguente riconducibile ad esso, unite al disincanto conseguente. Il protagonista vive il naturale trapasso dall’adolescenza alla giovinezza, coincidente con il trasferimento della sua famiglia presso un’ala del palazzo dei Guermantes, a Parigi. Sono lontani ormai i tempi di Balbec, i grandiosi scenari della costa normanna, le deliziose pulsioni giovanili del suo protagonista, rappresentanti nel secondo volume; qui la faccenda si fa seria: occorre mettersi in gioco in prima persona, sperimentare se stessi, scoprire, capire e crescere in una diversa consapevolezza.
Di salotto in salotto, il sogno si trasformerà in realtà, quella più tangibile possibile e insieme la più effimera: nomi, solo nomi, titoli, relazioni, parentele, un coacervo di apparenza nel quale la sostanza dell'essere umano pare disgregarsi e quasi annullarsi. Eppure, mentre la critica sottile al bel mondo si insinua, tutto diventa la sua celebrazione. L’Opéra, Doncières - cittadina militare e aristocratica-, il salotto di Madame de Villeparisis, la casa a Combray, il salotto dei Guermantes sono gli spazi di questa dilatata azione scenica che è propedeutica alla rivelazione di un’esistenza più autentica. Insomma, nonostante una subdola insofferenza che potrebbe minare la lettura persa in mille lungaggini, oziose come la più genuina aristocrazia, chi entra in quei salotti e si accomoda, ha presto modo di riconoscere l’intima essenza dell’opera: cercare nella misura del tempo, entità astratta e sfuggevole, il senso dell’Io. È la deliziosa governante Françoise fin da subito a suggerire al narratore l’impossibilità di conoscere realmente le persone con le quali stringiamo relazioni, anche le più intime, sempre, infatti, aleggia un’ombra che è difficile diradare e oltre la quale non è dato sapere se l’idea che ci costruiamo degli altri corrisponda a una minima parvenza di realtà. O ancora è lo stesso protagonista, poche pagine oltre, a ragionare sull’inutilità del ricercare se stessi con il tornare nei luoghi già vissuti, è necessario semplicemente affidarsi al volo più lieve, più immateriale, più vertiginoso, più ineffabile, più immortale “ dato da “certe impressioni fuggitive”. Il tempo non è misurabile, tanto meno quello trascorso, lo si può però recuperare, ricercandolo con la migliore inclinazione possibile dei sensi. Svanisce l’idea del possesso e del tempo e dello spazio. Si fluttua. E allora subentra l’arte, pittorica in primis, capace di fermare l’attimo per poi proiettarci nel suo scorrere e farci perdere di nuovo. Il lettore avrà modo di imbattersi spesso in queste riflessioni, vero leit-motiv dell’opera, e di ritrovare il sentimento dei legami familiari, stupende le pagine che narrano la morte dell’amata nonna, senza privarsi di altri interessanti spunti tematici, uno su tutti l’onnipresente Affaire Dreyfus, complice di insinuare nel bel mondo l’autenticità del dubbio.

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Alla ricerca del tempo perduto 2019-07-22 12:43:52 siti
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siti Opinione inserita da siti    22 Luglio, 2019
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Dalla parte di Swann

“Il buon angelo della certezza” veglia su di noi ad ogni risveglio, ci posiziona nello spazio e nel tempo e ci dota di bussola, necessaria per navigare nel mare della vita, uniche coordinate a disposizione l'identità e la memoria. Siamo il prodotto di una stratificazione incessante che si compie lungo tutto il corso dell'esistenza e che concorre a definirci, a plasmarci e a restituirci un senso di appartenenza talmente fugace che basta il sonno successivo a destabilizzare ma anche a riplasmare. Identico processo di stratificazione si compie in noi ogni qualvolta un' opera letteraria si situa così profondamente nel nostro Io da concorrere, da allora in poi, a fornire una chiave di lettura della realtà, una sorta di materiale galleggiante nella nostra memoria letteraria che altre letture successive sapranno richiamare da questo mare magnum fluttuante che siamo noi: idee, emozioni, immagini, sensazioni, ricordi. Questi, tuttavia, non è semplice attivarli, il ricordo spesso non è un atto volontario, è piuttosto un processo di innesco, imprevedibile; nella vita non è raro che il richiamo passi per la sfera sensoriale: un odore, un sapore, mentre nella città di carta l'unicuum rappresentato dalle parole stampate su foglio bianco non pare offrire alcun riscontro. È la decodifica di quei segni, i significanti, che attiva i significati, ricostruisce immagini, forgia concetti, propone quadri visivi, genera storie. E alcune volte, quelle storie, le hai già sentite, non tali e quali: ecco è a quel punto che ti accorgi che sono state richiamate. Proust chiama Balzac. Per fortuna mi accade questo corto circuito solo nella seconda delle tre parti che compongono il primo tassello di questo romanzo, “Un amore di Swann” ,mentre “Combray” e “Nomi di paesi:il nome” mi iniziano prima e mi riportano poi alla meravigliosa unicità di questo autore e al suo tratto distintivo. Una scrittura, restituita dalla splendida traduzione di Giovanni Raboni, dalla prosa limpida ed efficace, nutrita di capacità visionaria che niente ha del fantastico e dell'irreale ma di essa imbevuta all'atto del sigillo operato dal ricordo. All'autore la maieutica della liberazione. Nel primo volume il narratore bambino, le sue paure, i suoi affetti, i suoi luoghi e gli adulti in una società che pare ciecamente cristallizzata in un tempo che non c'è più. Una paralisi inutile in un'incessante divenire che il ricordo riuscirà forse a restituire in quella breve porzione temporale che chiamiamo il nostro tempo.

