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Giuseppe e i suoi fratelli. Il giovane Giuseppe
 
Giuseppe e i suoi fratelli. Il giovane Giuseppe 2023-07-04 12:46:07 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    04 Luglio, 2023
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TRA LEGGENDA E PROFEZIA

“Il cielo e la terra pullulano di allusioni e presagi che si producono senza sosta.”

Confesso di essere sempre rimasto affascinato dall’idea che, in un periodo di crescente antisemitismo, culminato in Germania nell’avvento del nazismo e nelle ben note persecuzioni contro gli ebrei, uno scrittore come Thomas Mann, appena insignito del premio Nobel per la letteratura e apparentemente molto lontano, per origini e per cultura, dal mondo ebraico, abbia voluto cimentarsi con un’opera clamorosamente anacronistica, che indaga, attraverso il suo personaggio principale, le origini, affondate in un passato lontanissimo e leggendario, del popolo di Israele. Questa tetralogia, che occupò lo scrittore tedesco per una dozzina d’anni e che, iniziata in Germania e proseguita nel suo esilio svizzero, terminò solamente durante la sua permanenza negli Stati Uniti, è un’opera immensa, “settantamila righe che – secondo le parole del suo autore – scorrono placidamente rievocando eventi remotissimi della vita umana, amore e odio, benedizione e maledizione, dissidi tra fratelli e sofferenze paterne, superbia e penitenza, caduta ed elevazione, un canto venato d’umorismo che celebra l’umanità”. La Bibbia, o meglio la seconda sezione della Genesi, quella dedicata ai Patriarchi, è il riferimento ovvio e naturale di “Giuseppe e i suoi fratelli”, ma, come si può vedere soprattutto nel suo secondo tomo, quello di cui qui si parla, ossia “Il giovane Giuseppe”, essa costituisce un semplice punto di partenza, un mero canovaccio, un soggetto sulle cui esili fondamenta Mann costruisce un edificio letterario sorprendentemente originale. Un solo capitolo della Genesi, il 37 (che lo stesso Goethe definiva troppo breve), diventa così un testo complesso e articolato, in cui lo scrittore tedesco dimostra una ineguagliabile capacità di infondere eleganza poetica, ricchezza psicologica e vividezza di colori ai pochi versi, francamente anodini e oltremodo logorati da una millenaria tradizione, dell’Antico Testamento. Si narra che la correttrice di bozze che lesse per prima “Giuseppe e i suoi fratelli” si complimentò con lo scrittore perché “ora finalmente sappiamo come andarono veramente le cose”: affermazione paradossale per una vicenda che, ovviamente, non è mai accaduta, ma che viene da Mann scrostata da tutta la polvere depositatavi sopra dal tempo e rivestita di una sensibilità affatto moderna. I personaggi biblici vengono ad esempio descritti in maniera assai poco convenzionale: Giacobbe, come già visto nel libro precedente, è un uomo che si preoccupa solo delle proprie meditazioni spirituali e del proprio esclusivo rapporto con Dio, al punto da trascurare, giudicandole come una fastidiosa seccatura, tutte le questioni più quotidiane e prosaiche (dalla sorveglianza dei lavori agricoli sulle sue terre fino all’appianamento dei dissidi che avvelenano i rapporti dei suoi numerosi discendenti), al punto di non essere in grado, non solo di prevenire, ma anche solo di immaginare quali nefaste conseguenze sia destinata a provocare la sua manifesta predilezione per Giuseppe; e questi, a sua volta, è un giovinetto presuntuoso e viziato, talmente convinto della propria innata amabilità da risultare odioso persino per il lettore, il quale è portato, se non a parteggiare per i suoi invidiosi fratelli, sicuramente a concedere loro parecchie attenuanti e giustificazioni. Laddove nelle Sacre Scritture molti personaggi, come nel caso dei fratelli di Giuseppe, sono soltanto dei nomi, Mann conferisce loro una spiccata individualità, differenziandoli gli uni dagli altri per mezzo di attributi psicologici e caratteriali unici e distintivi. Quando si arriva così all’episodio clou del romanzo, quello in cui i fratelli aggrediscono Giuseppe, lo spogliano della preziosa tunica che il padre, in segno di benedizione, gli aveva regalato, e lo gettano in una cisterna vuota, la scena acquisisce da una parte una fisicità, una matericità inusitate (con i dieci fratelli che si gettano sopra allo sventurato Giuseppe come un branco di lupi affamati sulla preda, e Giuseppe che, quando finisce il pestaggio, ha il corpo coperto della loro bava, la polvere mescolata con il sangue, l’unico occhio ancora aperto che si chiude come per un istintivo riflesso di difesa contro nuove violenze), dall’altra dà modo di osservare le differenti reazioni dei fratelli, da Ruben che non ha il coraggio di opporsi alla violenza degli altri ma cerca senza darlo troppo a vedere di evitare l’irreparabile, di guadagnare tempo, di procrastinare il fratricidio, a Simeone e Levi, i gemelli sanguinari, che invece vorrebbero finire Giuseppe a colpi di bastone, “secondo il buon metodo di Caino”, fino a Giuda che si domanda quale vantaggio comporti ammazzare il fratello piuttosto che lasciarlo morire di fame e di sete dopo averlo calato ancora vivo in una fossa.
