Una vita come tante
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Opinione scritta di getto in corso d'opera, pienam
Ci sono dei momenti nella mia vita di lettrice, vissuti peraltro con estremo disagio, in cui sembra che tutti abbiano letto un romanzo tranne me. E' più o meno quello che ho provato negli ultimi due mesi sentendo chiunque parlare di
"Una vita come tante" di Hanya Yanagihara. Diciamoci la verità, la mole (1094 pagine) non ispira per niente e la copertina non trasmette di certo l'idea di una bella lettura leggera e rilassante!
Ma certi libri, si sa, li studi da lontano con circospezione, te li rigiri un po' tra le mani, ma alla fine sei destinata a leggerli.
Così, armata di un po' del sano scetticismo che mi pervade ogni volta che devo approcciarmi a un romanzo per cui tutti si strappano i capelli, ho iniziato anche io la lettura.
Beh, lo posso dire? La storia di Willem, Jude, JB e Malcolm mi ha presa e non mi ha mollata più, al punto che sono solo a metà, ma sento comunque il bisogno di esternare il mio apprezzamento.
Oltretutto, in base a quanto letto fino ad ora e senza sapere il finale ho già deciso che entrerà senza dubbio a far parte della mia top 10 dei libri preferiti.
Che poi sono sempre restia a leggere libri tanto lunghi, ma se mi soffermo a pensarci sul mio podio ci sono: "I Miserabili", "Infinite Jest" e "Guerra e Pace", quindi direi che è il caso di smetterla con l'ansia da mattone.
*edit*
A lettura finita mi sento di confermare il mio entusiasmo di dieci giorni fa. Un romanzo doloroso, per carità, ma tanto bello. I personaggi, specialmente Jude, ti entrano davvero nel cuore
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UNA LETTURA CHE MI SAREI VOLENTIERI RISPARMIATA
Avrei fatto un favore a me stessa se non avessi prima comprato e poi letto il libro di Hanya Yanagihara “Una vita come tante”, Sellerio 2020 (arrivato già alla XIX edizione), € 22,00: avrei risparmiato oltre 20 euro, non avrei buttato il mio tempo per leggere tutte le 1094 pagine di cui è composto, non avrei sofferto veramente tanto al racconto delle violenze subite dal protagonista.
Sono voluta arrivare fino alla fine non perché non abbia mai abbandonato a metà altri libri che non mi piacevano (ma solo dopo aver letto i 10 diritti del Lettore di Pennac), ma per vedere dove la scrittrice voleva portarmi, dove voleva far arrivare il lettore, fino a dove si sarebbe spinta con le sue banalità.
Infatti vi sono pagine di una violenza inaudita e gratuita e vi sono pagine di una banalità smisurata che i lettori non possono non aver notato. Sono d’accordo con l’opinione espressa da blunote76, quando adombra il sospetto che nel caso di questo libro sia prevalso un pre-giudizio di tipo politico: è il romanzo gay che NY aspettava; mentre un romanzo deve essere “solo” un buon romanzo, dal punto di vista della costruzione di una storia, dal punto di vista stilistico, da quello estetico.
Ha ragione anche DannySanny quando scrive che la consecutio temporum barcolla, si passa con noncuranza da un ricordo d’infanzia a una situazione attuale senza mettere in grado il lettore di “capire” che si sta andando avanti e indietro nel tempo da una riga all’altra e per scoprire tutta la storia del protagonista, Jude, occorre arrivare fino alla fine, quasi si trattasse di un thriller (e questo libro di sicuro non lo è).
Ma i due punti critici più importanti del romanzo li ravviso nel fatto che per prima cosa si tratta di una storia scontata: coloro che leggono abitualmente, leggendo questo libro si aspettano un minuto prima quello che l’autrice scrive un momento dopo. Non posso scrivere come va a finire, ma posso dire che quanto accade a Jude con Willem, con Harold, con Caleb si riesce a prevedere già nella prima parte del libro; e soprattutto si capisce come evolverà la vita del protagonista Jude.