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Alla ricerca del tempo perduto 2018-03-28 13:54:43 Martin
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Martin Opinione inserita da Martin    28 Marzo, 2018
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La verità dell'arte

“Alla ricerca del tempo perduto” del francese Marcel Proust è sicuramente una di quelle opere che non ha bisogno di presentazioni: le sue quasi quattromila pagine, del resto, non passano inosservate. Ma ciò che ha reso famoso il romanzo di Proust è sicuramente la luminosità che promana dalle immagini, dalle tortuose vicende, dai colori, dalle riflessioni, dalle sofferenze, dalle nostalgie e persino dai momenti morti che punteggiano questo labirinto d’inchiostro.
Quando, più di un anno fa, iniziai a leggere quest’opera, regalatami da alcuni dei miei più cari amici, ero convinto di essere alle soglie di un cammino che mi avrebbe prima o poi condotto a un prezioso tesoro, al senso della vita, alla formula per la felicità, a un qualcosa al cui confronto la pietra filosofale ricercata dagli alchimisti e la prova dell’esistenza di Dio dei logici medievali sarebbero stati ben poca cosa. Ma dopo aver terminato questa faticosissima impresa, sento di non aver nulla fra le mani, sento soltanto un vuoto che ha preso il posto di tutti quei personaggi a cui mi ero affezionato, come la vivace Madame de Guermantes o l’acuto Swann, e che non affollano più la mia mente. Quegli ampollosi nomi francesi, sulla cui pronuncia sono sempre stato incerto, già cominciano a sgretolarsi e a piombare nell’oblio. Un piccolo universo si era schiuso, più di un anno fa, ed ora è scomparso, trascinandosi dietro stelle e desolati pianeti, di cui permangono, nel vuoto, soltanto tenui vestigia, conservate dalla memoria.
Non ho ottenuto la formula della felicità, ma almeno ho imparato a farne a meno. E questo perché la felicità, così tanto bramata, non “ha quasi che un’unica utilità; rendere possibile l’infelicità”. “Occorre – scrive Proust nell’ultimo dei sette libri che compongono l’opera magna– che nella felicità si formino legami forti e dolci, di fiducia e tenerezza, affinché la loro rottura ci susciti quella lacerazione così preziosa che si chiama infelicità. Se non fossimo stati felici, non foss’altro che a causa della speranza, le sventure sarebbero prive di crudeltà e di conseguenza resterebbero infruttuose”. Proust è, dunque, un masochista che fa propaganda della sua aberrante filosofia di ricerca del dolore? Del resto non è da tutti dedicare interamente la propria esistenza alla descrizione minuziosa di amori travagliatissimi, come quello del protagonista del romanzo con l’esuberante Albertine, che lo tradisce con delle ragazze, dominati da quel “mostro dagli occhi verdi” che prende il nome di gelosia.
In realtà Proust è semplicemente realista: l’infelicità è ciò che ci rende umani. Già Leonardo da Vinci intuì, secoli fa, che il tratto che distingue le piante dagli esseri animati è la sofferenza, che permette a questi ultimi di scampare alle minacce e che permette di elaborare strategie di auto-difesa. La sofferenza è la molla che porta l’animale, soprattutto se circondato da altri (l’istrice schopenhaueriano si ferisce accanto agli altri della sua specie) e ancor di più l’uomo, questa scimmia nuda e indifesa, ad evolversi, ad arricchirsi di esperienze, a ricercare, a plasmarsi. La sofferenza è, per Proust, all’origine dell’introspezione (soffrire è alla fine un domandare a se stessi) e, dunque, all’origine dell’arte: perché l’arte non è che il rituale attraverso cui evocare il proprio spirito, quello a cui solo l’evoluzione del dolore dà solidità, mentre gli altri, come Albertine, mutano continuamente volto, ed è addirittura l’unico modo che ci è permesso per comunicare. “Ma allora, questi elementi, tutto questo residuo reale che siamo costretti a tenere per noi stessi, che non è nemmeno possibile trasmettere conversando tra amici, tra maestro e discepolo, tra due amanti, quest’ineffabile che differenzia qualitativamente ciò che ognuno di noi ha sentito e che è costretto a lasciare alla soglia delle frasi, dove non può comunicare con gli altri se non limitandosi a dei punti esteriori comuni a tutti e senza interesse, non è forse l’arte […] che lo mette in luce, esteriorizzando nei colori dello spettro la composizione intima di quei mondi che chiamiamo gli individui, e che senza l’arte non conosceremo mai?”. Ma per giungere alla verità dell’arte, alla verità del romanzo, Marcel (il protagonista dell’opera ha lo stesso nome dell’autore) ha dovuto compiere un tormentato calvario ora lungo la strada di Guermantes, fatta di strepiti mondani, mancanza di empatia (alla fine del terzo libro i signori di Guermantes non provano alcunché di fronte alle sofferenze del loro amico Swann, in procinto di morire), snobismo e vizio, ora lungo la strada di Swann, la strada dell’amore, all’apparenza rosea, costeggiata da fiori di biancospino, ma in realtà butterata dei segni implacabili del vizio e della menzogna. Soltanto questo lungo itinerario fatto di sofferenze lo porta alla verità dell’arte, alla decisione di scrivere un romanzo: è il ricordo di questo percorso tutto umano, intriso del vermiglio del dolore, rievocato ora dalla pietra su cui inciampa prima di recarsi dai Guermantes dopo tanto tempo e ora dal rumore di una posata sul piatto, che lo spinge a scrivere.
Ho percepito nel non credente Proust una sorta di nostalgia del cattolicesimo: il primo capitolo di “Dalla parte di Swann”, il primo volume, incentrate intorno all'infanzia del protagonista, vissuta a Combray, sono quelle più vivide, più colorate (indimenticabile la descrizione delle ninfee che il piccolo Marcel ammira), sebbene l’ombra della sofferenza sia sempre presente (emblematica l’affannosa ricerca del bacio materno), hanno un perno centrale, che è la cattedrale di Combray, che svettante domina e rassicura. Nel mondo che ha fatto a meno di Dio, invece, quello della mondanità aristocratica e borghese (soltanto M. Charlus è un fervente cattolico ed è ambiguamente al tempo stesso il più vizioso di tutti e la vittima sacrificale dell’alta società), pullulano gli idoli del nome, della reputazione, delle mode, della competizione. Ma è il tempo, che tutto può e che, alla conclusione del libro, è allegorizzato dalla figura di un vescovo che si trascina con al collo la croce, a disvelare la religione fasulla imbastita meschinamente: le matinée dei nobili, i quali, una volta, a teatro, erano apparsi a Marcel come delle divinità marine, abbondano di arrivisti e borghesi camuffati, mentre i nobili stessi, consunti dall’età e i cui volti sono anticipazione della morte, hanno perso ogni densità ontologica. Il dolore e il tempo, che sono così centrali nella teologia cattolica, sono le verità che la letteratura proustiana fa riaffiorare in tutta la loro grandezza.

