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Cose che succedono la notte
 
Cose che succedono la notte 2021-02-27 18:27:24 cesare giardini
Voto medio 
 
3.8
Stile 
 
4.0
Contenuto 
 
5.0
Piacevolezza 
 
3.0
cesare giardini Opinione inserita da cesare giardini    27 Febbraio, 2021
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Dopo un viaggio disperato la vita torna a sorrider

Il romanzo di Cameron è molto particolare: dopo poche pagine può suscitare nel lettore atteggiamenti opposti, l’abbandono della lettura oppure la curiosità di capire il perché di una vicenda strana e quasi irreale, immersa nel buio di una perenne notte nordica, ammantata dal gelo e dalla neve. Un treno corre attraverso lande desolate, trasportando tra gli altri due personaggi, i protagonisti, un uomo e una donna dei quali non verrà mai svelato il nome: il loro viaggio (da molto lontano, probabilmente oltreoceano) ha come scopo l’adozione di un bambino, in un orfanotrofio dell’estremo nord. L’atmosfera è irreale, il buio incombe su tutto, la neve trasforma tutto in un paesaggio da favola, quasi sospeso nel tempo. I due, la donna sofferente per un tumore, magra, dal carattere indecifrabile, volubile, l’uomo premuroso nei confronti della compagna ma dal carattere fragile, si fermano al Grand Imperial Hotel, una lussuosa ed imponente struttura che sorge come per incanto in una landa desolata e che ricorda, così, al primo impatto, il Grand Budapest Hotel dell’omonimo film del 2014, con quei due leggendari personaggi, Gustave, il portiere, e Zero Mustafà, il fattorino (per inciso, grande film e due indimenticabili protagonisti!). L’Imperial Hotel del nostro romanzo è semideserto, animato solo da strane figure: una cantante in abito da cerimonia, che si prende a cuore i due nuovi visitatori, uno strano viaggiatore per affari, invadente e grossolano, un cameriere puntuale, quasi un’immagine iconica, immobile in un angolo dietro il bancone del bar. Tutt’attorno, lussuosi salotti, saloni da cerimonia e sale da pranzo riccamente arredate: in queste atmosfere d’altri tempi, i due sopravvivono, fino al giorno della visita all’orfanotrofio: per errore vengono portati in un altro Istituto, dove una specie di santone guaritore promette pace e serenità. Alla fine , la donna affascinata dalle parole di fratello Emmanuel (così si chiama il guaritore) decide di fermarsi per sempre in Istituto (dove serenamente si spegnerà), mentre il compagno, con il bambino prelevato dall’orfanotrofio, riprenderà il treno con il cuore spezzato, portandosi però a casa quella creatura, emblema di speranza, a cui dedicherà tutta la sua vita.
La storia prende alla gola, come una morsa, ha tante sfaccettature e invita a riflettere su tanti aspetti della vita: l’unione tra i due protagonisti sempre sul punto di spezzarsi pur dichiarandosi sempre reciproco amore, la solitudine in un ambiente lussuoso e freddo, animato superficialmente da personaggi inadatti a comprendere la crisi esistenziale dei due viaggiatori, alla ricerca di un figlio e di una miracolosa guarigione, la notte perenne, il buio in cui tutto pare sospeso e che avvolge tutto, quel buio che, alla fine, è il vero protagonista del romanzo, quell’allucinante buio che in varia misura può esserci in ognuno di noi.
Lo stile narrativo non si perde in divagazioni: parti discorsive e riflessioni sono essenziali, stringate, esprimono il tormento interiore dei protagonisti sempre alla ricerca di una soluzione alle loro speranze. Soluzione che forse alla fine trovano, lei nella beatificante visione di una fine serena, lui portandosi via il piccolo adottato che gli aprirà il cuore ad una nuova vita.
Lapidaria ed emblematica la frase che Livia Pinheiro-Rima (la donna di spettacolo conosciuta in Hotel) sussurra alla viaggiatrice: “ Viviamo in un’epoca buia, nessuno riesce a trovare la propria strada. Procediamo a tentoni, come i ciechi. Somigliamo a quegli animaletti sotterranei che scavano la terra fredda e umida nella speranza di trovare una radice commestibile. Noi non siamo migliori… “. E’ un po’ la morale del romanzo. Ma ci sono cose peggiori dell’essere ciechi e del procedere a tentoni nel buio: “Essere morti”, conclude Livia.
Cameron ci fa capire di credere in quella fioca luce che spezza il buio e si accende alla fine del romanzo. Simon (così si chiama il piccolo dell’orfanotrofio) sembra proprio rappresentare la materializzazione della famosa citazione ciceroniana “ finchè c’è vita, c’è speranza”: quando tutto è disperato e soffocato dal buio e dal gelo, anche solo un barlume di speranza e di vita comincia a diventare vera forza.

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