La noia La noia

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Emilio Berra  TO Opinione inserita da Emilio Berra TO    28 Gennaio, 2024
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Un romanzo cerebrale

"Per molti la noia è il contrario del divertimento; e divertimento è distrazione, dimenticanza. Per me, invece, la noia non è il contrario del divertimento in quanto, appunto, provoca distrazione e dimenticanza (...) . La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà" .

Un pittore di trentacinque anni, molto ricco di famiglia, fin da subito ci dice di aver cessato di dipingere. E' stata la noia, sua vecchia conoscenza sin dall'infanzia, ad allontanarlo dalla pittura.
Sarà una ragazza a diventare la sua ossessione.

un romanzo cerebrale, retto da lucide analisi della noia, qui manifestata a livelli patologici. Ma il protagonista, tanto carente di valori, come può dare un senso alla propria vita ?
Non mi sorprende che questa insoddisfazione venga letta come frutto di una borghesia che ha tutto smarrito fuorché il denaro.
Penso sia però un'interpretazione riduttiva, anche se nel testo l'analisi psicologica è volta più ai sintomi che al profondo.

Un romanzo con decine di amplessi. Il verbo "possedere" (non casualmente scelto, ovviamente) è reiterato a dismisura. Moravia, da scrittore di livello, riesce comunque a evitare cadute di stile.
Scarsa la piacevolezza di lettura : diciamo che la noia non mi è stata risparmiata.

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Calderoni Opinione inserita da Calderoni    20 Agosto, 2022
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Sesso e denaro, le chiavi della realtà

La prosa di Alberto Moravia è la migliore del nostro Novecento. Limpida e pulita, mai una parola in più del dovuto, mai una subordinata da rileggere per comprendere il senso del periodo. Il cosiddetto «grigiore» moraviano lo si ritrova ormai maturo anche ne La noia. Quando si legge l’autore romano, non bisogna attendersi picchi entusiastici, enfatici o retorici; si ha però la certezza di trovare una precisione descrittiva degli ambienti e degli stati d’animo fuori dal comune. La noia non è il primo romanzo di Moravia da leggere perché bisogna prima entrare in sintonia con la prosa dell’autore. Non a caso è un volume apparso nel 1960, ben trentuno anni dopo Gli indifferenti; per questo bisogna avvicinarsi a La noia dopo aver già sperimentato un Moravia pregresso e giovanile.
Compiute queste doverose premesse circa lo stile e le tempistiche, ne La noia si ritrova la summa della riflessione moraviana. È un romanzo potente, snervante e molto complicato. Meglio che in ogni altro libro si comprende come per Moravia le chiavi per entrare dentro la realtà siano due: il sesso e il denaro. In un modo o nell’altro si ritrovano entrambi gli elementi ne Gli Indifferenti o ne La Romana, ma è Dino, protagonista de La noia, a essere il perfetto concentrato delle riflessioni sul sesso e sul denaro. Questo romanzo si fonda su un sostanziale paradosso: il protagonista è un pittore ma smette di dipingere al primo rigo del libro e la sua tela disposta al centro dello studio in via Margutta a Roma rimarrà bianca fino all’ultima pagina. Si parla di un pittore che non dipinge più, che ha rifiutato di dipingere per un senso esistenziale di noia, ovvero di incomunicabilità con la realtà e i suoi contenuti. «L’aspetto principale della noia era l’impossibilità di stare con me stesso, la sola persona al mondo, d’altra parte, della quale non potevo disfarmi in alcun modo» scrive al termine del prologo Dino, la voce narrante.
Dino non è solo nel romanzo. Interloquisce con due presenze femminili: la ricca madre e Cecilia, giovane minorenne che frequentava il palazzo di via Margutta per posare nuda nei quadri di un anziano pittore, il Balestrieri. Proprio il Balestrieri è uno dei due personaggi maschili insieme all’attore Luciani. Se le figure femminili sono in scena e si confrontano quotidianamente con Dino, invece i due uomini sono assenti: Balestrieri muore all’inizio della vicenda durante uno dei tanti, tantissimi rapporti sessuali con Cecilia, mentre Luciani, successivo amante di Cecilia, quando la ragazza aveva già iniziato a frequentare Dino, è sempre dietro le quinte e si manifesta soltanto attraverso il racconto di Cecilia, le domande di Dino e le sue elucubrazioni.
Colei la quale prende pagina dopo pagina il sopravvento all’interno della narrazione è proprio Cecilia. Il motivo è semplice: diventa talmente avvolgente da capovolgere completamente l’esistenza di Dino, il cui tempo e le cui azioni dipendono a doppia mandata da Cecilia. «Era lei a possedermi ed io a essere posseduto, benché, poi la natura, per i suoi fini, illudesse lei e me del contrario. Così, pensai, ero un uomo finito: non soltanto non avrei mai più dipinto ma anche mi sarei distrutto nell’inseguimento di questa specie di miraggio che pareva sorgere dal grembo di Cecilia come dalle sabbie di un deserto» afferma un esausto Dino ormai prossimo a tentare il gesto estremo. Il vero problema risiede nella volontà di Dino di possedere la ragazza. Tenta in ogni modo: carnalmente, con il denaro, con una proposta di matrimonio. Tuttavia, i fallimenti si susseguono puntuali uno dietro l’altro tanto da spingere Dino a schiantarsi volontariamente con la macchina contro un platano. Solo a quel punto si ridesta e probabilmente (lascia lo stesso narratore il dubbio) comprende il proprio errore: «E, insomma, io non volevo più possederla bensì guardarla vivere, così com’era, cioè contemplarla». In quel letto d’ospedale durante la degenza ritrova quella sintonia con la realtà e forse potrà tornare anche a dipingere.
In questo turbato crescendo Cecilia, come detto, si eleva, senza fare nulla per farlo, a regina incontrastata del volume. Due aggettivi la catalogano: misteriosa e inafferrabile. Ha condotto alla morte Balestrieri, che prima di Dino era rimasto intrappolato nel corpo metà adulto e metà adolescenziale della giovane, e rischia di provocare la stessa fine in Dino. È definita senza cuore, falsa, interessata dalla vedova di Balestrieri; la stessa madre di Cecilia dice che «non è affezionata a nessuno», tanto che decide ugualmente di partire per due settimane con Luciani a Ponza sebbene il padre sia sul punto di morte dopo una lunga malattia. Eppure, nonostante questo, ha un fascino tale e una capacità di darsi che la rendono irresistibile agli occhi dei vari amanti (dal primo fidanzato Tony al primo amante Balestrieri, giungendo poi a Dino e a Luciani). «Era sempre, per così dire, pronta al rapporto sessuale, appunto come una macchina ben nutrita di combustile, è sempre pronta a funzionare» evidenzia Dino, ma guai a portare il discorso su di sé («quando veniva al discorso su di lei, era invece paragonabile a un’ostrica chiusa e tenace che tanto più stringa le proprie valve quanto più ci si sforza di disserrarle»). Le sue risposte sono sempre vacue, piatte, ma i suoi comportamenti sono studiati. Cecilia è un personaggio sfuggevole che non cerca di entrare in sintonia né con Dino né tanto meno con il lettore, che anzi è portato quasi ad agitarsi di fronte alla sua impassibilità e al suo darsi. È programmata in modo semplice e sembra priva di sentimenti; proprio per questo risulta misteriosa e inafferrabile, quasi senza scrupoli tanto da presentarsi da Dino il giorno della morte di Balestrieri oppure di partire per Ponza con il padre in fin di vita. «Non era in grado di pensare che ad una cosa sola per volta, quella che era più vicina e immediata e che le piaceva di più» analizza con un po’ di ritrovata lucidità Dino.
Ma siccome Moravia non si fa mancare niente anche la madre di Dino è costruita in modo alquanto incisivo. È la classica donna dell’alta borghesia romana con la villa in Via Appia; organizza ricevimenti e cura le finanze di famiglia dopo aver fatto scappare il marito e aver fatto allontanare il figlio. È una donna scrupolosa, attenta soltanto al denaro. Proprio con quest’ultimo prova a riportare tra le mura della sua villa il figlio, da sempre restio ad accettare l’idea di essere ricco ma consapevole del fatto che non potrà mai definirsi povero. E in tal senso Dino cede al denaro tanto amato dalla madre e lo spende per possedere Cecilia. Madre e figlio quindi si richiamano: la madre prova a impadronirsi del figlio attraverso il denaro, così come Dino prova a fare con Cecilia. È dunque chiaro che da questa sommaria analisi siamo di fronte a un romanzo realmente complicato, dai mille volti che lascia riflettere il lettore molto a lungo dopo la parola fine.