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Alla ricerca del tempo perduto 2018-02-20 08:04:12 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    20 Febbraio, 2018
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IL TEMPO RITROVATO

“Alla ricerca del tempo perduto” inizia con il pronome “io” e termina con la parola “Tempo”. Se l’uso della prima persona singolare è in qualche modo fuorviante, perché ingenera la convinzione non del tutto corretta che di un romanzo autobiografico si tratti (mentre più che alla propria vicenda esistenziale o alla rappresentazione soggettiva di un mondo a Proust interessa la ricerca dell’essenza profonda, assoluta e ontologica dello stesso), il termine “Tempo” è invece quanto mai appropriato per definire l’opera. La “Ricerca” è infatti la più approfondita, magistrale e incredibile riflessione sul tempo e sul ruolo che esso esercita sulla vita degli uomini che mai si sia avuto modo di leggere (per lo meno in ambito narrativo). La “Ricerca” mette infatti in perenne tensione tra loro il passato e il presente, non solo (come sarebbe facile pensare) come mero confronto tra i due opposti cronologici, ma sforzandosi di riempire il “buco nero” che sta in mezzo, di sciogliere la matassa di fili che il tempo ha intrecciato, di scoprire le leggi universali che governano i cambiamenti non solo fisici, ma anche psicologici, ambientali e sociali, dell’umanità. La grande abilità di Proust di descrivere il mondo aristocratico in maniera quanto mai minuziosa e particolareggiata, quasi da miniaturista (fino quasi a sfiorare la pedanteria), non deve far credere che egli possa essere apparentato con la quasi coeva letteratura verista, di cui al contrario è sempre stato un critico accanito. Compito dell’arte per Proust non è di descrivere le cose o le idee, bensì di portare in luce il proprio mondo interiore. Ma per fare ciò non è sufficiente una mera attività intellettuale: l’artista deve essere “poroso” nei confronti di impressioni e ricordi, farsi assalire da essi e in questo modo costruire dei ponti verso il passato, con ciò creando una dimensione extra-temporale che sola può contenere quella verità che l’esperienza concreta e il mondo sensibile non sono in grado di dare. La madeleine proustiana e le intermittenze del cuore non sono più delle evenienze sporadiche e saltuarie, ma diventano il perno di un sistema filosofico in grado di informare di sé l’opera d’arte, anzi di farsi esso stesso opera d’arte.
Il momento fatidico in cui nel “Tempo ritrovato” tutto quanto ora detto si manifesta è una miracolosa epifania (o sarebbe meglio dire una serie di epifanie) avvenuta nel cortile di Palazzo Guermantes, mentre il narratore si sta recando a un ricevimento mondano. Proprio quando l’io narrante si sente sopraffatto dai dubbi nei confronti della letteratura (dubbi che coinvolgono tanto le sue qualità personali quanto la capacità della letteratura stessa di essere apportatrice di una qualche forma di verità), giunge dal passato un avvenimento destinato a cambiare profondamente la sua vita. Appoggiando il piede su una selce sconnessa del cortile egli viene invaso da una sensazione identica a quella provata molti anni prima camminando nel Battistero di Venezia. Questa immagine riemersa dal passato (supportata da altre significative coincidenze) dà il la a una serie di riflessioni sui motivi di questa insolita felicità affrancata dall’ordine del tempo, che procura a chi la prova il brivido dell’eternità. Recuperare questi momenti impalpabili e sfuggenti dal pozzo della memoria, convertire queste sensazioni in altrettanti leggi di ampio respiro e fissarle in un’opera d’arte diventa così da quel momento la missione dell’autore.
La lunghissima sequenza del ricevimento della principessa di Guermantes, in cui sembra di stare davanti a un quadro di Munch, tanto forte è l’impressione di sfacelo e di disfacimento provocati dal passare del tempo sui volti e sui corpi di persone che un giorno il narratore aveva conosciute nel pieno delle forze ed ora sono accarezzate dalla morte (e che Proust descrive con la stessa prodigiosa profondità di pensiero esibita nelle pagine del libro precedente in cui egli ragionava sugli effetti di una separazione lacerante o di un decesso improvviso), sembra far vacillare i propositi dello scrittore. Quella di Proust diventa così una titanica sfida al tempo: il tempo che conserva la verità intima delle cose e la fa riemergere di tanto in tanto è lo stesso tempo che cambia la fisionomia degli individui, gli ambienti sociali e la percezione stessa di cose e persone (basta pensare al modo in cui il ricordo di Swann viene rimosso o fuorviato dai frequentatori di quegli stessi salotti che un giorno lo avevano ammirato), con ciò ostacolando seriamente l’opera della memoria. Così è solo sulla memoria involontaria che lo scrittore può fare affidamento per scrivere la propria opera, in tal modo relegando la propria arte e la propria intelligenza in un ruolo secondario e accessorio rispetto alle mere facoltà sensitive, e costringendo se stesso a diventare una sorta di sacerdote di questa fragile e incorporea ancorché suadente religione del tempo. Conformemente a queste premesse, la “Ricerca” si conferma più che mai un universo autonomo e autosufficiente, in cui, per riuscire a raggiungere la verità extra-temporale dell’esistenza, vengono gradualmente meno i riferimenti al mondo reale (cronaca politica, avvenimenti storici, citazioni letterarie, ecc.), per lasciare invece spazio ai richiami al passato del romanzo, dai più vicini a quelli remotissimi. E’ per questo che nella seconda parte del “Tempo ritrovato” si respira una particolarissima atmosfera fuori dal tempo, in cui tutti i personaggi (da Charlus a Madame Verdurin, da Gilberte a Odette, da Rachel a Bloch) sono contemporaneamente quelli che sono, quelli che erano una volta e tutto ciò che sono stati nel frattempo, in una virtuosistica e caleidoscopica rappresentazione in cui Proust sta sempre dietro di essi (a cercare di registrare gli effetti e le conseguenze del loro passaggio sulla propria esistenza e su quella dei suoi simili) piuttosto che di fronte ad essi. Per riuscire a sostenere questo sforzo sovrumano di attualizzare il passato, Proust ha dovuto edificare una vera e propria cattedrale letteraria, capace di sfidare (laicamente, si badi, senza cioè il sostegno di una speranza ultraterrena) le leggi del tempo e di osare la prometeica scalata all’eternità. Proust non ha potuto avere la soddisfazione di vedere gli effetti nel tempo della sua opera, non ha potuto cioè verificare se quanto ha scritto sia riuscito davvero ad essere all’altezza della sua straordinaria ambizione. Il fatto stesso che noi, a distanza di quasi un secolo, leggiamo ancora e commentiamo le sue pagine, celebrando la sua “Ricerca del tempo perduto” come una delle opere più importanti di sempre, degna di stare al fianco dell’”Odissea” di Omero e della “Divina Commedia” di Dante, è però la prova migliore che la sfida di Proust è stata vinta al di là di ogni più ottimistica aspettativa.

