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Venuto al mondo
 
Venuto al mondo 2022-02-11 17:06:29 enricocaramuscio
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enricocaramuscio Opinione inserita da enricocaramuscio    11 Febbraio, 2022
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Ritorno a Sarajevo

È mattina presto, una mattina estiva del 2008. Roma dorme ancora. Dorme Giuliano, a torso nudo come sempre, con quel grugnito da bestia placida che è solito cavare fuori dalla bocca. Dorme Pietro, con i piedi fuori dal lenzuolo, in quel letto diventato ormai troppo piccolo, ai cui piedi giace la sua chitarra. Dorme la città, dormono la sua festa ed il suo pantano, dorme anche il Papa. Gemma invece è già sveglia quando arriva la telefonata da Sarajevo. È il suo amico Gojko, il poeta, la guida turistica, l'importatore di improbabili gadget occidentali da piazzare ai suoi connazionali. Gojko il guerriero, Gojko il cupido. Ci sarà una mostra a Sarajevo, per ricordare i lunghi e sanguinosi giorni dell'assedio, verranno esposte anche le fotografie di Diego. Gemma non può mancare, dopo sedici anni in cui è stata lontana dalla città che le ha cambiato per sempre la vita, che le ha dato l'amore per poi rubarglielo, che le ha fatto conoscere la morte e le ha regalato la vita, dove ha stretto amicizie e legami più forti di quelli che è mai riuscita a coltivare in patria. Non può mancare, così come non può esimersi dal portare con sé Pietro. Pazienza se dovrà lottare per convincerlo, se dovrà faticare a sconfiggere i pregiudizi verso quella che il ragazzo chiama ancora "Jugoslavia". Deve imbarcarsi anche lui, neanche lui può tirarsi indietro davanti a questa sorta di viaggio della speranza. "Speranza, penso a questa parola che nel buio prende forma. Ha la faccia di una donna un po' sgomenta, di quelle che trascinano la loro sconfitta eppure continuano ad arrabattarsi con dignità. La mia faccia, forse, quella di una ragazza invecchiata, ferma nel tempo, per fedeltà, per timore." Giuliano no, lui resta a casa, Sarajevo non gli appartiene, non perlomeno nel modo in cui appartiene a Gemma e Pietro. Perché Giuliano è arrivato dopo, è arrivato a salvare una madre impacciata, miracolosamente scampata all'assedio, e il piccolo fagotto che si è portata dietro. O come lui preferisce raccontarla, a farsi salvare da loro. Perché prima c'era l'altro, il ragazzo di Genova, il fotografo delle pozzanghere, l'ex ultrà del Grifone, il chitarrista eroinomane, il magro, stralunato, innamorato Diego. Quel Diego che Gemma ha conosciuto proprio nella capitale bosniaca, con cui ha fatto l'amore per la prima volta nel letto della mamma di Gojko, con cui è ripartita per l'Italia rispedendolo nella sua Genova per tornarsene a Roma con l'idea di non rivederlo più. Quel Diego che invece non uscirà più da lei, che la sposerà, che lotterà insieme a lei contro il destino, contro la genetica, contro ogni morale e ogni tipo di burocrazia per regalarle Pietro. E Allora comincia questo viaggio tra madre e figlio, un viaggio fatto di continui flashback che vanno a spezzare il presente. Un presente in cui il ragazzo parte svogliato, costretto, privo di aspettative, pronto a snobbare la terra che lo ha visto nascere, a suo dire, solo per caso, solo perché suo padre era impegnato a Sarajevo come reporter di guerra e sua madre era voluta restare lì al suo fianco. Ma più passano i giorni, più Pietro è contento di essere lì, più resta su quella terra, più conosce la storia di quel popolo barbaramente trucidato, di quella patria violentata, umiliata, bagnata con il sangue dei suoi figli, più gli è difficile l'idea di staccarsene. Perché il legame con le proprie radici lo si sente sulla pelle, nelle ossa, nel sangue, e Pietro a Sarajevo non