Almarina Almarina

Almarina

Letteratura italiana

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Può una prigione rendere libero chi vi entra? Elisabetta insegna matematica nel carcere minorile di Nisida. Ogni mattina la sbarra si alza, la borsa finisce in un armadietto chiuso a chiave insieme a tutti i pensieri e inizia un tempo sospeso, un'isola nell'isola dove le colpe possono finalmente sciogliersi e sparire. Almarina è un'allieva nuova, ce la mette tutta ma i conti non le tornano: in quell'aula, se alzi gli occhi vedi l'orizzonte ma dalla porta non ti lasciano uscire. La libertà di due solitudini raccontata da una voce calda, intima, politica, capace di schiudere la testa e il cuore. Esiste un'isola nel Mediterraneo dove i ragazzi non scendono mai a mare. Ormeggiata come un vascello, Nisida è un carcere sull'acqua, ed è lì che Elisabetta Maiorano insegna matematica a un gruppo di giovani detenuti. Ha cinquant'anni, vive sola, e ogni giorno una guardia le apre il cancello chiudendo Napoli alle spalle: in quella piccola aula senza sbarre lei prova a imbastire il futuro. Ma in classe un giorno arriva Almarina, allora la luce cambia e illumina un nuovo orizzonte. Il labirinto inestricabile della burocrazia, i lutti inaspettati, le notti insonni, rivelano l'altra loro possibilità: essere un punto di partenza. Nella speranza che un giorno, quando questi ragazzi avranno scontato la loro pena, ci siano nuove pagine da riempire, bianche «come il bucato steso alle terrazze».



Recensione della Redazione QLibri

 
Almarina 2019-04-11 08:52:23 ornella donna
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ornella donna Opinione inserita da ornella donna    11 Aprile, 2019
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Una ragazza ferita. Una rinascita duplice.

Valeria Parrella, è nata nel 1974, e vive a Napoli. Ha esordito con la raccolta di Racconti Mosca più balena. E poi ha pubblicato: Lo spazio bianco, Tre terzi, Lettera di dimissioni, Tempo di imparare, Ma quale amore, Troppa importanza all’amore, e Enciclopedia della donna. Aggiornamento. Ora pubblica con la casa editrice Einaudi: Almarina. Un romanzo intenso e profondo, toccante, che parla di dolore e di rinascita, del risorgere dopo grandi momenti difficili e traumatici. E di come questa risalita stessa sia sempre e comunque irta di ulteriori difficoltà ed ostacoli.
La protagonista di questa storia si chiama Elisabetta Maiorano, ha cinquanta anni, ed è una insegnante di matematica. Ma svolge il suo lavoro in un luogo particolare: nel carcere minorile di Nisida, un’isola del Mediterraneo:
“Nisida è un carcere minorile, le avessi scavate con le mie mani le strade di tufo che fanno arrampicare su la macchina. Come se mi stessero facendo un favore.”
Un luogo dove vigono leggi ferree che lo differenziano dalla normale comunità, per cui:
“Per oltrepassare il cancello grande si deve bussare a un campanello, il campanello sta a dieci passi piccoli dalla guardia che mi ha controllato i documenti. (…) C’è, in questa prassi, tra il casotto delle guardie e quel cancello, un’atmosfera diversa di ossigeno rarefatto. “
Gli abitanti di questo carcere sono giovani adolescenti minorenni, con vita e trascorsi passati che li hanno segnati in profondità, e che cercano affannosamente di costruirsi una vita. Magari differente da quella vissuta finora. Ma il percorso è lungo, e irto di impedimenti. Gli insegnanti, inoltre, devono porsi nei loro confronti con un certo distacco, per non farsi travolgere e perdere di obiettività. Un giorno, però, giunge ospite una giovane persona di nome Almarina:
“Oggi a lezione c’è una ragazza nuova. (…) Ci dice che ha sedici anni, che è una rumena (o quello che ne resta, dopo che il padre la violentò e la rovinò di mazzate). Non riesce a farsi capace che quella vita che ricorda sia la stessa che mena ora: la morte della madre, la perdita del fratello, non vedere mai più i boschi neri, la neve. (…) Almarina sa che quello che non è presente alla vista non esiste più.”
Per la vedova cinquantenne Elisabetta, Almarina, appare come una figlia mancata e il suo futuro tutto da costruire. Insieme. Ma….
Un libro ricco di poesia, che racconta, con uno stile ricco di fascino, e molto colto, una quasi “storia di amore”. Una storia di vuoti, di perdite, di cadute, e di tanto tanto dolore, ma anche di rinascita e di superamento. Una lettura che travolge e coinvolge in un turbinio di emozioni e di sentimento, con rara maestria e capacità. Notevolmente coinvolgente, ricco di sensibilità e di introspezione.