Il secondo punto critico è la VIOLENZA: mi piacerebbe che gli editori sui libri che trattano argomenti violenti e con una tale violenza, perpetrata poi sui bambini, mettessero una fascetta in cui si indicasse che il libro tratta anche di questi argomenti. Le persone sensibili non possono trovarsi davanti a una storia del genere senza sapere che nella maggior parte delle pagine predomina la violenza. Invece nella quarta di copertina viene definito come “un romanzo ottocentesco, brutale e modernissimo per i suoi temi (…) un libro avvincente e ipnotico che ha trascinato lettori e critica per la sua forza narrativa”.
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Il volto tumefatto della vita
Jude, oggi avvocato di successo, da decenni è affranto da un vortice di insensatezza, dolore e sofferenza, da un reiterato autolesionismo, da un vuoto dell’animo, e a niente sono servite le premure degli amici di sempre (JB, Malcolm, Willem ), sin dall’epoca del college, di un padre adottivo amabile e amorevole ( Harold ), ne’ le cure di un medico sensibile e attento ( Andy ).
Le tormentate e masochistiche stagioni del protagonista sono l’epicentro di un lunghissimo romanzo che, servendosi di una certa fluidità narrativa, svela un’ inimmaginabile crudeltà autoimposta, un presente e un passato nebulosi celati ai più, un dolore vivido che continua a lacerarne corpo e mente, l’assenza di autostima e voglia di vivere, la certezza di un peccato originario che ha trasformato la sua vita in una condanna, un destino perverso in bilico tra la vita e la morte che prevede una fine certa, inequivocabile, già scritta.
Quanto nel cuore di una esistenza apparentemente ricca, piena, vivace, il passato ritorna, puntuale, vivido, sommergendo presente e futuro, quanto la solitudine emotiva e sentimentale è segnata sulla propria pelle e necessaria, quanto il farsi del male può essere l’unica fonte di vita, epicentro di un non sense che tutto avvolge?
Attorno a Jude il brusio della vita e della metropoli, il talento artistico degli amici, più o meno indirizzato a un futuro radioso, un lavoro che lo soddisfa, dentro di se’ l’impossibilità di amare, potere e denaro dissolti al cospetto di una vita preclusa in attesa di altro.
Ci sono così tanti argomenti di cui non ha parlato, neppure alle persone più care, con l’impressione di non avere le parole giuste per farlo, ha provato a scrivere, ma non sa neppure come parlare a se’ stesso di se’.
Vive ogni istante all’ interno di un senso di inadeguatezza, si sente sporco, deforme, non amato, ricoperto da una colpa cucitagli addosso da chi in passato lo ha ripetutamente ferito e violato, luoghi e persone incise nel proprio animo e sulla proprio corpo, un io obbrobrioso e artefatto onnipresente, la condanna alla fuga, da se’ prima che dagli altri.
Questo male di vivere ne annienta momenti, incontri, amicizie, la possibilità di un amore, accarezzando l’idea faticosa di pagine nuove, uniche, perché’, inevitabilmente, tutto ricade nell’ incubo di un inganno, in un’ essenza che supera la semplice malattia, fisica e mentale, le stigmate di ferite autoinferte cucite addosso.
È allora che tutto pare confondersi, estraniarsi, dissolversi, bene e male un unicuum, il masochismo riprende, scorre un fiume di sangue e una barriera separa di nuovo il protagonista dal mondo.
Sarà la forza di un amore costruito sulla presenza e fiducia nell’altro, illimitata, qualitativa, graduale, un’ affinità elettiva nata da una forte amicizia, senza forzature, inganni, secondi fini, a scardinare l’ impossibile, restituendo un nuovo volto, la possibilità del cambiamento, l’accettarsi per quello che si è, la gioia di vivere ed amare. Ci saranno momenti di felicità, sorrisi, progetti, speranze, nascosto faticosamente il fantasma di un passato ancora presente.
Si può convivere con il dolore, controllarlo, sedarlo, circoscriverlo, assaporare qualcosa di più grande, ma non si può lottare contro un destino infausto. È allora che la fine è inevitabile, la vita inaccettabile, ogni rimedio fallimentare, nonostante le apparenze. E’ allora che tutto ritorna all’origine, le risposte svaniscono e il senso insensato ritorna, giorni irrimediabilmente vuoti senza un domani.