ci è nato davvero per caso. Ma per conoscere la verità dobbiamo affrontare assieme ai protagonisti questo viaggio, tuffarci e rituffarci in questo continuo sali e scendi temporale, guidati dall'abile penna di Margaret Mazzantini, dalla sua fine capacità di raccontare i sentimenti umani, dalla sua sensibilità, dalla dovizia di particolari che caratterizza la sua prosa. Al centro del racconto ci sono la guerra e l'amore, concetti diametralmente opposti che in queste pagine convivono in uno straziante conflitto, arrivando in alcuni casi a toccarsi, sovrapporsi, confondersi. L'amore è la base, il punto di partenza e insieme di arrivo, il motore capace di dare la forza per vivere. Ma, come i protagonisti sanno bene, l'amore spesso è guerra, è contrasto, è lotta, con gli altri, con noi stessi, con una vita incapace di darci quello di cui abbiamo bisogno. "Guardai il mare, e immaginai di prendere Diego per mano e di fare un salto, laggiù, oltre la schiuma. Chissà se sotto tutto quel mare avremmo ritrovato un'altra vita. Pesci, pensai, non siamo altro che pesci... branchie che si gonfiano e si chiudono... poi viene un gabbiano che dall'alto ci prende e mentre ci smembra ci fa volare, forse questo è l'amore." La guerra è il contorno, è l'ambientazione, un'indesiderata compagna di viaggio che distrugge città, case, speranze, vite, che violenta donne, che sevizia bambini, che calpesta ogni diritto, ogni dignità. È quella guerra che Gemma e Diego hanno voluto vivere da vicino, volontariamente, sentendone i sibili, gli scoppi, vedendone il sangue, l'orrore, subendone la fame, la paura. La stessa davanti alla quale troppo spesso ci giriamo dall'altra parte, per non sporcare le nostre coscienze immacolate, tanto "che si ammazzino tra di loro", come ha fatto l'Occidente nel caso dei Balcani. "Ora avrei la cura per i potenti del mondo, per gli uomini in giacca e cravatta intorno al tavolo della finta pace. Bisognerebbe posare il bambino blu su quel tavolo. Dovrebbero restare chiusi in quella stanza, senza potersi muovere. Restare. Vedere la morte che fa il suo lavoro metodico, che se lo mangia da dentro. Distribuire panini, sigarette, acqua minerale e lasciarli lì, mentre il bambino si svuota, si decompone fino alle ossa. Per giorni. Per tutti i giorni che ci vogliono. Questo esattamente farei." Pagine toccanti, personaggi con cui è impossibile non entrare in empatia, temi importanti, fanno di questo libro un'opera molto coinvolgente, delicata, ricca di colpi di scena e spunti di riflessione sulla precarietà della condizione umana, la subdola ineluttabilità della morte e la troppo spesso atroce inesplicabilità della vita. "Spegni tutto, cosa cazzo aspetti, Dio? Togli il sole, buttaci addosso dal cielo un pianeta nero come il cuore dei bracconieri in cravatta. Oscura tutto una volta per sempre. Cancella anche il bene, perché il male vive nelle sue tasche. In questo istante. In questo. Perché in questo istante un bambino sta per essere raggiunto. Salva l'ultimo. Spegni tutto, Dio. E non avere pietà, non abbiamo diritto a nessun testimone."

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Ciao Enrico. Vedo che hai molto apprezzato questo libro. Io non ho mai letto la nota autrice : è che le sue storie non mi attraggono. Si tratta di una questione soggettiva. Con questo non intendo assolutamente sminuirne pa portata; anzi, a quanto leggo nella tua recensione, mi pare se la cavi piuttosto bene nello strutturare un romanzo.
Ciao Emilio. Avevo conosciuto Margaret Mazzantini grazie a "Non ti muovere" e ne avevo già apprezzato la capacità di trasmettere i sentimenti. Questo libro, ancora più bello e toccante dell'altro, mi ha dato la conferma della qualità dell'autrice.
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