Un romanzo che inizia con squisite riflessioni sulla natura della bellezza finisce così per toccare vette di atroce bestialità (al punto che a un certo punto “caddero parole che non ripeteremo testualmente perché farebbero inorridire la sensibilità degli uomini d’oggi”), ma lo stile di Mann, nonostante ciò, rimane sempre apollineo e imperturbabilmente sublime. Non solo, si delinea qui una riflessione religiosa molto raffinata e moderna: i fratelli di Giuseppe si rivelano infatti meri strumenti del destino, un po’ come il Giuda dei Vangeli, eppure si illudono ingenuamente di poter vincere gli interdetti e le punizioni di Giacobbe e addirittura i disegni di Dio (le profezie insite nei sogni di Giuseppe, i quali preconizzano la sua supremazia familiare), mettendoli entrambi di fronte al fatto compiuto della morte del figlio di Rachele. E’ una religiosità ancora primitiva, in divenire, legata più alla forma esteriore del culto (i fratelli sono convinti, pur avendo fatto quello che hanno fatto, di essere uomini pii) che all’esercizio fattivo della virtù. Lo stesso Giacobbe, convinto che il figlio sia stato ucciso da una belva feroce, si lascia andare a una sorta di ribellione nei confronti di Dio, incapace com’è di accettare la realtà ineludibile del dolore. Egli, uomo profondamente religioso, non accetta la morte del figlio prediletto e si sente defraudato, ingannato, ritenendo che Dio abbia violato il patto con l’uomo. Regredendo a una concezione della religione arcaica, imbevuta di miti, Giacobbe vorrebbe scendere agli inferi per riportare Giuseppe nel mondo dei vivi, come nelle antiche leggende facevano le madri-spose, o addirittura sostituirsi alla divinità e ricreare il figlio con l’argilla, insufflandogli la vita nelle narici, proprio come nella favola del golem. Con ciò egli dimostra di essere ancora un uomo vecchio, al contrario di Giuseppe, il quale, con quella naturale “intelligenza di Dio” che lo contraddistingue, intuisce nei recessi più profondi del suo io che le sue vicissitudini devono far parte di un disegno divino che non comprende ma che è disposto, nonostante le sofferenze, ad assecondare. Se l’uomo evolve nel suo essere religioso (i contemporanei di Giuseppe vedono il sacrificio umano come un abominio, e la sua sostituzione rituale con il sangue di un agnello ne è la logica conseguenza, ma ricordiamo che ancora due generazioni prima, con Labano, l’uccisione del figlio primogenito per ingraziarsi la divinità era la norma), anche Dio fa lo stesso. C’è in Mann una curiosa concezione evoluzionistica di Dio: l’uomo ha bisogno di Dio, ma anche Dio ha bisogno dell’uomo, ha bisogno di venire da lui intuito, pensato e plasmato nei suoi concetti essenziali. E’ un Dio che procede con l’uomo, che cresce con lui e che solo nel Nuovo Testamento perderà del tutto i suoi connotati barbari e selvaggi. Di più, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Giuseppe è un dio che si è dovuto far largo tra una moltitudine di divinità concorrenti e che risente inevitabilmente delle loro influenze. “Giuseppe e i suoi fratelli” è un romanzo sospeso tra passato e futuro, tra leggenda e profezia. Si pensi a Giuseppe che giace per settantadue ore sul fondo della cisterna e viene poi riportato alla luce del sole, per così dire “resuscitato”, dalla carovana di mercanti ismaeliti che transitano casualmente in quei paraggi: l’episodio ricorda l’antico mito di Tammuz-Adonai, dilaniato da Ninib, sepolto e poi riemerso dal mondo degli inferi, a sua volta probabile elaborazione di altri miti che si perdono nella notte dei tempi; ma è anche la prefigurazione della morte di Cristo e della sua resurrezione dopo tre giorni. Mann da una parte attualizza, arricchendola di verità psicologica, la storia di Giuseppe, facendolo quasi diventare un nostro contemporaneo, dall’altra la fa rientrare nella dimensione a-temporale del mito. Non c’è qui una rappresentazione denigratoria o iconoclasta della religione, ma al contrario la constatazione del suo ruolo, fondamentalmente a-storico (in quanto presente in tutte le ere della storia), come spiegazione giocoforza leggendaria (perché non risolvibile razionalmente o scientificamente) di domande da sempre presenti nella mente e nel cuore degli uomini: chi siamo? da dove veniamo? cosa c’è dopo la morte? Mann sa bene che le storie dell’Antico Testamento non sono mai avvenute, che sono solo un mito che è servito a una comunità per fondare le proprie radici e proiettarsi nel futuro con la pretesa di essere un popolo eletto. Mann tutto questo lo sa, eppure racconta le vicissitudini di Giuseppe con la massima scrupolosità e verosimiglianza, attento ad ogni minimo dettaglio e richiamando anche il lettore a uno sforzo di immedesimazione (“A chi narra deve premere che l’ascoltatore si rappresenti al vivo la scena… Dobbiamo cercare in ogni modo che ciascuno si rappresenti nella viva realtà una condizione così dolorosa”). Così facendo Mann non solo rende verosimile una storia succinta e lacunosa, ma fa addirittura diventare vera una storia completamente inventata!

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Assai interessante, Giulio, la tua recensione.
Non ho letto il libro, pur essendo Mann tra gli autori preferiti.
Grazie Giulio, contribuisci ad acuire la fascinazione indotta da Mann, dev'essere una lettura superba!
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