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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    11 Settembre, 2021
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In principio era la noia

"In principio, dunque, era la noia, volgarmente chiamata caos. Iddio, annoiandosi della noia, creò la terra, il cielo, l’acqua, gli animali, le piante, Adamo ed Eva; i quali ultimi, annoiandosi a loro volta in paradiso, mangiarono il frutto proibito. Iddio si annoiò di loro e li cacciò dall’Eden; Caino, annoiato d’Abele, lo uccise; Noè, annoiandosi veramente un po’ troppo, inventò il vino; Iddio di nuovo annoiato degli uomini, distrusse il mondo con il diluvio; ma questo, a sua volta, l’annoiò a tal punto che Iddio fece tornare il bel tempo. E così via. I grandi imperi egiziani, babilonesi, persiani, greci e romani sorgevano dalla noia e crollavano nella noia; la noia del paganesimo suscitava il cristianesimo; la noia del cattolicesimo, il protestantesimo; la noia dell’Europa faceva scoprire l’America; la noia del feudalesimo provocava la rivoluzione francese; e quella del capitalismo, la rivoluzione russa." Per quanto i ricordi di Dino possano andare indietro nel tempo, nella sua memoria la noia è sempre stata presente nel suo animo. Sarà che il giovane ha passato l'adolescenza sotto la cupa cappa del fascismo, regime che creò un clima di incomunicabilità ideale per generare e coltivare questo tipo di sentimento che per il protagonista non è, come dice il vocabolario, quel senso di insoddisfazione, fastidio, tristezza derivante dall'ozio o dalla monotonia. Per lui la noia è un sentimento di lontananza dalle cose e dalle persone, un'assenza di qualsiasi tipo di legame che rende inutile, vana, l'esistenza di oggetti, esseri umani, eventi di qualsivoglia specie. Un vero e proprio male di vivere che lo attanaglia da sempre, che rende sterile ogni rapporto umano, con la famiglia, con gli amici, con le donne con cui si trova a sfogare l'urgenza sessuale senza riuscire ad instaurare un minimo di comunicazione. Incapace di trovare un diversivo a questa sua condizione, nauseato dalla ricchezza e dal lusso nel quale la madre lo fa vivere, Dino va via di casa, accontentandosi di un piccolo mensile, di un'auto scalcinata, di uno studio fatiscente che gli fa anche da abitazione, nel quale prova a fuggire alla sua condanna esistenziale buttandosi a capofitto nella pittura. Neanche l'arte, tuttavia, lo aiuta nel suo intento. È proprio quando decide di abbandonare le velleità di pittore, tuttavia, che incontra la persona che, per prima e senza un perché, riesce a scalfire il muro eretto dal suo male oscuro: Cecilia. Un incontro casuale, una ragazzina a prima vista insignificante, una situazione torbida, sembrano essere il solito diversivo destinato in breve tempo ad essere risucchiato dal vortice implacabile della noia. Dino non è attratto da Cecilia, al massimo ne è vagamente incuriosito. Il loro rapporto si basa sul sesso e sulle domande con cui l'uomo tempesta la donna con incalzante voracità, a cui lei risponde con laconici monosillabi, frasi inespressive, evasivi silenzi. È convinto che ben presto il demone che lo assilla metterà fine a questa stupida storiella. Eppure non è così, più va avanti la relazione, più la ragazza si dimostra ambigua, inafferrabile, fallace, più la noia tarda ad arrivare. Per il giovane si tratta di un fatto nuovo e inspiegabile, che gli ispira lo stesso timore di un test per cui non si ritenga preparato, di una prova che non si senta in grado di affrontare. Cecilia è lì, vera, tangibile, reale, e finché resterà così la noia, che in Dino nasce quando cose e persone perdono concretezza, interesse, in altri termini diventano irreali, non si manifesterà sottraendolo a questo inquietante esame. Solo sentendo di possederla pienamente, non soltanto in senso fisico, ma anche mentale, sentimentale, spirituale, potrà trasformarla in qualcosa di astratto, immateriale, evanescente, e annoiarsi finalmente di lei, riscattandosi da questa schiavitù. Come si fa, tuttavia, a possedere un essere sfuggente, volubile, enigmatico come Cecilia? "Appena lei compariva sulla soglia dello studio, dimenticavo i miei propositi di freddezza, la gettavo sul divano e lì la prendevo, senza aspettare che si spogliasse, senza neppure darle il tempo, come lei stessa diceva con una punta di infantile compiacimento, di respirare. Era la solita illusione maschile di raggiungere il possesso in un sol colpo e senza parlare, con il rapporto fisico, che mi spingeva a questa furia. Ma subito dopo l’amore, vedendo Cecilia restare più inafferrabile di prima, mi accorgevo del mio errore e mi dicevo che se volevo possederla davvero, non dovevo spendere la mia energia in un atto che del possesso aveva soltanto le apparenze." Ambientato in un contesto capitolino postbellico borghese, amorale, ipocrita, pseudo intellettuale, il romanzo di Moravia si concentra sul concetto di incomunicabilità tanto caro all'autore e sempre fortemente attuale. Pochi personaggi, tutti odiosi, delineati benissimo dal punto di vista psicologico, poche ambientazioni per lo più accessorie alla trama, pochi colpi di scena ed eventi degni di nota, un incedere lineare spesso interrotto da divagazioni di carattere riflessivo, caratterizzano una storia incentrata per lo più sull'aspetto introspettivo, sul malessere che attanaglia l'uomo moderno e che troppo spesso lo fa sentire avulso dal mondo che lo circonda, alienato dalla realtà, incapace di comunicare con i suoi simili, con gli oggetti, perfino con se stesso. Come Dino, l'uomo si trova faccia a faccia con quella tela bianca che rappresenta la vita, e come il protagonista non sa cosa farci: potrebbe imbrattarla di pennellate che non potranno che risultare brutte, volgari, inespressive; potrebbe tagliarla, ridurla a brandelli, bruciarla; potrebbe lasciarla bianca, restando ad osservarla quale eterno monito alla sua incapacità di afferrare la realtà. Dino ricorda un po' l'Humbert di Nabokov (Lolita) per l'avidità sessuale nei confronti di un'adolescente, il Rodrigo di Buzzati (Un amore) per la morbosa forza del sentimento, il Roquentin di Sartre (La nausea) per il disagio esistenziale legato al rapporto con le cose e con le persone. Moravia definì questa sua opera "un romanzo d'amore", ed è forse questo sentimento ad essere il vero protagonista del libro, non soltanto il mezzo attraverso il quale affrontare il tema del male di vivere, ma il solo ed unico rimedio ad esso, la sola arma in grado di sconfiggere la noia.

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Cristina72 Opinione inserita da Cristina72    14 Ottobre, 2020
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Il battito della vita

"Il sentimento della noia nasce in me da quello dell'assurdità di una realtà, come ho detto, insufficiente ossia incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza".
Si tratta di uno di quei romanzi che, come si suol dire, lasciano il segno, non tanto per la trama in sé quanto per il modo in cui si dipana: mordace, disincantato, a tratti farsesco.
E’ la storia di un amore tossico che trova terreno fertile in un animo refrattario a tutto ciò che può dare significato alla vita: quello di Dino, rampollo, suo malgrado, di una famiglia aristocratica romana.
Viene in mente “Un amore” di Dino Buzzati, pubblicato qualche anno dopo (curioso che il protagonista abbia lo stesso nome), per il lento scivolare in una dipendenza amorosa le cui insidie, all’inizio, si celano dietro un insignificante incontro sessuale.
E poi l’esistenzialismo di Sartre (“la Nausea è l’Esistenza che si svela – e non è bella a vedersi, l’Esistenza”), e ovviamente Proust, che di amanti ambigue e sfuggenti scrisse a profusione.
Nel romanzo di Moravia troviamo la Roma dei salotti bene del dopoguerra, tratteggiata, si direbbe, con poche, sprezzanti pennellate, tanto che l’oggetto d’amore del protagonista, Cecilia, ragazza di umili origini dalla sessualità precoce e un po’ perversa, vi spicca per contrasto con una certa innocenza. Paradosso, questo, che sta alla base della passione di Dino, visto il suo rifiuto per il mondo opulento e frivolo a cui appartiene.
Cecilia, verace e vorace in una sua maniera quieta e indifferente, prende la vita come Dino non è capace di fare: con un distacco che non le impedisce di goderne appieno.
Il climax del romanzo sta tutto in questo contrasto, che si risolverà con un gesto estremo e necessario: cozzare contro la vita per risentirne, con sollievo, il battito.