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Alla ricerca del tempo perduto 2018-02-16 07:27:31 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    16 Febbraio, 2018
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ALBERTINE SCOMPARSA

La repentina e inattesa partenza di Albertine e la di poco successiva e non meno inaspettata notizia della sua morte gettano il narratore in uno stato di profondissima prostrazione, che rischia di minare il suo già fragile equilibrio psichico. In estrema sintesi, “Albertine scomparsa” potrebbe essere descritto alla stregua di una meticolosa, ossessiva e claustrofobica analisi delle strategie messe in atto dal protagonista per sopravvivere al dolore, e di come quella tra esse più potente sebbene in gran parte involontaria, ossia l’oblio, riesca, dapprima timidamente e poi in maniera sempre più incisiva, a fagocitare e cancellare tutto, a dispetto di qualsiasi volontà di perpetuazione del ricordo. Tutta l’opera di Proust può essere in fondo letta come la lotta incessante tra la memoria e l’oblio. Se però la memoria è destinata a trionfare sul piano della creazione artistica, in quello delle esperienze, delle sensazioni e dei sentimenti è il secondo a prevalere inesorabilmente, sia pure seguendo un percorso non rettilineo ed uniforme. Questo processo può essere suddiviso a grandi linee in cinque fasi. Nella prima – come ben sa chi ha subito un grave lutto – si assiste impotenti a una moltiplicazione del dolore: ogni luogo, ogni situazione, ogni circostanza fa ricordare la persona che non c’è più, rendendo più atroce il senso di vuoto da lei lasciato. Il rimpianto del narratore non è per una sola, ma per innumerevoli Albertine, tante quante sono le occasioni di ricordarla, e ciò porta a una continua, inevitabile recrudescenza della sofferenza. Inoltre il dolore provocato dall’assenza di Albertine fa rinascere in lui (giacché ogni dolore ha il potere di essere contemporaneo a ogni epoca della vita in cui si è sofferto) tutte le inquietudini sperimentate sin dall’infanzia. Come un nuotatore che si trovi ad affrontare una mareggiata, ciò che soprattutto gli interessa in questi momenti è di non essere sopraffatto dalle ondate crudeli dell’angoscia. Anche la speranza di dimenticare Albertine è però straziante, perché porta con sé come conseguenza necessaria che anche tutti i vari “io” che l’hanno amata dovranno morire. Nella seconda fase, forse la più subdola, il ricordo di chi è scomparso colpisce a tradimento, sotto la forma di stimoli involontari. Ad esempio, al protagonista è sufficiente il rumore dell’ascensore per rammentargli che l’unica persona di cui vorrebbe ricevere una visita non c’è più; e questo vale per una notizia letta su un giornale, per una musica ascoltata per strada, e così via. In questa fase, ancora lontana dall’elaborazione del lutto, il sentimento che prevale è la tristezza, la malinconia. Solo più tardi, in una terza fase, interviene nella vita di colui che soffre la concorrenza decisiva delle attrazioni e dei piaceri della vita: è qualcosa di irresistibile, a cui non è possibile sottrarsi, e che porta a una momentanea scomparsa del dolore. Il prezzo da pagare però per questo inizio di guarigione è il rimorso. Il narratore, di fronte al rinascente desiderio per le altre ragazze o per Venezia, si sente come se tradisse il ricordo di Albertine, preservato finora come una preziosa reliquia, e questo senso di colpa si aggiunge a quello di avere in qualche modo contribuito, con la sua ossessiva gelosia e la sua egoistica volontà di possesso, alla fuga, e di conseguenza alla morte, della ragazza. E’ solo in un quarto, assai più tardo momento, che si giunge alla vera e propria dimenticanza. La sofferenza, come inizialmente accadeva per l’oblio, emerge solo di quando in quando e il narratore si sente ora simile a quei mutilati che sentono a tratti il dolore di un arto amputato o a coloro che, dopo una lunghissima malattia, si sentono una volta guariti in un certo senso diminuiti, avendo la stessa occupato un grande spazio nella loro vita. Il rimpianto e il senso di vuoto non durano comunque a lungo, perché alla fine sopraggiunge l’indifferenza totale. Con un “coup de théâtre” da moderna soap opera, scarsamente verosimile e infatti destinato a rivelarsi infondato, Proust fa addirittura “risuscitare” Albertine per far provare al suo protagonista di non provare più nulla per il suo antico amore.
Le pagine di “Albertine scomparsa” sono tra le più autobiografiche scritte da Proust, il quale vi rievoca molte delle sue esperienze personali, in primo luogo quella con il pilota Agostinelli. Sotto questa luce esse sono anche estremamente crudeli, spingendosi quasi fino al masochismo. E’ fin troppo evidente come mai come in questo libro il protagonista giunga a svelare la propria meschinità e la propria grettezza. La sua sofferenza non gli impedisce infatti di continuare a nutrire sospetti nei confronti della presunta doppia vita di Albertine e di provare gelosia per azioni e comportamenti che ella – dal momento che è morta – non può più compiere o adottare. Egli arriva addirittura all’aberrante decisione di mandare prima Aimé a Balbec per investigare sul passato di Albertine e di convocare poi Andrée per appurare le vere inclinazioni sessuali dell’amica. Ma anche quando è già riuscito ad archiviare il trauma sentimentale, il protagonista è colto da vere e proprie crisi isteriche, nei confronti prima di suo padre e poi, a Venezia, di sua madre, perché le richieste del tutto naturali dei genitori rischiano di intralciare le sue febbrili fantasie amorose. Insomma, non stupisce che il destino del narratore sia quello di finire temporaneamente – come si vedrà nell’ultimo tomo della “Recherche” – in una clinica per malattie nervose, nel tentativo di rimettere in sesto una personalità gravemente lesionata. Nel frattempo, in attesa di ritrovare il Tempo perduto, Proust sembra chiudere, se così si può dire, molti dei cerchi aperti all’inizio dell’opera: ad esempio, il tanto agognato soggiorno a Venezia (città simbolo dell’inconscio del narratore) avviene dopo infiniti progetti e rinvii, iniziati – come si ricorderà – nel primo volume, quando egli era ancora un fanciullo; nelle ultime pagine, poi, il narratore si reca a Tansonville, nella residenza di Gilberte, dove ha modo di rievocare i momenti acerbi del suo amore adolescenziale, scoprendo che quanto allora aveva desiderato era stato, a sua insaputa, vicinissimo a realizzarsi; e infine la prossimità a Combray rimanda alle sue lontane vacanze estive con le quali si era aperta la “Recherche” e alle sue romantiche passeggiate “dalla parte” di Méséglise e di Guermantes.