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Almarina 2020-10-14 16:23:59 Bruno Izzo
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Bruno Izzo Opinione inserita da Bruno Izzo    14 Ottobre, 2020
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Non metteteli alle strette

Nisida è un’isola minuscola, la più piccola delle isole dell’arcipelago campano, vicinissima a Napoli, a cui è fisicamente unita da un lungo pontile.
Questo legame con la terraferma addirittura la fa confondere con una penisola, e invece è isola con tutti i crismi, di origine vulcanica, anche incantevole e affascinante, alla pari delle più note Capri, Ischia, Procida: appare come quelle una piccola perla, incastonata nell’azzurro del golfo partenopeo.
Per bellezza e posizione strategica, è da sempre appetita da molti squali per lucrose speculazioni turistiche, invece lo Stato resiste ad ogni lusinga, almeno finora, e l’ha destinata da essere sede di un carcere minorile. Un signor carcere, in verità, un moderno organismo di recupero e autentica riabilitazione del reo, un complesso di elementi tesi a fornire ai giovani reclusi un minimo di istruzione, di corsi professionali, laboratori e quanto altro, compresi strumenti di supporto psicologico, volti a indurli a costruirsi un futuro prossimo diverso da ciò di disastroso che, in precedenza, li ha precipitati nella realtà di custodia.
In questa struttura, ai minori reclusi per i reati più disparati, viene quindi offerta la possibilità di una rieducazione tesa ad un reinserimento reale nella società non malavitosa, invero impresa alquanto difficile e difficoltosa, malgrado gli sforzi encomiabili di operatori e istituzioni.
In questo percorso irto di ostacoli, non è certo sufficiente, non è garanzia di successo che la struttura per il recupero dei minori abbia una collocazione paradisiaca per sede e strumenti.
Nemmeno possono sopperire, per quanto davvero ammirevoli, gli sforzi di quanti, dal direttore alle guardie, dagli educatori agli operatori professionali e agli insegnanti, ogni giorno si prodigano, con sacrificio e abnegazione personale, a restituire una prospettiva di vivere diversa, fuori dai giri delinquenziali, alle giovani vittime di circostanze avverse, tutti, chi più chi meno, poco più che bambini, malgrado le apparenze.
Perché, diciamolo francamente, i minori privati della libertà personale altro non sono che bambini, se non nel fisico e nell’ingenuità, malizia e furbizia, certamente nell’immaturità, incoscienza, sprovvedutezza e superficialità del loro agire.
Minori finiti loro malgrado, ed esclusivamente per nefasti influssi ambientali, nelle maglie della giustizia penale.
Gli addetti ai lavori, ed è un lavoro assai delicato il loro, provano a plasmare diversamente, per quanto concesso, e ad indirizzare al lecito i loro assistiti, tentano di fornire agli animi fragili e acerbi dei giovani reclusi una parvenza di sicurezza, di conforto, di valori in cui credere e condividere.
Se spesso il successo non arride ai loro sforzi, è semplicemente perchè viene pure il giorno della fine pena, e i ragazzi tornano in libertà:
“…torneranno da dove sono venuti, e dove sono venuti è il motivo per cui stanno qui”.
Così, semplicemente, Valeria Parrella presenta lo scenario essenziale del suo “Almarina”.