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siti Opinione inserita da siti    15 Settembre, 2019
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SENZA VIA D'USCITA

Nel 1960 Moravia pubblica “La noia” che, dopo la parentesi neorealista postbellica (“La romana”, “La Ciociara”), riporta il lettore al punto di partenza, “Gli indifferenti” del lontano 1929. È un ritorno alla rappresentazione della borghesia in un mutato scenario storico, sociale ed economico: sono gli anni del grande sviluppo industriale, quelli che porteranno all’avvio di un modello consumistico solo apparentemente democratico, all’abbandono della morale tradizionale veicolata dalla religione, alla percezione di una maggiore libertà individuale, all’allentamento dei rapporti e dei vincoli in seno alla famiglia , all’avvio di un modello consumistico senza ritorno. La borghesia è sempre una classe sociale privilegiata, chiusa e portatrice di un intimo malessere ma ora può incontrare e riconoscere lo stesso disagio anche fuori dal suo mondo. È il caso di Dino, pittore trentacinquenne, romano, ricco borghese, incastrato in una vita che non gli appartiene, schiacciato da una identità sociale che non corrisponde al suo sentire. Vive in via Margutta, ha abbandonato gli agi di una comoda e lussuosa villa nella via Appia, cerca la sua identità nell’attività artistica. Lo conosciamo mentre inizia a percepire un’avversione anche verso questa identità che lo aveva salvato da un malessere pervasivo che lui, narratore in prima persona, chiama “noia”, specificando con opportuna disamina dal tono asciutto, analitico e clinico in cosa consiste questo sentire, non certo riconducibile alla accezione più nota del termine. La noia è l’impossibilità di collocarsi nel fluire della vita, è la percezione di un distacco gelido dal proprio vissuto, un’urgenza che, paradossalmente, mentre dovrebbe tendere all’azione porta invece all’inazione, all’inerzia perché si risolve in una successione di corto circuiti rispetto alla percezione della oggettività del reale. Tutto ciò che si manifesta intorno a Dino è reale ma assurdo e in quanto tale impossibile da vivere. A Dino è concessa però un’ancora di salvezza, si tratta della giovane Cecilia , una ragazza che con il suo aspetto provocante, con il suo torbido passato, con la sua modesta provenienza sociale potrebbe rappresentare l’alternativa alla stasi. I due intrattengono una relazione sessuale che sfocia presto nell’ennesima trappola per Dino: quando tutto si fa chiaro e certo, ritorna la noia e lui decide di lasciare Cecilia. Il comportamento della ragazza che gli anticipa la mossa rendendosi improvvisamente ambigua, irraggiungibile e sfuggente ribalta la situazione e vincola Dino a quello stesso oggetto donna che ormai aveva perso qualsiasi attrattiva. I suoi sforzi di appropriarsi di lei, di fermarla, di vincolarla , di imborghesirla per favorire quella vitalità che altrimenti non percepirebbe trasformano la relazione in un inseguimento senza speranza. Cecilia è l’altra faccia della medaglia, Cecilia è la noia povera, non possiede niente, non si attende niente, vive alla giornata lieta e spensierata, senza vincoli morali, senza vincoli famigliari, incapace di darsi agli altri se non con il corpo. È la cartina al tornasole del disagio trasversale a tutte le classi sociali secondo una fenomenologia che varia per spazi, ambienti, vissuti. Non c’è denaro che possa modificare la condizione di prigionia sentita e vissuta da Gino e da Cecilia , il dio denaro non garantisce la felicità nel primo caso, il dio denaro non compra la felicità nel secondo. La soluzione al disagio del vivere è vincolata alla volontà e ognuno la esercita come meglio riesce. Lettura claustrofobica, secca, lineare, angosciante, all’insegna di un esistenzialismo soffocante. Senza via d’uscita.

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topodibiblioteca Opinione inserita da topodibiblioteca    17 Febbraio, 2018
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Esistenzialismo all'italiana

Molto è già stato scritto su questo arcinoto romanzo di Moravia, a proposito di quella noia esistenziale così ben caratterizzata e descritta fin dal prologo (“Per molti la noia è il contrario del divertimento….per me, invece…..è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà…il sentimento della noia nasce in me da quello dell’assurdità di una realtà…incapace di persuadermi della propria effettiva esistenza).
Preferirei quindi soffermarmi un attimo a fare qualche riflessione sullo stile dell’autore in quanto poche volte (almeno tra gli italiani) ho incontrato scrittori capaci di scrivere in maniera così chiara di concetti non semplici, in quanto strettamente legati a momenti di vita personali, che hanno a che fare con argomenti spesso considerati tabù come il sesso. Leggere un romanzo di Moravia è un po' come trovarsi al tavolino di un caffè con un amico che ti racconta, in maniera del tutto confidenziale ma diretta, le sue esperienze. L'impressione che ne deriva è quella di riuscire ad immaginare facilmente quello che viene raccontato proprio grazie ad un linguaggio “parlato” e scorrevole che viene in qualche modo "impresso sulla pagina". Come disse lo stesso autore in un’intervista al momento dell’uscita del libro nel 1960, “La noia” è un romanzo d’amore in cui il sentimento amoroso diventa un filtro attraverso il quale parlare del senso di alienazione di un individuo, di una sua incomunicabilità rispetto al mondo reale. Questi aspetti emergono chiaramente dalla confessione del protagonista, il pittore mancato Dino, che sembra volersi confessare con il lettore raccontando del proprio disagio esistenziale, la cui causa primaria è riconducibile a quei concetti tipicamente "borghesi" rappresentati dal denaro e dalla ricchezza dai quali cerca di fuggire. Se il denaro infatti permette di comprare tutto quello che si desidera allora la realtà perde di interesse, diventa un qualcosa di stancante perché ogni cosa è posseduta, conosciuta ed inevitabilmente si manifesta la noia esistenziale, l’impossibilità ad interagire con il mondo. Le uniche cose che interessano veramente e che si desidera sono pertanto quelle inafferrabili, quelle che non si riescono ad acquistare nemmeno col denaro, come ad esempio l’amore di una donna che si concede solo fisicamente ma che in realtà appare distaccata e lontana. Ecco che allora un individuo può manifestare una terribile ossessione quando capisce di non riuscire a possedere quello che invece vorrebbe avere, perché solamente in questo modo smetterebbe di soffrire e subentrerebbe quella noia, in grado di condurlo alla pace dei sensi. Moravia riesce magnificamente a condensare questi concetti in quasi 300 pagine, delineandosi come un ideale prosecutore nostrano di quella tematica dell’”esistenzialismo” in qualche modo già così ben tratteggiata da Sartre.