Un lunghissimo romanzo che scuote nel profondo la sensibilità del lettore, spingendosi dentro e oltre i confini di una semplice vita. Bene e male, anima e corpo, arte e vita, un lungo percorso esistenziale, la profondità e insondabilita’ del dolore e della malattia, il silenzio e la voce delle relazioni e dei sentimenti, la grandezza di un amore illimitato e atemporale, la difficile ricerca di un senso.
Ci addentriamo in un cammino di dubbi e incertezze, un’ angosciosa presenza che scava nel profondo, restituendoci, attraverso una forte carnalità onnipresente, un senso di essenza spirituale che pare di volta in volta predominare e soccombere, tracciando e delineando i contorni di un protagonista vivido e sfuggente, rabbioso e struggente, teneramente assorto e atrocemente inserito nel cuore dell’esistenza.
Avrei fatto volentieri a meno di questa lettura
Questo romanzo è accompagnato da un coro pressoché unanime di elogi sperticati da parte della critica mondiale il che induce sempre al sospetto.Al termine della sfibrante lettura delle oltre mille pagine del tomone, credo di poter dire che il sospetto di cui sopra era fondato e che l'entusiasmo dei recensori dipenda quasi esclusivamente dal solito meccanismo per il quale viene fatto prevalere un pre-giudizio di tipo "politico" rispetto a quello estetico, che dovrebbe invece essere proprio di un'opera artistica; si giudica, secondo tale criterio, un romanzo per ciò che dice, non per come lo dice; perciò se tu scrivi "il grande romanzo gay che New York aspettava", non puoi che ricevere encomi, elogi e pacche sulle spalle (e vendere un sacco). Scusate ma secondo me un romanzo non deve essere né gay, ne etero né quel che volete: deve essere un buon romanzo, punto. Di "romanzi gay", ne sono stati già scritti a iosa (senza risalire troppo nel tempo, e restando ai contemporanei, mi vengono in mente alcune opere di David Levitt ed Edmund White) che sono migliori di questo. Hanya Yanagihara ha messo su carta una serie infinita di banalità, di situazioni francamente inverosimili e di luoghi comuni che manderanno in deliquio le facilmente estasiabili vestali del politicamente corretto e pochi altri, e creato personaggi davvero poco credibili perché troppo uniformi e sempre uguali a sé stessi nonostante l'opera li analizzi nel corso del tempo. Perciò il romanzo fallisce dal punto di vista estetico e il ricorrere a categorie extra artistiche è solo un giochino già visto e rivisto che ha finito per annoiarmi terribilmente; a dirla tutta, come rivendicazione di orgoglio gay funzionano molto meglio i vecchi video clip dei Village People degli anni '80, che poi hanno il vantaggio di durare pochi minuti.
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Un dolore che non ha fine
Brevi, inevitabili spoiler.
Questo è uno di quei libri che meriterebbero, in copertina, una fascetta con scritto “maneggiare con cura”. Questa è un recensione difficile perché uscire dal mondo di “Una vita come tante”, un mondo che lascia stremati, esangui, quasi annichiliti, è compito durissimo per il lettore su cui le pagina abbiano inciso cicatrici a ogni frase. La vera domanda cui si deve rispondere prima di intraprendere la lettura delle oltre mille pagine di questo libro è: quanto dolore possiamo sopportare? Perché Hanya Yanaghihara sprofonda quanto più possibile nelle pieghe laceranti dell’abuso, della sopraffazione, dell’autolesionismo e costantemente, quasi stregata da una maledizione, la coazione a ripetere, a perseverare nel male, ci ricorda che l’uomo può amare, certo, ma anche e, soprattutto, ferire, massacrare, uccidere.