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Alla ricerca del tempo perduto 2018-02-16 07:17:25 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    16 Febbraio, 2018
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LA PRIGIONIERA

“La prigioniera”, quinto capitolo dell’opus proustiano, descrive un originale e imprevedibile connubio tra desiderio e sadismo. Il narratore, di ritorno dal soggiorno a Balbec, segrega infatti Albertine nel suo appartamento parigino e la nasconde letteralmente a tutti quanti, facendola oggetto di un sentimento morboso e possessivo. L’amore e la passione diventano se possibile ancora più immiseriti e sacrificati che mai, e vengono realizzati, privi come sono del loro sbocco naturale, quello del congiungimento carnale tra due giovani innamorati, solo in una forma totalmente negativa, quella del mero possesso “collezionistico” dell’essere amato e della sua sottrazione al resto del mondo. Il narratore, per sua stessa ammissione, può amare solo una Albertine “in tutto simile a me, immagine di ciò che precisamente era mio e non dell’ignoto”, e, coerentemente con le proprie aspirazioni, cerca costantemente di plagiarla, di modellarla come creta. C’è un che di perverso, ad esempio, nell’atteggiamento di contemplazione e di estasi che il narratore sperimenta quando Albertine dorme e lui la guarda inosservato, poiché egli esprime il desiderio di ridurre la ragazza in suo potere, sottomessa e impotente, alla sua mercé come una cosa inanimata. Ciò, anziché alimentare l’amore (in ossequio alla paradossale legge che fa sì che esso si acuisca con l’assenza dell’altro, mentre al contrario si sopisca non appena la preda è conquistata stabilmente), non fa che esacerbare la gelosia, sia retrospettivamente (giacché l’essere amato, che si rivela diverso da prima, lascia intuire un passato sconosciuto) sia nel presente (gli sporadici momenti di libertà di Albertine sono altrettante occasioni di sospetto), con la conseguenza che la relazione si trasforma in un’ininterrotta, asfissiante inquisizione.
Come già nei primi due libri della “Recherche”, in occasione della relazione tra Swann e Odette e dell’infatuazione del narratore per Gilberte, assistiamo qui a una acutissima analisi delle conseguenze velenose e nefaste che la gelosia produce in un rapporto sentimentale. Il protagonista, che magari fino a un momento prima, tediato dalla consuetudinarietà del ménage e annoiato per la quotidiana e domestica vicinanza, pensava di non amare più Albertine, ritorna a spasimare di gelosia non appena la ragazza gli si allontana per qualche ora, alimentando così i suoi sospetti sulle di lei inclinazioni sessuali e clandestine frequentazioni. “La gelosia – scrive Proust – è un compito da ricominciare senza fine” e che trova solo brevi e temporanei momenti di requie. Albertine infatti si rivela un personaggio ambiguo, a due facce: da una parte docile, servizievole e obbediente, dall’altra astuta, infida e bugiarda. Dietro le sue reticenti parole il narratore intuisce abissi di perversione e di lussuria, e Gomorra fa capolino ogniqualvolta una donna attraente entra nel campo visivo di Albertine. Sennonché la prospettiva in cui è possibile leggere il romanzo si complica se abbandoniamo per un attimo l’idea che l’io narrante sia assolutamente obiettivo e affidabile. Ricordate “Il giro di vite” di Henry James? Là l’istitutrice che racconta la vicenda in prima persona si trova alle prese con fantasmi che noi non dubitiamo mai, fin quasi alle ultime pagine, essere reali; ma alla fine dobbiamo riconoscere che i due piccoli fratelli, che in diverse occasioni si erano mostrati alleati contro di lei per essere stati consapevolmente esposti all’influenza nefasta e corruttrice degli spettri, si rivelano invece all’oscuro di tutto, ed è invece la mente malata e schizofrenica della protagonista, che con le sue parole attendibili e razionali ci aveva tratti in inganno, ad essere messa in discussione. Allo stesso modo ne “La prigioniera” noi diamo per scontata la perversione di Albertine, non mettiamo mai in dubbio le sue menzogne e i suoi sotterfugi, il suo stesso comportamento pubblico, improntato a un contegno ineccepibile, sembra quasi una prova della sua abilità di perfida dissimulatrice. Ma osservando le sue occasionali irritazioni o la sua tristezza da animale in gabbia di fronte al comportamento maniacale e paranoico del narratore, il quale in tutto vede una prova delle proprie sofisticate costruzioni mentali e che se la giovane dice A pensa che in realtà ella voglia significare B, ci viene il fondato sospetto che tra i due sia proprio Albertine la vera vittima: e se, a dispetto di ogni evidenza, Albertine fosse solo una povera ragazza, soggiogata psicologicamente dal narratore e condotta alla fuga e alla morte non tanto dai propri libidinosi desideri quanto dalla asfissiante e oppressiva sorveglianza di una personalità talmente contorta da fare in certi momenti, ad onta del fatto che egli si descriva come il più sensibile degli uomini, pensare a uno psicotico criminale (e che oltretutto – non dimentichiamolo – non ama Albertine, ma viene abbandonato quando già aveva preso la decisione di lasciare lui per primo, vigliaccamente, la compagna)?
Se questa sia la vera chiave di lettura del romanzo, oppure appaia così al lettore all’insaputa dell’autore, non è dato sapere con sicurezza. Certo è solo che essa aggiunge ulteriore profondità psicologica a un’opera che come sempre, trattandosi di Proust, rasenta la perfezione (anche se qui qualche lacuna e imperfezione in realtà traspaiano: prova ne siano le morti di Bergotte, di Cottard e di Saniette, che qualche pagina dopo inverosimilmente “risuscitano”), e in cui la scrittura è un puro, cristallino e rarefatto spazio mentale che non può prescindere dalla realtà, ma la rielabora senza sosta, trasformandola in inesauribili sensazioni e impressioni mentali. Si pensi al vero e proprio tour de force con cui Proust rinchiude il suo protagonista (se si fa eccezione per la serata a casa Verdurin e un paio di brevi passeggiate parigine) tra le quattro mura di un appartamento, e lì, in quello spazio claustrofobico, sia capace, con una sensibilità davvero virtuosistica, di farci respirare ugualmente l’inebriante aria di Parigi, come si può vedere nelle deliziose pagine dei “cris” dei venditori ambulanti che giungono alla finestra del narratore, o in quelle in cui i cambiamenti di stagione vengono percepiti attraverso le minime, quasi impercettibili trasformazioni di luce e di atmosfera sugli arredi e sulle suppellettili della stanza da letto. Non si perdano poi le fondamentali riflessioni sull’arte suscitate dall’ascolto del settimino di Vinteuil: la musica, e l’arte in genere, riesce infatti a esprimere ciò che le semplici parole non sono da sole in grado di dire, essa è un medium per raggiungere il significato più autentico e profondo dell’essere e della vita. Proust prepara così, gradualmente, quella che sarà l’ormai imminente epifania del Tempo ritrovato, la quale conferisce proprio all’arte e alla memoria il compito di realizzare la propria miracolosa missione: quella di fondere (laicamente – è bene ricordarlo - ossia senza l’ausilio di alcuna religione) il proprio passato individuale nella sfera incorruttibile dell’eternità.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    15 Febbraio, 2018
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SODOMA E GOMORRA