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liaall Opinione inserita da liaall    02 Luglio, 2017
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Quando l'azione non è più una soluzione

"La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà. Per adoperare una metafora, la realtà, quando mi annoio, mi ha sempre fatto l’effetto sconcertante che fa una coperta troppo corta, ad un dormiente, in una notte d’inverno: la tira sui piedi e ha freddo al petto, la tira sul petto e ha freddo ai piedi; e così non riesce mai a prender sonno veramente. Oppure, altro paragone, la mia noia rassomiglia all’interruzione frequente e misteriosa della corrente elettrica in una casa: un momento tutto è chiaro ed evidente […]; un momento dopo non c’è più che buio e vuoto. Oppure, terzo paragone, la mia noia potrebbe essere definita una malattia degli oggetti, consistente in un avvizzimento o perdita di vitalità quasi repentina; come a vedere in pochi secondi, per trasformazioni successive e rapidissime, un fiore passare dal boccio all’appassimento e alla polvere."

Secondo Alberto Moravia la noia è la mancanza di rapporto tra l’uomo e le cose, l’incomunicabilità con la realtà circostante e Dino, il protagonista del suo romanzo, ne soffre da quando era bambino.

"Soprattutto quando ero bambino, la noia assumeva forme del tutto oscure a me stesso e agli altri, che io ero incapace di spiegare e che gli altri, nel caso mia madre, attribuivano a disturbi della salute o altre simili cause; […] sopraffatto dal malessere che mi ispirava quello che ho chiamato l’avvizzimento degli oggetti, ossia dall’oscura consapevolezza che tra me e le cose non ci fosse alcun rapporto."

Dino è nato in una famiglia romana ricchissima e nella sua vita ci sono essenzialmente tre cose: sua madre, la pittura e i soldi di famiglia. Ma come tutti i protagonisti delle opere di Alberto Moravia, sta stretto nei suoi panni di ricco borghese romano e allora si traveste, rifiuta il denaro e la villa di sua madre, va a vivere in un appartamento in via Margutta, la via romana dei poeti e degli artisti, indossa vestiti da squattrinato e si rifugia nell’arte della pittura. Presto si rende conto che quel travestimento non significa altro che continuare a tradirsi: Dino deve uscire a tutti i costi dalla sua condizione che pesa come un macigno sulle sue spalle borghesi di nascita. Smette di dipingere, negli ultimi tempi lo aveva fatto per noia, frequenta una ragazza del popolo, una modella di un vecchio pittore defunto, Cecilia, pensando che lei rappresenti in qualche modo la purezza e l’ingenuità del popolo e del proletariato, che badi agli istinti naturali e non alle costrizioni borghesi, che non guardi al denaro o al sesso ma amaramente scopre che anche il popolo ha le stesse “malattie” dei ricchi borghesi. Cecilia ama a modo suo Dino, Cecilia appare e scompare, gli sfugge così come la realtà, le piace l’odore dei soldi che Dino le regala ogni volta dopo il sesso, dove lei si rivela una dominatrice e non una dominata, e in questo Dino, sotto consiglio di Freud, che è onnipresente nell’opera di Moravia, ci leggerà che quella giovane ragazza del popolo è affamata più di quanto potesse pensare, tanto è che si stanca presto di Dino, povero per finta, che cercherà di comprarla fino alla fine riscoprendo il valore dei suoi soldi, della bella villa, della madre assillante. Ormai Cecilia è innamorata di un attraente attore romano che la corteggia animatamente, che le promette belle cose. Magistrale per modernità e integrazione tra le arti, in questo caso tra pittura, cinema e letteratura, è la scena simbolica in cui Cecilia, nuda sul letto, viene ricoperta interamente di soldi da Dino, una sua idea da pittore «scaturita dalla somiglianza del suo atteggiamento con quello di Danae».
È bene tener conto anche della stranezza del sentimento amoroso di Dino nei confronti di Cecilia: continuamente si intuisce una contraddittorietà di fondo in quello che forse è l’amore che prova, ma che non si sa se è amore.

"Capivo infatti che, fino a quando avessi sofferto, non avrei potuto separarmi da Cecilia come tuttora desideravo. E capivo pure che con Cecilia non potevo che annoiarmi e soffrire: finora mi ero annoiato e avevo desiderato, di conseguenza, di lasciarla; adesso soffrivo e sentivo che non avrei potuto lasciarla finché non mi fossi di nuovo annoiato."

Dino sull’orlo del precipizio decide di farla finita, non dovrà più guardare a quello spettacolo amoroso e soprattutto non dovrà più vestire panni che non sono i suoi. Qualcosa però non funziona e quello che doveva essere un suicidio liberatorio, si rivela uno stupido incidente che lo costringerà a pensare ancora e ancora, fino a quando concepisce l’unica via d’uscita dal suo dramma: la contemplazione passiva della vita che scorre poiché l’azione non è una soluzione vincente.
È questa la scappatoia per un uomo che nasce nella borghesia e non ci vuole rimanere, non ha via di scampo, non si può scappare da quella classe.
Dino scopre che il rapporto tra lui e le cose è offuscato dai valori sociali che complicano i comportamenti umani, amplificandone la falsità e l’ambiguità, che la cultura, portatrice di quei valori, è solo un ostacolo alla vera conoscenza delle cose e della realtà, diventa d’intralcio e di conseguenza anche l’intellettuale borghese, che la diffonde e la rappresenta, non gioca più nessun ruolo.
Dino è riuscito paradossalmente laddove non ce l’aveva fatta Michele Ardengo de Gli Indifferenti e forse dove non riuscirà nel 1978 neanche Desideria nonostante La vita interiore sia l’enciclopedia di tutti i casi umani immaginati da Alberto Moravia.

