Spatriati
Letteratura italiana
Editore
Recensione della Redazione QLibri
Gli irregolari, gli interrotti, i dispersi...
Mi piace Desiati, mi piace il suo modo di parlare della mia generazione (i quarantenni di oggi), il suo modo di raccontare la mia terra con i suoi odori, colori, tradizioni, modo di pensare, di "mettersi", il suo sguardo aperto verso il mondo, ma sempre, in qualche modo, ancorato alle origini, la dolcezza e la ruvidezza che si incontrano e si scontrano nella sua scrittura dando forma alla reale consistenza della vita.
Un libro di partenze, di ritorni, di amore e sesso vissuti senza il peso del giudizio, di ricerca interiore e liberazione dalle catene mentali.
Spatriati, ovvero "spatrièt?" in dialetto martinese (Martina Franca, paese di origine dell'autore), non sono semplicemente coloro che sono senza patria, che sono andati via, ma sono gli interrotti, gli irrisolti, i disorientati, i dispersi... in un senso più ampio e metaforico.
Possono essere anche i ritornati, quelli che hanno provato a cercare se stessi altrove e non ce l'hanno fatta, e continuano a vivere con una valigia sempre pronta.
È un concetto legato ad un modo di pensare che ti vuole "sistemato" in un luogo fisico e mentale ben incasellato, in un genere ben preciso, in relazioni stabili, con lavori facilmente definibili, e che fatica a comprendere la complessità del sentirsi fuoriposto in ogni luogo, perché ancora alla ricerca della propria identità, dei propri desideri più reconditi.
Ci sono persone affamate di vita, che sentono il bisogno di ampliare i propri confini, di spingersi oltre il limite per poter conoscere e accettare i propri, che hanno necessità di prendere le distanze dalle proprie origini per trovarsi davvero, scevri dall'influenza della famiglia e del "pensiero comune"...
Persone dalla consistenza più fluida che, molto spesso, nello squilibrio, riescono a trovare nuovi equilibri, nuove forme, e non tornano più.
E poi ci sono quelli che non ce la fanno, che sentono forte l'appartenenza, che provano ad allontanarsi, a sperimentare, magari trovando anche una dimensione più grande capace di contenere tutte le sfumature del loro essere e sentire, ma poi immancabilmente ritornano.
Ed ecco che Francesco Veleno (sí, un nome che ritorna da "Il paese delle spose infelici" ? e dalle pagine de "Il libro dell'amore proibito", promosso da soprannome a cognome) e Claudia danno voce a questa generazione che cerca il proprio spazio, la propria identità sociale e sessuale, dando vita ad una relazione che non è amore, non è amicizia, non è sesso, ma è tutto questo e molto altro.
Nessuna etichetta, neanche nei sentimenti.
Lei è proiettata verso la scoperta, ha bisogno di aria, di spazio, di libertà... libertà che troverà prima a Londra, poi a Milano, infine a Berlino.
Lui ha bisogno di lei, invece.
Quindi partirà anche lui, la seguirà, e troverà lì, nella capitale della trasgressione, il coraggio di essere veramente se stesso, senza censure, senza tabù... ma poi tornerà a Martina Franca, spatriato, solo, senza famiglia, ramingo in casa propria.
A casa, ma comunque sradicato.
Alla fine, qui al sud siamo tutti un po' spatriati, quelli che vanno via e anche quelli che restano.
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Opinioni inserite: 1
Chi sono davvero gli spatriati?
I premi letterari sono una chicca per i lettori, da sempre. Sono un modo per scoprire nuovi scritti, sono un modo per riuscire anche a conoscere nuovi volti del panorama letterario da poi, magari, riscoprire ancora una volta anni dopo quali autori, perché no, pluri-affermati con successi e successi alle spalle. Tuttavia, negli ultimi anni, sono proprio i premi letterari ad aver perso maggiormente di forma, forza e intensità. Come se la stessa lingua italiana si fosse adattata e piegata a un nuovo uso e una nuova conoscenza del pubblico medio, più consuetudinario e meno formale, meno erudito e meno incline alla scelta del testo complesso prediligendo quello più “preconfezionato”.
Piccola ma doverosa premessa che ci porta a “Spatriati” di Mario Desiati, opera interessante per gli intenti, parzialmente riuscita nella trama e nel contenuto, formalmente dubitante di se stessa.
Già in “Candore”, classe 2016, ad essere oggetto di trattazione erano stati i corpi, la loro scoperta, la loro riaffermazione. Corpi mixati a pensieri e parole, a uomini che hanno varcato la soglia delle fatidiche quaranta candeline, corpi che si immaginano sposati e consci delle loro responsabilità ma che si dimostrano l’esatto opposto. In Spatriati a incontrarsi sono Claudia e Francesco, a scuola. Lei che si veste da uomo con cravatte e abiti dissonanti con l’epoca attuale, lui con i suoi perché, il suo essere ramengo.
È bene premettere che siamo innanzi a un romanzo volontariamente e chiaramente di autofiction che, per molti aspetti, ricorda la Durastanti con la sua “La straniera”. Ecco, dunque, che la scena si apre con i genitori dei due giovani e il sospetto di una presunta relazione coniugale in cui si ipotizza che il padre di Claudia sia l’amante del padre di Francesco. Nasce dal pettegolezzo il loro legame. Per lei che già si è spostata nel milanese è diverso vivere rispetto a lui e alla realtà di Martina Franca, governata dalla maldicenza
«Di forza per reagire non ne avevo, non rispondevo, ma mi alzavo e me ne andavo, sperando di trasmettere almeno un po’ del fastidio che Claudia avrebbe provato a sentire quei discorsi.»
È possibile uscire da quel piccolo Mondo? Berlino può essere davvero una via d’uscita? Quale strada scegliere? Essere tra coloro che restano e pagano le bollette perché mai si farebbero mantenere da amici e conoscenti berlinesi o scappare, essere tra chi vive dell’avventura, ma solo per raccontarne a chi resta? Chi sono davvero gli spatriati? Sono i senza casa, i senza radici, i disorientati, i ramenghi, sono coloro che se ne vanno davvero o sono coloro che si avvicendano per l’Europa o nel mondo da qualche amico ma per poi tornare, inevitabilmente a casa? Un po’ come quel leitmotiv mencherealliano che ci ricorda il sempre tornare, perché costoro tornano sempre. Non siamo, forse, alla fine un po’ tutti spatriati? Sia chi parte che chi resta?
Tante le premesse, tante le idee, tanti i punti da voler affrontare in un testo che però solo parzialmente arriva. Sia perché a prevalere è un po’ troppo l’autofiction, sia perché a governare queste pagine sono personaggi che arrivano solo in parte, che non coinvolgono pienamente, che sono caratterizzati da un non riuscire a trattenere. A ciò si aggiunge lo stile troppo costruito, poco naturale, artefatto. Un libro che si prefigge di raggiungere i più ma che nel concreto non riesce a lasciare molto e che per questo rischia anche di far dubitare dei premi letterari.
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