“Sodoma e Gomorra” è una sorta di elaborata variazione sull’ampio materiale narrativo dei tre romanzi che lo precedono: in esso infatti ritornano situazioni (i ricevimenti nei salotti dell’alta società, come quelli della principessa di Guermantes o di madame Verdurin), luoghi (il soggiorno a Balbec), avvenimenti storici (l’affaire Dreyfus) e argomenti di conversazione (l’etimologia dei nomi geografici o familiari) che il lettore ha già conosciuto. Alcuni personaggi, poi, salgono alla ribalta dopo essere stati finora semplici figure di contorno (Charlus, Albertine), altri, con un percorso esattamente contrario, passano in secondo piano (Swann, madame de Guermantes, Saint-Loup), altri ancora rientrano da protagonisti dopo essersi eclissati per un certo tempo (il clan Verdurin, Morel). Si viene a determinare un po’ lo stesso meccanismo di familiarità e di riconoscibilità di personaggi e ambienti che caratterizza le saghe familiari, ma con in più una prodigiosa concentrazione spazio-temporale, oltre che intellettuale, la quale è capace di racchiudere in un’unica esistenza individuale quel senso di universalità che solo l’avvicendarsi di diverse generazioni, diverse dinastie e diverse epoche riesce normalmente a conferire alle saghe. Adesso si vede chiaramente che la “Recherche” è un universo chiuso in cui tutti gli elementi, anche i più minuti, concorrono alla riuscita dell’insieme, un edificio di sofisticata complessità in lenta, impercettibile eppure incessante costruzione, che lascia ormai intuire perfettamente non solo la direzione cui essa tende, ma persino il suo traguardo (il “tempo ritrovato”). In questa ottica (di un romanzo, cioè, che fa parte di un’opera che lo contiene e in parte lo trascende) si possono capire e interpretare le differenze presenti in “Sodoma e Gomorra” rispetto alle “Fanciulle in fiore” o ai “Guermantes”. Qui il protagonista, pur ripercorrendo (come si è detto) strade già battute nel recente passato, appare cambiato, più disincantato e prevenuto, meno disposto a lasciarsi illudere dai sentimenti, dalle fantasie o dalle apparenze. Così, nei salotti aristocratici, il narratore, promosso al rango di habitué, è in grado di rivelare di primo acchito (con il suo orecchio “esercitato come il diapason di un accordatore”) i caratteri e le singolarità nascoste dei personaggi che li frequentano, ma, non più intimidito dai nomi e dal lusso, l’ironia che aveva prima messo in ridicolo le loro ipocrisie, i loro snobismi, la loro stupidità (diventati adesso evidenti come alla luce del sole) si è in qualche modo attenuata, in quanto egli è diventato ormai uno di loro. Allo stesso modo, il ritorno a Balbec restituisce sì le sensazioni del primo soggiorno attraverso il meccanismo della memoria involontaria (quelle “intermittenze del cuore” che danno il titolo alla seconda parte e che “risuscitano” la figura della nonna, compagna dell’io narrante durante la prima adolescenziale vacanza), ma il fascino, lo stupore, i sogni ad occhi aperti di una volta sono evaporati, e al loro posto, come in una spiaggia dopo la fine dell’alta marea, è rimasta una distesa di cose usurate dal tempo e sporcate dalla abitudine, dalla ripetitività e dalla noia (sebbene tale sensazione di “già vissuto” sia qualche volta, come in occasione dei viaggi serali in treno interrotti alle fermate dalle estemporanee visite di amici e conoscenti, confortevole e appagante). Lo stesso amore per Albertine, per quanto finalmente consumato e non più solo ideale (come erano stati invece quelli per Gilberte e madame de Guermantes), ha perso ogni alone romantico e si è avviato a ripercorrere fatalmente le alterne fasi dell’antico rapporto tra Swann e Odette, macchiato, oltre che dalla scoperta della doppia vita della ragazza, anche dalla riduttiva consapevolezza che chi ama ben difficilmente può essere riamato.
Per finire resta da parlare della omosessualità che dà il titolo al libro. A questo proposito c’è da rilevare la singolare modalità di trattazione adottata nella prima parte di “Sodoma e Gomorra”. In essa, infatti, Proust adotta la “geniale decisione di descrivere il peccato contro natura col metodo e il linguaggio delle scienze per l’appunto naturali (un po’ come si spiega il sesso ai bambini)… Proust distingue, con commossa autoironia, varietà, specie, rami e sottogruppi del genere omosessuale utilizzando il poetico e animato linguaggio di Darwin, popolato di corolle vibratili, di organi sensitivi, di insetti infervorati e ottusamente desideranti; un universo di venti, pollini, colori e profumi, finalisticamente intento al miracolo della fecondazione” (Daria Galateria). Componente tipica del mondo proustiano (anche quando non viene esplicitamente rivelata, come nel caso della tenera, un po’ effeminata amicizia del narratore con Saint-Loup), l’omosessualità trova qui la sua massima espressione, incarnata in uno stile affettuosamente ironico e allusivo e in personaggi (come il barone di Charlus) in grado di fornire molteplici spunti per esplorare, da un punto di vista psicologico prima ancora che sociale, i meandri più reconditi e inaccessibili del fenomeno. Gli “uomini-donna” come Charlus (ma anche le donne dedite al lesbismo) abbondano nel romanzo, gli conferiscono un’impronta inconfondibilmente ambigua, e il fatto che il narratore si accorga solo ora, tutt’a un tratto, della vera natura di coloro che lo circondano (lungi dall’essere un limite del romanzo, a causa del ricorso a scene un po’ forzate come quella in cui egli assiste non visto all’accoppiamento del barone con Jupin) può essere a mio avviso spiegato con quel meccanismo di messa a fuoco intermittente che abbiamo visto più sopra a proposito dei personaggi: quello che nei primi romanzi era dissimulato, nascosto dietro ad altre urgenze narrative (più che dietro all’ingenuo candore del protagonista, incapace di vedere un interesse sessuale nelle bizzarre profferte di Charlus), emerge adesso di colpo in superficie come se fosse sotto una lente di ingrandimento, prima magari di ridimensionarsi, tornando di nuovo sullo sfondo, nel capitolo successivo della “Recherche”.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    14 Febbraio, 2018
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LA PARTE DI GUERMANTES