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joannes88 Opinione inserita da joannes88    07 Settembre, 2016
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L'inafferrabilità delle cose

Dino è un uomo giovane che pur avendo a disposizione denaro e ricchezze rifiuta gli agi e i lussi della bella vita che gli sarebbero garantiti dalla facoltosa madre per dedicarsi alla pittura in un modesto appartamento di Roma. E ciò non per spirito francescano o per una spiccata inclinazione artistica, bensì per sfuggire alla noia delle sue giornate, per illudersi cioè di avere un rapporto autentico con la realtà. Ma per quanto egli si sforzi di dipingere, non gli riescono che quadri mediocri: il mondo infatti continua ad apparirgli in ogni sua manifestazione un oggetto estraneo, impenetrabile e privo di significato, così che raffigurarlo su delle tele gli è semplicemente impossibile. Ecco cos’è la noia di cui soffre: non assenza di divertimento, come si potrebbe pensare, ma incomunicabilità, incapacità di instaurare un legame vero con tutto ciò che lo circonda, dalle cose alle persone. Si tratta perciò di un malessere esistenziale, che condiziona interamente la sua vita.
Nemmeno Cecilia – una giovanissima e procace popolana con la quale intreccia un’intensa relazione sessuale – sembra spezzare le catene della noia che lo imprigionano. Ma un evento inaspettato è destinato a mutare i sentimenti del protagonista per la misteriosa ed inafferrabile ragazza, che diventa il paradigma di una realtà che sfugge proprio nel momento in cui si cerca disperatamente di possederla. Fallito come artista, Dino fallirà anche come amante e in definitiva come uomo?

Per buona parte delle sue pagine il romanzo è un’autentica apnea da cui è difficile risalire: l’indolenza del protagonista e la sua incomprensibile incapacità di attribuire la minima rilevanza a qualunque oggetto o figura gli si presenti innanzi demoralizzano ed irritano il lettore, ma se si ha la pazienza di perseverare nella lettura si schiuderanno delle pagine di profonda e toccante verità.

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Opinione inserita da Vladislav    30 Giugno, 2016

Il contrario di nulla

La noia. Cos'è davvero la noia? Una risposta semplice, di una persona semplice, dalla vita semplice e dal pensiero semplice sarebbe: il contrario del divertimento. Ma Moravia dice no, la noia è qualcosa di indescrivibile e indecifrabile, radicata in ogni cosa persino nel divertimento, essa dà un piacere effimero quanto infimo e ci rende schiavi al suo gioco. La stessa schiavitù patita per la noia è quella di Dino, protagonista del libro, infatuato dalla sensuale Cecilia, la quale diviene nel racconto una vera e propria allegoria della noia che sembra averla presa in ostaggio rendendo ogni suo aspetto ideale vuoto e privo di un perchè che si esaurisce in frasi fatte e in espressioni nel puro stile dei luoghi comuni. Moravia rapporta questa situazione alla societá dei suoi anni ma sicuramente si puó leggere questo scritto anche oggi trovando molte similitudini. Anzi vorrei ribadire la cosa dicendo che questo libro sembra esser stato scritto ai giorni nostri da uno dei pochi indignati della noia collettiva che ci sta sopraffando sempre di più e che ci sta rendendo vuoti e privi di valori morali come Cecilia.
Il libro è scritto nel puro stile di Moravia, in protesta alla societá, in un sublime mix di pensieri e considerazioni scritte nel modo con cui lo scrittore ci ha sempre abituati lasciandoci spunti per riflettere sulle cose a fronte di ogni situazione. Ne consiglio vivamente la lettura e dopo di essa spero anche un una attenta e minuziosa riflessione anche sul mondo odierno.

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Pasolini e scrittori affini.
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pupa Opinione inserita da pupa    04 Mag, 2013
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La solitudine dell'uomo moderno

