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Nel cuore di una "piccola, goffa harami"
Il cuore di Nana è pieno di risentimento verso la vita e le parole di quel risentimento sono quelle con cui si rivolge a sua figlia Mariam. Mandare a scuola lei? E perché esaudire questo suo desiderio? "Sarebbe come lustrare una sputacchiera". A donne come loro serve imparare una sola abilità nella vita: il tahamul, la sopportazione, e ad insegnargliela può bastare lei. Sì, perché Nana ne è convinta: il destino di sua figlia è già segnato. È una donna e "il dito accusatore dell'uomo trova sempre una donna a cui dare la colpa". Ma sopra ogni cosa, Mariam è una harami, una bastarda, "qualcosa di indesiderato", e mai avrebbe potuto rivendicare per sé le stesse cose cui i suoi fratelli e le sue sorelle, degli estranei per lei, hanno invece diritto: "l'amore, la famiglia, la casa, l'essere accettata".
"Pensi che ti consideri una figlia?... Non hai altro che me al mondo, Mariam... Sai che ti voglio bene, Mariam jo."
Tuttavia Mariam si fida di Jalil, suo padre, uno degli uomini più ricchi di Herat; lui le insegna a pescare, a disegnare un elefante con un solo tratto, le insegna poesiole. Lei lo attende con ansia ogni giovedì alla kolba di legno in cima ad una collina. Accanto a lui, Mariam "sentiva di meritare tutta la bellezza e la bontà che la vita aveva da offrire".
È il 1974 e i suoi quindici anni segnano una triste svolta nella sua vita. Il risentimento di Nana le raccontava la verità: Jalil, suo padre, non ha il dil, il coraggio, e lei, Mariam, per le sue tre mogli legittime rappresenta "la personificazione in carne ed ossa della loro vergogna" e ora, che Nana non c'è più, non rinunciano all'occasione di allontanarla per sempre dalle loro vite.
Laila, "Bellezza della notte", "Ragazza Inqilabi, ragazza Rivoluzionaria" perché nata la notte del colpo di stato dell'aprile 1978, è invece orgogliosa del suo Baba, "orgogliosa della dedizione che le riservava e determinata a continuare gli studi come aveva fatto lui". La presenza di suo padre però compensa solo in parte l'assenza di Fariba, sua madre, ancorata al ricordo di Ahmad e Nur, i figli che la jihad le ha portato via. Laila non ha che un vago ricordo di loro, "Era difficile sentire, sentire veramente la perdita patita dalla mamma". Per lei suo fratello è Tariq, il figlio dei vicini, suo compagno di giochi che la difende dai dispetti dei coetanei. Tariq, un amico, un amico speciale.
Ad unire le vite, così diverse, di Mariam e Laila ci saranno la guerra e Rashid.
La guerra, inferno per il paese, per Kabul, priva Laila dei suoi affetti, ma le insegna a mettere da parte se stessa quando c'è un bene più grande da preservare.
Quella stessa guerra 'concede' a Mariam di vedere la sua vita attraversata da "alcuni momenti di bellezza".
"Pensa come deve pensare una madre, Laila jo. Pensa come una madre. Io lo sto facendo."
Sotto la coltre del tahamul, della vergogna, del disprezzo, dei falsi spiragli di felicità, quella "piccola, goffa harami" ha custodito la capacità di dare amore e una silenziosa e insospettabile forza.
"Pensò al suo ingresso in questo mondo, figlia harami di una povera ragazza di paese, una cosa indesiderata, un malaugurato, increscioso incidente, un'erbaccia. Eppure lo lasciava dopo essere stata un'amica, una compagna, una donna che si era presa cura degli altri. Una madre. Una persona di valore, finalmente. No. Non era poi tanto male che dovesse morire in quel modo, pensò Mariam. Era la fine legittima di una vita che aveva avuto un inizio illegittimo".
Un romanzo coinvolgente che dà spazio all'Afghanistan, alla sua storia e alla sua cultura soprattutto attraverso le voci e la forza delle donne.