I principali motivi di interesse dei primi due romanzi della “Recherche” consistevano da una parte nella descrizione del mondo interiore del narratore (e nella originale filosofia del tempo e della memoria che da essa derivava) e dall’altra nella raffigurazione dell’ambiente aristocratico da egli stesso frequentato. Nel terzo tomo, “La parte dei Guermantes”, il primo elemento, con il passaggio del protagonista dalla fanciullezza e dall’adolescenza alla maggiore età, sembra francamente avere un minore rilievo, e il lettore viene per di più sfiorato dal sospetto della ripetitività di certe situazioni (la storia d’amore di Saint-Loup riecheggia troppo quella di Swann, l’infatuazione del narratore per la duchessa di Guermantes è penalizzata dal fatto di venire dopo quelle, doviziosamente narrate nei libri precedenti, per Gilberte e Albertine, con in più il neo della impossibilità di realizzazione vista la distanza sociale che separa i due). Sono perciò le pagine sul “bel mondo” parigino a tenere in piedi, in mancanza di un intreccio vero e proprio (qui, più che altrove, non succede praticamente nulla che possa legittimare una trama di una qualche consistenza narrativa), l’opera terza, anche se, per il carattere essenzialmente mimetico dell’operazione proustiana, non è assente una certa dose di ambiguità. I salotti della nobiltà dipinta da Proust sono infatti descritti da un lato con dissacrante sarcasmo (sia pure senza intenzioni moralistiche), dall’altra con un fascino e una partecipazione apparentemente contraddittori.
Un esempio di questa ambiguità si può trovare in quello che è un po’ il leit-motiv del romanzo, ossia nel piacere quasi estetico che il narratore prova per gli altolocati personaggi che portano nomi e titoli ricchi di fascino perché incorporano il mistero di un mondo favoloso e apparentemente inaccessibile, ideale come può esserlo un mito e imperituro come i castelli, i feudi e le terre su cui quegli stessi titoli si appoggiano e prendono lustro, ma che poi, una volta conosciuta nei ricevimenti la loro banale mediocrità e la loro comunissima e per nulla eccezionale intelligenza (persino quella della duchessa di Guermantes, pur così celebrata dai contemporanei), lascia il posto a un fortissimo e inevitabile senso di delusione per una simile, inattesa desacralizzazione, salvo poi – questa delusione – essere a sua volta mitigata dalla poesia che produce, disincarnando le prosaiche fisionomie di coloro cui si fa riferimento, l’ascolto dei complicati intrecci genealogici e dinastici, i quali rievocano seducenti ricordi storici e innumerevoli suggestioni artistiche, architettoniche o geografiche.
Ne “La parte dei Guermantes” (e soprattutto nelle conversazioni che si sviluppano durante i due ricevimenti dalla marchesa di Villeparisis e dalla duchessa di Guermantes, che da soli occupano quasi la metà delle oltre settecento pagine del romanzo) ad avere un posto di primo piano sono quindi le genealogie, le casate nobiliari, il Gotha delle famiglie illustri, l’araldica, dei quali, come detto, il narratore subisce un innegabile fascino, in questo non essendo molto dissimile da Legrandin, il quale disprezza il gusto, la sensibilità e l’intelligenza degli aristocratici, ma poi cerca in tutti i modi di essere ricevuto nei loro salotti. In questi salotti, come già si era visto nei due libri precedenti, si mette in scena un complesso, al tempo stesso affascinante e indisponente, gioco di società, in cui ogni personaggio cerca di dare lustro alla propria persona e al proprio nome per mezzo delle più svariate strategie sociali, quali l’affettazione ipocrita, la dissimulazione calcolata, l’ostentazione esibizionistica della ricchezza, l’esibizione esagerata di conoscenze, la crudeltà mascherata dal bon ton, la recitazione quasi teatrale del proprio ruolo sociale, ecc.
E a un rito sociale viene ridotta persino la morte, che per la prima volta – quella della nonna del protagonista e quella, annunciata, di Swann - fa capolino nella “Recherche”. Nel primo lutto familiare, pur narrato con il consueto dispiegamento di florilegi stilistici e di acute notazioni psicologiche, non si ritrova la profondità spirituale che c’è – che so? – ne “La morte di Ivan Ilic” (o persino nelle riflessioni del secondo volume sull’inevitabile perdita dei propri cari), ma solo l’abilità ineguagliabile nel ritrarre una delle tante messinscene dell’aristocrazia e dell’alta borghesia francesi dell’epoca, le quali soffocano e sviliscono la spontaneità del dolore e lo sbigottimento di fronte al mistero della vita che se ne va. La seconda (quella imminente di Swann) offre invece lo spunto per l’ultima, definitiva stoccata nei confronti del ”bel mondo”, qui impersonato dai duchi di Guermantes, i quali antepongono il pranzo dalla marchesa di Saint-Euverte a qualsiasi naturale compassione per la sorte dell’amico intimo gravemente ammalato (oltre che per l’imminente decesso del cugino del duca). Anche se Proust è attento ad evitare qualsiasi giudizio moralistico, tanto è totale la sua immedesimazione nella realtà sociale rappresentata, quest’ultima crudeltà è la classica goccia che fa traboccare il vaso della decenza e che smitizza impietosamente e senza alcuna residua possibilità di appello questi sadici mostri dal volto umano.

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kafka62 Opinione inserita da kafka62    13 Febbraio, 2018
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ALL'OMBRA DELLE FANCIULLE IN FIORE