«Per molti la noia è il contrario del divertimento; e divertimento è distrazione, dimenticanza. Per me, invece, la noia non è il contrario del divertimento; potrei dire, anzi, addirittura, che per certi aspetti essa rassomiglia al divertimento in quanto, appunto, provoca distrazione e dimenticanza, sia pure di un genere molto particolare. La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà».
Queste sono le parole usate da Dino, protagonista de La noia, per dare sfogo ad una visione esistenziale propria, sottomessa alle sfaccettature della particolarità di un carattere strano, il suo. Si viene, così, facilmente catapultati nel mondo fatto prosa, in un'opera assai incisiva all’interno del mare magnum della produzione moraviana. Pubblicato nel 1960, La noia ottenne lo stesso successo de Gli indifferenti e de La romana, vincendo, nel 1961, il meritato Premio Viareggio.
Non è difficile decifrare la personalità di Dino, il quale, narrando di sé nelle pagine del prologo, conduce senza deviazioni ai personaggi di Svevo, alienati dalla società e incapaci di vivere serenamente. I termini scelti per ritrarre con parole lineamenti e fattezze proprie, nel protagonista rivelano una certa, inequivocabile frustrazione: «Io non sono bello essendo precocemente calvo, con un volto per lo più fosco e grigio». E grigia e fosca, evidentemente, appare dall’inizio anche la sua vita.
Dino, così come egli stesso racconta, inizia a patire la noia già da bambino, risultando, per questo motivo, insulso e lento anche negli studi. Per la stessa, insostenibile causa, complesso è per lui anche divertirsi, leggere un libro. Ormai adulto, divenuto pittore, dichiara di sentirsi soffocare ancor più che in passato. Respira a fatica, vinto da un'oppressione infinitamente rotante: «Avevo sperato, come ho già detto, che la pittura avesse debellato la noia; ma mi accorsi quasi subito che non era così. Ripresi, dunque, a soffrire di noia nonostante la pittura; anzi, poiché la noia interrompeva automaticamente la pittura, mi resi conto della intensità e frequenza del mio vecchio male con maggiore precisione di quando non dipingevo».
Dino è invaso da un’originaria ossessione che gli mostra la noia come logica conseguenza dell' essere ricco. Ed è proprio della ricchezza che egli prova a liberarsi con spasimante fremito, quasi in un atteggiamento di convulsa nevrosi. Si rende poi conto dell' impotenza ad attuare il mutamento: «non si poteva rinunciare alla propria ricchezza; essere ricchi era come avere gli occhi azzurri o il naso aquilino». Ogni pretesto e molte occasioni per Dino sono utili mezzi lungo la scia della premeditata fuga da una sgradita inclinatura sociale. Riesce a concepire un'idea che gli appare risolutiva: allontanarsi dalla madre che nell’ostentazione del benessere sguazza senza rimorsi. E la figura materna, trasportata anche qui, è ricorrente presenza nell'opera di Moravia. L'autore disegna il personaggio usando forti impressioni della mano e ricalcando. Quando scorgiamo Dino, affettivamente legato alla genitrice, ma ideologicamente assai lontano da essa, sembra di incontrare ancora una volta Desideria, la protagonista de La vita interiore, la giovane che, in uno stralcio del romanzo, regala alcune monete, ricevute in dono dalla madre adottiva, ad una domestica che le rifiuterà. Per disfarsi materialmente di un oggetto sgradito, nel simbolismo atattile di una condizione invivibile: questo il più sensato commento all' atteggiamento dei due.
I personaggi de La noia vivono in una Roma di cui lo scrittore parla dando per scontati nomi e caratteristiche di strade e vie. Dopo aver vissuto nella casa d’origine sulla via Appia, Dino si trasferisce in un piccolo studio in via Margutta, teatro di gran parte della vicenda amorosa con Cecilia, altro personaggio cardine della vicenda. Imponente presenza è anche quella di Balestrieri, anziano pittore amante delle donne, del quale Dino ricalcherà la sorte, identificandosi fatalmente con esso e in modo imprescindibile dal suo libero arbitrio: «Era stato una specie di pazzo Balestrieri; ma un pazzo la cui pazzia consisteva nell’illusione di avere un rapporto con la realtà, ossia di essere savio, come testimoniavano le sue tele; mentre io, non potei fare a meno di dirmi, ero forse un savio la cui saggezza, però, consisteva nella profonda convinzione che un simile rapporto fosse impossibile, ossia un savio che si credeva pazzo».
Lasciando che il lettore entri a contatto con l’immagine del protagonista lentamente, così come "al rallentatore" pare essere la stessa vita di Dino, Moravia giunge a mostrare sensibilmente Cecilia, modella ed ex amante di Balestrieri, la quale somiglia vagamente, nella perversione dei sensi, alla Lolita di Nabokov: «Ho concluso che Cecilia non aveva sentimento e, forse, neppure vera sensualità, ma soltanto un’appetito del sesso di cui lei stessa non era del tutto consapevole pur subendone passivamente l’urgenza», dice Dino.
Egli la descrive più volte, non tralascia nulla del fisico di lei. La scruta, la studia, la definisce con maniacale precisione di tratti: «adolescente dalla vita in su, donna dalla vita in giù, Cecilia suggeriva un po’ l’idea di quei mostri decorativi che sono dipinti negli affreschi antichi: specie di sfingi o arpie, dal busto impubere innestato, con effetto grottesco, in un ventre e due gambe possenti».
Il carattere ambiguo di Cecilia è ciò su cui Dino s’impunta testardamente, forse non spiegandone mai fino in fondo la natura: «Anche quando le avveniva di dare una risposta esatta, mi lasciava egualmente nel dubbio con il suo linguaggio freddo, generico e scolorito che sembrava essere il frutto di una disattenzione invincibile».