“Una vita come tante” è la storia di quattro amici, che la scrittrice segue dal college all’età adulta, in quarant’anni delle loro vite che si dilatano nei continui ricordi, nei tentacoli aggrovigliati di un passato che non lascia scampo. C’è JB, artista ambizioso, Malcom, aspirante architetto, Willem, bellissimo e seducente, cameriere prima, attore poi e alla fine, anzi, soprattutto, Jude. Questo romanzo in fondo potrebbe intitolarsi “Vita di Jude”: fragile, delicato, quasi potesse rompersi fra le mani; Jude che vuole diventare avvocato e che pure frequenta un corso di matematica pura, Jude che non crede in se stesso, che cammina con difficoltà, immobilizzato a volte da attacchi quasi convulsivi che lo pugnalano in ogni parte del corpo. Jude che porta sempre e solo le maniche lunghe, per nascondere i tagli che si fa sulle braccia, lembi di pelle percorse da una trame infinita di cicatrice, pezzi di carne che si staccano quando non sa controllare quel dolore che pure pensa essere la propria colpa da espiare. Jude, silenzioso e geloso dei suoi segreti, dei suoi misteri, Jude, che sùbito intuiamo, ha subìto qualcosa di atroce da bambino. Preparatevi, respirate, se non siete pronti chiudete questo libro, perché quello che riserverà progressivamente sarà il corpo di Jude bruciato, frustato da bambino, in monastero, violentato dai monaci; sarà lo stesso corpo costretto da un uomo a prostituirsi con uomini o gruppi di uomini nei motel degli Stati Uniti, un uomo che diceva di amare questo bambino di otto o nove anni; e ancora sarà lui a essere rapito, seviziato e stuprato da uno psichiatra, investito dalla sua auto, dopo essere fuggito ancora da altri abusi terribili, quelli nell’orfanotrofio. Ecco se resistete a questo, a questo corpo su cui il destino si è accanito, su questo bambino a cui hanno tolto tutto, forse non siete ancora pronti: perché c’è altro dolore da affrontare, quello dell’autolesionismo, quello della vittima che si sente colpevole, quello di Jude che anche se ricco, di successo, anche se ha trovato una nuova famiglia, penserà sempre di non meritare nulla, di dover obbedire alla bontà rara degli altri, a cedere, a mentire, a lasciarsi prendere dalla fame, stordito dal dolore alle gambe sempre più feroce, inebetito da un abbraccio, trepidante per un bacio. Jude che non saprò mai se è etero o omosessuale, perché “fin da piccolo ho conosciuto solo gli uomini”, più grandi, più sporchi, più disgustosi; Jude che avrà paura del sesso, del contatto con un corpo, Jude che non riuscirà più ad avere un’erezione e non perché è stato investito, ma perché per lui non c’è più niente che possa essere salvato. E se anche siete pronti a tutto questo, se anche vi sentite in grado di sopportare per mille pagine di sofferenza, sappiate che non c’è mai fine, che la tragedia si annida ovunque e che all’orizzonte ci sono, nonostante qualche luce, altre morti, altri abusi, altre malattie.
Ho provato a sintetizzare la storia, con qualche concessione di più alla trama, perché questo non è un libro adatto a tutti, anzi forse solo a pochi. Hanya Yanaghihara ha delle evidenti lacune tecniche: gestire un libro così lungo che fluttua perennemente tra passato e presente, da più punti di vista (quello dei quattro amici, ma anche di altri comprimari), crea qualche problema non solo nell’uso dei verbi, che talora barcollano nell’alternanza di imperfetto, passato remoto e presente, ma anche nella gestione delle anticipazioni e dei flashback, generando un tempo zoppicante, ferito com’è anche da improvvise ellissi che spostano l’attenzione di anni nel giro di poche righe. E, a dirla tutta, nessuna frase di questo libro, presa isolatamente, merita forse troppa attenzione, nel senso che lo stile è molto piano, non gode di nessuna variazione particolare, di nessun guizzo. E anzi ho trovato quasi sgradevole che una storia tanto dolorosa come quella di Jude sia stata dilazionata e frammentata per creare un po’ di suspense, come fosse un giallo o una spystory qualunque. Eppure c’è qualcosa in quello che viene narrato, nella vivida rappresentazione dei corpi e dei personaggi, nell’inarrestabile trasporto sentimentale che annulla il tempo della lettura e fa bere pagine su pagine, che rende questo libro imperfetto un ingranaggio emotivo inarrestabile, capace com’è di demolire punto per punto ogni speranza residua, di lasciare, dopo la fine, solo un campo devastato e sterminato di sbigottimento, dolore, tristezza. E dunque per quanto il lettore provi a mantenersi oggettivo, le pagine della Yanaghihara lo costringono ad ammettere che molto raramente ha provato, nel leggere qualcosa, lo stesso tremore, la stessa compartecipazione, la stessa violenta identificazione con i personaggi. Vi confesso che ho letto questo libro tenendo in una mano il libro e con l’altra attorcigliandomi i capelli, tanto era la tensione che stavo accumulando e che non riuscivo in altro modo a manifestare.