“À l’ombre des jeunes filles en fleurs” è il bellissimo titolo, evocativo, poetico, musicale, del secondo capitolo della “Recherche”, in cui Proust racconta l’adolescenza del protagonista, una stagione impregnata di desiderio e di sensualità, di eccitazione e di profumi, dei primi piaceri sparsi quasi per caso durante il gioco con una compagna e delle sensazioni dionisiache che per la prima volta rendono le ragazze più attraenti dei quadri e dei monumenti. Certo, non manca in questa seconda parte l’impagabile rassegna di tipi del bel mondo, attraverso un’osservazione inesausta, acutissima e raffinata, la quale, ai limiti della satira di costume, mette alla berlina i vizi e le idiosincrasie dei contemporanei: l’insopportabile snobismo aristocratico, la rozzezza e l’ignoranza nascoste sotto i titoli nobiliari e l’alto lignaggio, l’ostentazione di amicizie e di conoscenze prestigiose (e spesso fasulle) al solo scopo di farsi un nome in società, via via fino ai malori inventati per non dover dare a vedere di non essere stati invitati al ricevimento del marchese Caio, il disprezzo per la duchessa Tizia che ha l’unico difetto di frequentare l’amica Sempronia, la quale potrà poi rivalersi e vantare con tutte questa preferenza, con strascichi penosi di invidie e recriminazioni, la competizione tra salotti rivali, e poi ancora odi dissimulati, malignità sussurrate alle spalle, veleni propinati con eleganza, ecc. ecc.
E’ però con l’entrata in scena dell’amore e dell’innamoramento, non più raccontati in terza persona (come in “Un amore di Swann”), che prende corpo il nucleo centrale di “All’ombra delle fanciulle in fiore”. Anzi, il romanzo può essere visto come una ricca e doviziosa trattazione della fenomenologia del desiderio (e dell’annesso dispiacere) amoroso. Gilberte e Albertine sono i due poli di attrazione tra i quali il nostro oscilla, con una dedizione sentimentale assoluta ed una sensibilità capace di cogliere miracolosamente tutte le più lievi sfumature di un sentimento reso acerbo solo dalla personalità in continua maturazione dell’adolescente, non certo dalla sua minore intensità. Tra le due muse, vi sono però decine di altre ragazze che il narratore magari incrocia fuggevolmente per strada e che gli lasciano intravedere, attraverso un processo di sublimazione cui non sono estranee l’impossibilità di realizzazione, la brevità dell’esperienza e la labilità del ricordo, abissi di felicità; ragazze che, come le amiche di Albertine, sono come fiori tra i quali il protagonista, come un’ape attratta dal polline, indugia con voluttà, innamorato di tutte e, in fondo, innamorato di nessuna; ragazze la cui immagine egli insegue incessantemente, senza mai ritrovarla uguale (clamorose sono, ad esempio, le “metamorfosi” di Albertine, che ogni volta si ricompone sotto lo sguardo del giovane “emergendo dal pulviscolo del ricordo”) perché sono in un’età in perpetua e costante trasformazione. Le pagine dell’estate a Balbec sono pagine solari, paniche, in cui perfino le differenze di classe vengono meno, e gli obblighi sociali sono facilmente sacrificati di fronte alla Bellezza, pagine che descrivono un'età irripetibile come quella della prima giovinezza e nelle quali, nonostante tutto, si insinua un sottile velo di malinconia, giacché in quelle divine creature si intuiscono già i tratti che, di lì a poco, si irrigidiranno definitivamente, facendo sfiorire definitivamente il loro irripetibile fascino.
Questa considerazione mi riporta a quello che è il tema principale della “Recherche”, vale a dire la dialettica temporale. Molto spesso l’opera di Proust è stata analizzata solo in relazione alla dimensione del passato in rapporto al presente. E’ questa, certo, una parte fondamentale della filosofia proustiana: il passato, in tutto l’arco della “Recherche” viene sublimato, evocato minuziosamente (persone, luoghi, odori, ecc.) fino a giungere a formare un “nuovo” presente, un presente parallelo, eterno e non più modificabile, grazie alla sua cristallizzazione nel piano “perfetto” dell’opera d’arte. Ma c’è anche dell’altro nella complessa dialettica temporale di Proust. In particolar modo è importante sottolineare come il presente venga influenzato non solo dalle madeleines del passato, ma anche dal futuro. Non è solo una questione di desideri, di sogni e di aspettative, e della coscienza che essi si realizzino o meno. E’ qualcosa di metafisico, se così si può dire. Il presente viene infatti avvelenato dal pensiero che le persone che oggi amiamo domani non ci saranno più (pensiero della morte) o non ci ameranno più (pensiero della transitorietà dell’amore). Fin qui nulla di particolarmente originale e innovativo. In realtà, ciò che ci fa soffrire di più è la consapevolezza che anche noi saremo talmente cambiati da non sentire più la loro assenza. Il protagonista si allontana da Gilberte per far sentire di più in lei la propria mancanza e ravvivare così il suo amore, ma sa benissimo (ed in ciò sta il vero strazio) che così facendo sarà lui un domani a essere disamorato (“la felicità ci arride quando, ormai, ci lascia indifferenti”). Così il pensiero che la perdita dei propri cari sarà elaborata, e la vita (anestetizzata dall’Abitudine) procederà normalmente senza di loro, ci provoca un’ondata di sdegno, in primo luogo contro noi stessi.
L’impossibilità della felicità è sancita dal fatto che forziamo il tempo per cambiare il nostro destino (anche semplicemente crescendo, uscendo dall’infanzia per diventare uomini), pur sapendo (ed è la coscienza di ciò a farci soffrire di più) che così facendo anche noi cambiamo, e i termini della nostra felicità sono sempre diversi da prima, e quindi perennemente, malinconicamente irraggiungibili se non nella dimensione della creazione artistica. Ma anche questa, forse, è un’illusione, dato che se è vero che l’opera è destinata a durare per sempre, il creatore non può goderne, in primo luogo perché essa è apprezzata e compresa appieno solo dai posteri e quasi mai dai contemporanei, e in secondo luogo per l’implacabile intervento della morte, la quale, proprio nel momento in cui abbiamo “recuperato” il tempo passato, che diventa perciò tempo “ritrovato”, ce lo toglie inesorabilmente di mano. In tale ottica, non è neppure possibile una visione religiosa della vita, perché il nulla e l’eternità sono sotto questo aspetto identici, nel senso che entrambi ci portano via quello che nell’arco della nostra vita abbiamo faticosamente conquistato. Da qui deriva un pessimismo molto particolare, che non ha nulla della negatività e del ribellismo di Kafka o Leopardi, ma che pure è totalmente sconfortante, raggiungendo con toni più malinconici e sfumati le loro medesime conclusioni, persino nella constatazione della fugacità e della precarietà del desiderio. Quando infatti il narratore si invaghisce delle fanciulle incontrate fuggevolmente per strada, è costretto a rendersi conto dell’illusorietà del suo desiderio, che è alimentato – come si è già detto - proprio dall’inaccessibilità della persona intravista ma che, qualora l’incognito venisse meno, sarebbe destinato a dissolversi in un istante. In tal modo il desiderio delle cose che non possediamo (e che pure è l’unico a rendere più interessante la vita) diventa analogo a quello che un moribondo sente verso i giorni futuri che gli sono negati, anche qualora questi fossero, come il più delle volte succede, squallidi e meschini.

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