Tutto tra i due amanti sembra ridursi al solo sesso, all'intreccio di corpi dissimili: affiora il simboleggiare dell'eros come sfacciato contatto con la realtà, congiunzione che il senso di noia pare strappare incessantemente; la regolarità abitudinaria e prevedibile delle visite e delle telefonate di Cecilia fa sì che Dino si accovacci su un sentimento che pare morto, una sensazione di nulla e non certo di amore, di passione scaduta. Nell'uomo campeggia un costante pensiero: liberarsi dell'inutilità del rapporto con la giovane donna e di lei stessa. Questo fin quando Cecilia, trovato un altro uomo cui mostrarsi, gradualmente lascia a Dino un'assenza, disertando i soliti, scabrosi appuntamenti. La storia prende, di colpo, una piega inaspettata: Dino, pazzo di gelosia, si risolve a spiare Cecilia e il suo nuovo uomo usando l'arte tecnicamente voyeuristica di un detective e la disperazione matta di un innamorato. La scena attraverso cui lo osserviamo, seduto in un bar a studiare meschinamente movimenti e mosse dei due amanti, incarna il sentimento della gelosia meglio di qualunque definizione da vocabolario. Pregnante è anche il momento in cui il protagonista, raggiunto dalla follia, stringe le mani intorno al collo della ragazza: vorrebbe soffocarla e ucciderla, vorrebbe che la morte la rendesse definitivamente ed esclusivamente sua.
È il denaro a contaminare di noia l’infanzia, la giovinezza e l’intera esperienza esistenziale di Dino, come già si è detto; ed è col denaro che Dino, in un istante del suo agire isterico, ricopre interamente il corpo di Cecilia, compiendo un atto di certa allegoria.
Ne La noia Moravia scrive anche della figura paterna, ma il suo è solo un breve cenno: con il pretesto della «dromomania», che la madre di Dino propone per giustificare l’abbandono da parte del marito, lo scrittore si sbarazza in fretta del personaggio; anche il padre di Cecilia compare, ma è reso impotente e muto: «Il padre di Cecilia si alzò a fatica dalla poltrona in cui stava seduto ad ascoltare la radio e mi tese la mano senza parlare, indicando nello stesso tempo la propria gola , come per avvertirmi che , a causa della malattia, era afono», spiega Dino.
L’appartamento in cui la giovane vive con i genitori è raffigurato nei minimi particolari ed entrarvi è sconcertante, tanto per Dino, quanto per il lettore: «la decadenza della casa si rivelava non tanto nell’aspetto logoro dell’arredamento, quanto in alcuni particolari quasi incredibili che parevano indicare una trascurataggine antica e ingiustificata». La stanza di Cecilia è vuota e fredda: un letto di ferro, un armadio di legno grezzo e due sedie ne sono il solo ornamento. Un bravissimo Moravia, fotografo senza scatti, se non quelli della sua stessa mano sulla macchina da scrivere.
Al culmine della vicenda e verso le pagine finali del romanzo, Dino tenta il suicidio, ma il suo proposito di morire è tanto finto quanto il proposito di Michele di uccidere Leo ne Gli indifferenti. Dino, ancora vivo, si sveglia in una stanza d’ospedale. Osserva un cedro del Libano piantato oltre l'opaco vetro della sua finestra e capisce, in quell'istante, di avere — forse — imparato ad amare Cecilia.
Si riporta, infine, come chicca, ciò che Pier Paolo Pasolini rispose il 18 marzo 1961 ad un suo lettore:
"Il testo esprime la solitudine dell'uomo moderno o, più precisamente la antiumana condizione dell'uomo nell'odierna società. ... È, quindi, libro attuale scritta dall'autore indirettamente: Dino, il protagonista, è l' stesso che racconta: eppure, malgrato questa soggettività narrativa, l'opera è estremamente oggettiva, cosciente. Il personaggio non è che un'espediente, usato per esprimere uno stato d'angoscia ben chiaro, storicizzato, razionale nell'autore, e ridonato alla sua vaghezza, che è poi concretezza poetica, nel personaggio. ... L'opera esprime l'angoscia del borghese moderno ... Moravia lo sa benissimo: e lo sa anche il suo personaggio, Dino, il quale vive ed opera a un livello culturale inferiore solo di un gradino a quello di Moravia. Per tutto il romanzo, dunque, non si fa altro che discutere, analizzare, definire l'angoscia (nel romanzo chiamata ). Essa deriva da un complesso nato nel ragazzo borghese ricco: il quale complesso comporta una deprimente impossibilità di rapporti normali col mondo: la nevrosi, l'angoscia. L'unico modo per sfuggire è abbandonarsi all'eros: ma anche l'eros si rileva niente altro che meccanismo e ossessione. Questo è quello che sa il personaggio. Moravia ....sa che la psicologia non è solo psicologia: ma anche sociologia. Sa che quel di cui si diceva, se è un fatto strettamente personale, è anche un fatto sociale, derivante da un errato rapporto, cioè, tra ricco e povero, tra intellettuale e operaio, tra raffinato e incolto, tra moralista e semplice. In altre parole, Moravia conosce Marx, il suo protagonista no. Ecco perché il tanto discettare che fa il suo protagonista sul suo male, gira un po' a vuotoed ha un valore puramente mimetico e lirico. Manca alla soluzione quella parola che Moravia conosce e il suo protagonista no. La noia è un romanzo splendido, la cui ultima pagina doveva essere una tragedia, e non una sospensione, Moravia doveva aver la forza di non dare alcuna specie di speranza al suo protagonista: perché quello del protagonista è un male incurabile. Non ci sono terze forze, né ideali di sincretismo umanistico capaci di liberarlo. ... (n. 11 a. XVI, 18 marzo 1961)