Un bel libro, un romanzo breve, in cui l’autrice parla di tanti argomenti insieme, ci riporta di Nisida e della casa di reclusione dei minori, delinea con tratti brevi e incisivi i personaggi che lì vivono, sia che ci lavorino o vi siano coattivamente domiciliati, e di questo fa pretesto per narrare di affetti, di famiglia, di figli, in definitiva racconta di sentimenti, di amore.
Lo fa per spunti, non approfondisce mai la tematica a fondo, sembra suggerire, anziché rivelare.
Valeria Parrella si esprime per immagini, e immagini scrive, fornisce uno spunto, fissa un istante, un singolo scatto, poi lascia che sia il lettore a delineare gli sviluppi del discorso, come l’avverte la propria sensibilità. La scrittrice napoletana sussurra, non dice; suggerisce, non declama; propone, non afferma. Il suo dire crea suggestione, e lascia al lettore ogni interpretazione; racconta, ma in silenzio.
Presenta una piccola isola che potremmo considerare l’emblema del vivere a misura normale d’uomo, e che è invece il simbolo dell’assurdità del sistema giudiziario.
Vivere su un’isola più o meno felice, per un breve tempo, può forse servire ai giovani e inesperti naufraghi qui giunti per le burrasche dell’esistenza, a ritemprarsi, imparare a governare meglio le vele, riparare il fasciame degli scafi lesi da condotte di vita sviate, ma ributtare poi di nuovo i derelitti tra i marosi in burrasca, senza offrirgli bussole e sestanti adatti per condurli in altri porti, significa destinarli a schiantarsi ancora sugli scogli, anche più frastagliati e pericolosi.
Nisida non basta, serve che anche quanto lo circondi assuma contorni non diremmo paradisiaci, sarebbe utopistico pensarlo, ma a misura d’uomo.
Serve la famiglia, urge la scuola, occorre il presidio del territorio, necessita rivalutare l’esistenza e ripristinare una scala di valori, ma più di tutto, serve amore.
Quello che manca a questi ragazzi, poco più che bambini, non sono le cose, i cellulari, gli abiti costosi, gli accessori di grido, i paradisi artificiali ed il mito del successo e del facile arricchimento.
A loro così fragili, teneri e violenti insieme, talora brutti, sporchi e cattivi ed in realtà bellissimi, va assicurato prima di ogni altra cosa affetto, calore, dolcezza, attenzione, cure, solo così possono crescere sicuri e fiduciosi in sé stessi e nei loro simili, e non perdersi lungo il tragitto verso l’età adulta e responsabile.
Tutto quanto è ben chiaro, e l’esperienza quotidiana glielo ribadisce puntualmente, alla protagonista, Elisabetta Maiorano, insegnante di matematica presso la struttura per i minori reclusi di Nisida, un insegnante vecchio stampo, di quelli che credono nel loro ruolo e nella loro indispensabile funzione educativa, la “maè”, la maestra, come appellata dai ragazzi, perché davvero la donna almeno ci prova ad essere maestra di vita prima di fornire strumenti di calcolo, e gli alunni lo sentono.
La donna, ancora giovane anche se avanti negli anni, ogni giorno lascia fuori dalle sbarre, in un apposito armadietto nello spogliatoio, tutto quanto non ammesso nel carcere, cellulare ed effetti personali, prima di iniziare la sua giornata lavorativa.
È un gesto simbolico, da intendere come lasciare fuori tutti gli orpelli della propria esistenza, il dolore atroce di essere inaspettatamente vedova da poco, per esempio, oppure l’amarezza di non aver avuto figli propri, o ancora la tristezza, provata insieme all’amato marito, di non aver completato positivamente un iter di adozione, e logica conseguenza a tutto questo l’afflizione e l’angoscia del vuoto e della solitudine che la opprimono.