Non so se riuscirei a rileggerlo, troppo dolore anche per me, eppure mi resta una commozione tanto pura e vera che non posso esimermi dal consigliarlo. Chiudo soltanto sottolineando come oggi ci sia molta attenzione, con ogni ragione, alla violenza sulle donne e sui bambini, ma che spesso dimentichiamo la violenza sui ragazzi, magari quelli un po’ troppo esili, un po’ troppo efebici, troppo aggredibili, quelli che qualcuno gode ancora di più nello sporcare, nello sfregiare, nel possedere. Succede purtroppo ogni giorno, anche se in modo più sottile e infidamente meno fisico di quanto accade a Jude, ma questo non lo rende meno doloroso.
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RESISTERE ALLA VITA
Non nascondo che mentre scrivo di questo lungo e incredibile romanzo ho un nodo alla gola che non va via perché la storia di Jude e dei suoi fedelissimi amici è un pugno allo stomaco, non lascia scappatoie e prima di iniziare a leggere bisogna essere consapevoli che si sarà travolti. Il titolo “Una vita come tante” o ancora meglio forse il titolo originario “A little life” è quanto di più lontano, volutamente lontano, dalla vita di Jude che arriva all’età adulta fragile e insicuro , in perenne lotta con se stesso non credendo che ci possa essere al mondo qualcuno che lo possa amare ESATTAMENTE per quello che è; dissimula, nasconde, si nasconde dietro la sua incredibile competenza di avvocato perché è lì, nelle aule di tribunale l’unico luogo dove invece emerge, è trionfo e senza scrupoli. Chi lo approccia sul mondo del lavoro non immaginerebbe minimamente della fragilità che nasconde.
Ripercorrendo tramite flashback, e tramite le voci che si alternano, l’intensa vita di Jude, conosciamo tutti i personaggi che lo accompagnano e lo sostengono nei momenti più bui; l’amore filiale, l’amore amico, l’amore profondo di un compagno, non c’è che dire è un romanzo d’Amore, ma non inteso come racconto smielato di una storia d’amore ma come celebrazione del puro sentimento dell’Amore che salva, o tenta di salvare, senza seconde e torbide motivazioni, ma al contrario sfidando tutte le più logiche motivazioni che porterebbero lontano. Jude purtroppo non si rende forse conto di quanto Amore lo circonda, perché il dolore e i segni di un passato mai passato che porta fuori a ricordarglielo, ma soprattutto dentro di se, sono troppo profondi, radicalizzati, un tumore aggressivo che resiste ad ogni terapia, alle volte sembra essere sconfitto, ma è lì latente che nel momento magari più sereno torna a bussare alla porta. E’ un romanzo di lotta, di voglia di farcela.
Lo hanno definito un romanzo bandiera del mondo gay, probabilmente perché nel romanzo è centrale la storia di un amore omosessuale, ma risulta molto riduttivo perché il fatto che Jude sia innamorato di un uomo diventa totalmente secondario, qui si racconta l’Amore senza distinzioni di sesso, Yanagihara ti trascina così prepotentemente nel racconto che il dettaglio sulle scelte sessuali dei protagonisti perde di ogni significato; quello che probabilmente può essere interessante è far avvicinare il lettore proprio al valore dell’Amore in sé senza identificazione di regole precostituite, che siano legami di sangue o scelte sessuali più o meno controverse. L’Amore vince sempre? Senza fare spoiler non reputo questo un romanzo di speranza, probabilmente questo aspetto è uno di quelli che lo rende maggiormente interessante, più reale da un certo punto di vista (anche se spero vivamente che la realtà sia un po’ meno dura) perché non c’è il tentativo forzato di voler ricomporre un puzzle, ma si lascia andare la storia semplicemente come deve andare.
E’ difficile scrivere un romanzo così lungo e mantenere l’attenzione e la passione del lettore costante per tutto il viaggio, ma Yanagihara qui ci riesce benissimo. L’ho amato e tanto e lo consiglio fortemente quando si ha l’animo giusto per affrontarlo.