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erlebnis Opinione inserita da erlebnis    03 Febbraio, 2012
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Narrazione di una "noia" attualissima

Pochi autori possono fregiarsi dell'appellativo di "narratore" come Moravia. La sua capacità di raccontare è cristallina, limpida, avvolgente. Si possono preferire altri scrittori, che magari orientano la loro ricerca stilistica su più o meno riuscite sperimentazioni, ma, per i lettori che pretendono una STORIA che li catturi, Moravia è sicuramente uno degli autori ideali.
La trama non è infatti basata su un intreccio chissà quanto originale, eppure, in virtù delle capacità "affabulatrici" dell'autore, FUNZIONA: Dino, un pittore "annoiato" dai clichés borghesi, e la giovane, sfuggente, Cecilia allacciano una relazione, che alimenta l'ossessione di lui quanto più scopre le bugie e e tradimenti della ragazza, spesso da lei stessa candidamente confessati. La frustrazione di Dino sarà esacerbata dalla refrattarietà inaspettata di Cecilia ad un legame "convenzionale", al quale lui cerca (invano) di piegarla, ricorrendo a quei valori borghesi basati sul possesso materiale anche delle persone, che lui aveva sempre disprezzato nella propria famiglia. Per sconfiggere la noia che lo attanaglia, Dino dovrà sfiorare la tragedia, che gli rivelerà un alternativo contatto con la realtà.
Pubblicato nel 1960, "La noia" è un romanzo che ha ancora molto da dire, basato com'è su problematiche quanto mai attuali in un'epoca di crisi economica e sociale come la nostra, che impone una rivalutazione dei valori su cui si fondano i rapporti interpersonali, al di là del binomio sesso-denaro presentato da Moravia come cardine su cui ruota la società contemporanea.

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Rosaliaa Opinione inserita da Rosaliaa    21 Settembre, 2011
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Gli intellettuali

Non è certo il capolavoro di Moravia che, finora, attribuisco stabilmente a “La Romana”. Il romanzo è lento e monotono, la noia affiora ma non come sentimento volontario che l'autore non riesce a controllare – perché non è malessere, ma solo incapacità di cogliere il punto preciso dei fatti e scoraggiamento sulla possibilità di raggiungerlo. È comunque una gran bella opera ai livelli più alti dell'autore; ma se i lettori intellettuali non l'avessero infarcito di tutte le fantasticherie di capolavoro, non mi sarebbe venuta tanta delusione d'aspettativa. L'avrei forse anche messo un pelino sotto “La Romana”, indubbiamente, la perfezione.

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