Elisabetta Maiorano riempie la propria esistenza dedicandosi ai suoi “ragazzi”, stando bene attenta, come tutti gli adulti che lavorano nella struttura, a non affezionarsi, a non legarsi oltre l’umana possibilità, perché appunto, prima o poi, gli eventuali rapporti di empatia instauratosi, per quanto realizzati a fatica, sono destinati a terminare, Nisida è una tappa temporanea, più o meno breve, nel percorso di vita degli ospiti.
Solo che l’esterno non offre spesso, se non mai, alternative valide, latitano la famiglia e le istituzioni preposte, è quel tipo di società stessa, per come è concepita, che inevitabilmente deteriora il giovane, e se pure ne ha le migliori intenzioni, lo distoglie da un cammino diverso, lo indirizza su un percorso negativo. Cominciando dalla famiglia stessa, dai padri con i figli:
“…capisco che si possa odiare un figlio al punto di ucciderlo, non capisco come lo si possa stuprare.”
È quanto è successo ad Almarina, un sedicenne romena, poco più che una bambina, uno scricciolo di donna, distrutta nell’anima e nei sogni, si vede anche da come compita a fatica il foglio con le operazioni aritmetiche indicate dalla professoressa Maiorano:
“…Dentro il foglio c’è dunque questo uomo che la violenta e poi le rompe le costole, suo padre. E un fratello che aveva sei anni quando lei l’ha portato con sé in Italia…Il viaggio l’ha pagato sul camion stesso, a tutti, ogni volta che hanno voluto.”
E le madri? Questo non è un romanzo al femminile, per cui:
“Le madri non sono da meno, mi stia a sentire. L’altro giorno al colloquio una madre ha detto a suo figlio che se avesse tradito la famiglia lo disconosceva, glielo ha detto a segni, ma ora ormai i segni li capiamo.”
Anche Valeria Parrella conosce la lingua dei segni, e con i segni sa esprimersi; questo è un libro segnato, più che scritto, ed espone chiaramente cosa non bisognerebbe mai fare con i giovani reclusi: non metteteli alle strette.
Questa la realtà di Almarina, è messa alle strette malgrado l’orrore da cui è sfuggita e per cui pare quasi l’abbiano voluta punire, rinchiudendola a Nisida prendendo a pretesto il suo aver rubato un cellulare.
Nelle moltiplicazioni, cambiando l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia. Almarina però non è brava nelle moltiplicazioni, lo è invece nelle addizioni.
Elisabetta Maiorano, che i numeri li conosce, li insegna e li ha sempre amati, compie allora un gesto rivoluzionario, che non dovrebbe fare in quel contesto, dove serve imparzialità e distacco: si affeziona ad Almarina, se ne prende cura, la prende con sé.
Perché ambedue, la donna e la bambina, sono sole, e vuote, e moltiplicandosi tra loro, il prodotto non cambia, si ottiene l’identica solitudine, lo zero, l’unico numero che moltiplicandosi con il suo doppio resta identico a sé stesso.
Nell’addizione però non funziona così, la somma è un risultato diverso dai membri dell’operazione, da Elisabetta e Almarina insieme può nascere per esempio la ricerca del fratellino di Almarina, sarebbe a dire il concretizzarsi di una speranza di altra vita, l’aggrapparsi ad uno scoglio nel mare.
Più di uno scoglio, un’isola minuscola di roccia vulcanica, stabile e sicura. Come Nisida.

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Valeria Parrella...e conosce Napoli.
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Almarina 2019-10-11 19:44:11 Antonella76
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Antonella76 Opinione inserita da Antonella76    11 Ottobre, 2019
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Dove sono venuti è il motivo per cui stanno qui



Ci sono libri che non hanno bisogno di tante parole per arrivare a destinazione, che racchiudono in poche pagine così tanti pensieri e sentimenti da assumere un peso specifico altissimo, a dispetto di quello fisico.
"Almarina" ti prende e ti colloca in mezzo tra il dentro e il fuori, dentro le mura di un carcere minorile e fuori, nelle strade in cui questi ragazzi non sono riusciti a ritagliarsi un pezzetto di mondo degno di essere chiamato vita.

Rimani in sospeso tra la voglia di guardare dentro e accogliere gli sguardi di questi ragazzi così soli, diffidenti, così abituati al disprezzo perché da sempre disprezzati, e la voglia di prendere le distanze dai loro occhi, perché già sai che li perderai, che un giorno "torneranno da dove sono venuti, e dove sono venuti è il motivo per cui stanno qui".
Questo è ciò che pensa e vive quotidianamente Elisabetta, insegnante di matematica nel carcere minorile di Nisida.
A Elisabetta Maiorano non interessa il motivo per cui quei minori si trovano lì dentro, non è importante  ciò che hanno fatto, ma quello che ancora possono fare.
La possibilità.
Lei ama questi ragazzi cosi tanto abituati alla reclusione e cosi poco abituati "a fidarsi" degli adulti, accetta di avere ogni giorno una classe diversa, è consapevole di non poter mai finire un programma che in realtà non esiste, ogni giorno fa i conti con queste separazioni apparentemente indolori, ma fattivamente laceranti...fino al giorno in cui incontra gli occhi di Almarina, ragazza rumena dal passato difficile, un passato fatto di violenza, stupro, di un viaggio attraverso i Balcani che le è costato tantissimo in termini di vita.

Le loro rispettive solitudini si riconoscono.
Elisabetta vede negli occhi di questa ragazza la luce di un possibile futuro, lo specchio di una parte di se stessa e l'incarnazione del figlio che non ha potuto avere, né partorendo, né adottando.
Sente più che mai l'esigenza di una giustizia che non sempre trova riscontro nelle aule dei tribunali, ed è pronta a lottare affinché la sua voglia di dare e il bisogno di Almarina di ricevere possano coesistere in una sola parola: amore.

Valeria Parrella ci dona, romanzandola, la sua esperienza di insegnante nel penitenziario di Nisida, e lo fa con il suo modo unico di scrivere, così denso, intimo, poetico ed incisivo, tanto che ad ogni frase sei costretto a fermarti, a dare corpo alle parole e a portarne il peso sul cuore.

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Almarina 2019-04-30 14:09:11 Mian88
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Mian88 Opinione inserita da Mian88    30 Aprile, 2019
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Elisabetta, Almarina e Nisida

«Napoli è una città che ci sa fare con la morte, le dà il giusto peso, che è quello della vita: cioè, preso individualmente, poco più di nulla. Così, dopo una mezz’ora dal decesso (parlavano in questo modo i medici ma di chi?), Antonio era nella morgue e io scendevo le scale che, volessi o non volessi, mi stavano facendo svoltare vita»

Il suo nome è Elisabetta Maiorano è nata a Napoli nel Novecento, è una cinquantenne vedova del marito Antonio ed è insegnante di matematica a Nisida un carcere minorile dove la parola d’ordine è andare e venire, un luogo, ancora, in cui la vecchia vita finisce per lasciar posto ad altro, sia che si guardi ciò con la prospettiva del detenuto che con quella del visitatore che per una ragione o l’altra vi fa ingresso.
Due sono le protagoniste che si fanno da specchio l’un l’altra: la prima è questa docente che vive in un dolore mai completamente elaborato, l’altra è una ragazza diciassettenne di nome Almarina Luchian condannata per furto (il minore dei reati commessi e per questo salvata da un passato fatto di violenze e soprusi, di padri padroni approfittatori e maligni), che in quel futuro vuol crederci.
Inaspettata è la nascita di quell’amore che le lega e altrettanto inarrestabile ne è la forza. Quello che ha inizio è un viaggio variegato fatto di ricordi e non ricordi ma soprattutto di speranza. È l’inizio di una crescita e di una maturazione interiore che si sviluppa nel luogo di solitudine, paura e condanna per eccellenza; il carcere. Perché se l’insegnante ha vissuto negli ultimi tre lustri vincolata alla memoria di un uomo venuto a mancare e in un profondo sentimento di colpa che la rende vittima di pregiudizio, diffidenza e scherno, dall’altro vi è una giovane donna che ha ancora, nonostante tutto e tutti, prospettive. È tramite lo sguardo di quest’ultima che la prima inizia a cambiare e a guardare il mondo dentro, e l’altrettanto mondo nefasto fuori Nisida, con uno sguardo diverso. È tramite questo rapporto insegnante-detenuta, madre-figlia mai avuta, che entrambe maturano a vicenda, vincendo, in particolare Elisabetta, quei fantasmi che dalla morte del coniuge la accompagnano.
Il risultato è una storia forte, di rinascita, con grande contenuto e morale e avvalorata da una scrittura ricca ed elaborata. Tuttavia, talvolta nello scorrimento il carattere intimista è eccessivo, circostanza che tende a rendere più farraginosa la lettura, a ridurre ai minimi termini quello che sarebbe e potrebbe essere l’approfondimento dell’universo carcerario e a far perdere di interesse e di coinvolgimento al conoscitore che si sente sfiancato da questo continuo percorso interiore.

«I ricordi restano sempre dove li abbiamo lasciati: noi ci alziamo, andiamo, richiamati a tavola dalle madri, e i ricordi restano sugli scalini»

«Il mio professore di geometria, del resto, diceva sempre che devi puntare il compasso da qualche parte, per capire quanto ampio puoi disegnare il cerchio, e Almarina sta lì, giusto al centro.»

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Almarina 2019-04-11 19:19:56 68
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68 Opinione inserita da 68    11 Aprile, 2019
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prigionia e libertà

Nisida è un carcere minorile, un lembo di terra in mezzo al mare che a destra finisce nel Vesuvio ed a sinistra dentro l’ acciaieria, è la fine di una vita, l’ inizio di altro, sta semplicemente li’ fuori, attraccata.
In quel luogo .. “ noi ” andiamo e veniamo, “ loro “ vanno e vengono...
Elisabetta Maiorano ha cinquant’ anni, è una supplente che ha percorso l’ Italia, una vedova che continua a vivere il proprio dolore, Almarina una giovane detenuta rumena priva di qualsiasi ricordo ma con la luce del futuro negli occhi.
In un luogo che sottrae libertà si può essere ancora se’ stessi se prevale la forza di un amore, se sei accettato, se il passato ha smesso di tormentarti, se c’è un presente diverso ed un futuro racchiuso nella speranza.
Quando si entra in carcere si respirano paura e solitudine e la fine di un mondo fanciullesco che questi ragazzi non hanno mai avuto.
Elisabetta è entrata a Nisida in punta di piedi, senza un’ idea precisa, inseguita per tre lunghi anni dal fantasma del marito Antonio. In lei paura e pregiudizio, distinguendo un dentro ed un fuori, avvolta da sguardi di indifferenza, diffidenza, fino all’incontro con Almarina, per caso, guardando il mare. Nel suo volto la promessa del futuro, una vita al di fuori di quella, nonostante le porte di un carcere stronchino sogni e desideri ed inducano le persone a non fidarsi.
Elisabetta parla di se’, di come si faccia forza per non crepare ed entri ed esca da quella prigione per ritrovarsi all’ esterno in un mondo altrettanto aberrante.
Li’ ha inizio il cambiamento, impossibile da rilevare se non quando si sta compiendo e ti scorre dentro con un nuovo senso confidenziale, i ricordi altrui divenuti propri, un se’, una lei, un noi.
Ed allora, un giorno il fantasma di Antonio comincerà a defilarsi, ad entrare in una zona più profonda di lei ed Elisabetta si sentirà sola ma non abbandonata, avvolta da una dolcezza significante.
In quel giorno nessun confine, ne’ un carcere, Nisida sarà scomparsa e non resterà che andare incontro al futuro.
Un romanzo breve, intimo, poetico, che vive di forti emozioni interiorizzate, in cui i fatti esprimono i sentimenti ed i sentimenti fuoriescono dalla durezza dei fatti. Tra le pagine una acuta e struggente analisi di se’, degli altri, di tutte quelle forze che costruiscono un amore e la forza resiliente di speranza e desiderio.
Per contro si denuncia un mondo esterno abulico e violento, l’ inevitabile carcere per vite da sempre private di speranza, un senso di impotenza e dolorosa presenza, l’ insostenibile ed insopportabile burocrazia che sfinisce e depone qualsiasi atto di amore, si critica ogni pregiudizio con la consapevolezza di un senso di uguaglianza fallace.
C’è chi, tra le pagine, riconoscerà un intimismo all’ eccesso, una trama non proprio godibile e funzionale, periodi esponenzialmente tronchi, di certo l’ autrice possiede ed esprime un se’ definente manifestatosi in una attenta e centellinata ricerca e cura del senso delle parole che divengono altro, tracce di pura poesia, espressione primaria del respiro narrante.

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