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Noi marziani

Letteratura straniera

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Negli anni Novanta, i grandiosi progetti di colonizzazione interplanetaria sono stati dimenticati e Marte è ancora pressoché disabitato. Il lungo periodo di disinteresse ha favorito lo sviluppo di ogni sorta di traffici, dal contrabbando alla speculazione sulle aree che costeggiano la preistorica rete di canali, e la vita sul pianeta rosso è dura, come sempre è stata sulla Terra. L'avido Arnie Kott, il Membro Supremo del potente Sindacato degli Idraulici, è uno spietato affarista, determinato a sfruttare a proprio vantaggio ogni risorsa che il pianeta può ancora offrire. E chi potrebbe fermare il suo disegno?



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Noi marziani 2015-10-17 13:30:32 catcarlo
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catcarlo Opinione inserita da catcarlo    17 Ottobre, 2015
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I marziani siamo noi

Se l’opera di Dick non è il punto migliore per entrare in contatto con la fantascienza, questo romanzo non è l’ingresso giusto per affrontare il mondo dello scrittore statunitense. Il quale scriveva troppo – nel 1964 assieme a ‘Noi marziani’ uscirono altri tre suoi lavori – non riuscendo a volte a dare il giusto equilibrio alle sue storie: in queste pagine assistiamo a una lunga presentazione dei personaggi, con un paio di sterzate improvvise, lungo i primi due terzi di una vicenda che poi subisce una brusca accelerazione nei restanti capitoli. In compenso, i temi cari allo scrittore sono ben chiari, visto che tutta la vicenda è caratterizzata da una parte dal desiderio di mostrare che l’uomo continua a essere guidato da grettezza e avidità in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo e dall’altra dall’interesse per la mente, per il suo funzionamento e per le connesse patolgie. Questo interesse diventerà un’ossessione nel corso degli anni, ma già qui domina la narrazione con la schizofrenia vista anche come un modo per proteggersi o una via di fuga da un presente mediocre e claustrofobico a cui, volenti o nolenti, si finisce per adattarsi, come fanno Jack Bohlen e la moglie in un finale che si potrebbe vedere come un banale happy-end se non fosse per le considerazioni di ben altro segno che lo accompagnano. Il predetto Jack è uno dei protagonisti di un romanzo a molte voci: esperto riparatore ma con un passato da schizofrenico, viene di punto inbianco incaricato dal potente Arnie Kott di cercare di relazionarsi con un bambino autistico, Manfred, la cui mente potrebbe aver la capacità di viaggiare nel tempo favorendo gli affari di Kott medesimo. Il quale non si ferma davnti a nulla per accrescere potere e conto in banca, non facendosi di certo scrupolo nel manipolare regole e persone, si tratti di Jack, Manfred, la sua amante o l’intero sindacato di cui è a capo: in lui c’è parecchio del vecchio barone di frontiera e del resto Marte colonizzato parzialmente e con un popolo indigeno destinato all’estinzione ma depositario di una strana saggezza, lascia intravedere in filigrana una visione disillusa dell’Ovest americano. Insomma, come spesso accade in Dick, la patina futuristica è davvero sottile con pochi accenni a eventuali invenzioni (fanta)scientifiche – l’umanità colonizza il terzo pianeta e usa ancora i telefoni, magari col filo? – perché l’interesse dell’autore sta più all’interno dei personaggi che nell’ambiente che li circonda: una prospettiva interessante, anche se è comprensibile che non susciti entusiasmi, però non sviluppata come sarebbe stato necessario perché il romanzo risulti del tutto efficace. Visto pure il consueto periodare disadorno, è assai probabile che il libro sia apprezzato soprattutto dai vecchi tifosi: tutti gli altri potrebbero non trovarvi grandi soddisfazioni.

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Noi marziani 2013-07-27 14:56:18 Todaoda
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Todaoda Opinione inserita da Todaoda    27 Luglio, 2013
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Profondo ma...

Allucinato viaggio di denuncia nei (e dei) disturbi della mente umana quali diretta conseguenza dell'emarginazione sociale. La psicosi, la schizofrenia e perfino l'autismo nel libro di Dick vengono trattati alla stregua di un naturale decorso della separazione dell'individuo dalla normalità istituzionale. E' la società stessa del futuro, in cui vivono i protagonisti malati, che compie questo processo distintivo tra ciò che aprioristicamente viene definito normale e ciò che viene schedato come anormale; un processo, questo, crudele e discriminante ma indispensabile per garantire la funzionalità e con essa la sopravvivenza di quell'organismo collettivo e quasi vitale che si riunisce sotto la sigla dell'ONU. Onu o società globale alla ricerca essa stessa di un identità solida e al contempo di una via di fuga dove emarginare gli "anormali" così da contemplarli da debita distanza per non sentire il peso e la forza della loro autenticità. Contemplarli distaccatamente e in questo modo racchiuderli e ri-catalogarli nuovamente dentro le fila di un tessuto che comprende sì la diversità, ma esclusivamente come malattia epidemica da debellare.
Questa è la premessa, poi l'autore si addentra nei disturbi del singolo e pian piano ci fa conoscere la loro realtà e finalmente si compie la svolta: ma saranno loro gli anormali o è il resto della società? Di sicuro gli individui nella società sembrano più solidi, con valori più definiti, puri se si vuole… ma saranno ancora così umani nella loro pura perfezione? Dunque ben vengano gli psicotici, gli autistici e i malati poiché nella loro debolezza forse è la vera natura dell'uomo, nella loro allucinazione l'autentica realtà.
E' il singolo contro il complessivo e Marte non rappresenta la soluzione a questa dicotomia, anzi ne è l'estremizzazione: in condizioni estreme spesso si è portati all'estremo e così, lì, accade con pericolose spedizioni di conquista, il mercato nero per beni alimentari, le lobby spregiudicate per accaparrarsi la fornitura dei servizi di prima necessità, le istituzioni robotizzate insegnanti e disumanizzanti, le dittature sindacali ecc. ecc.
In una simile società l’individuo ha paura del contatto umano, si auto emargina nella propria solitudine facendosi addirittura scudo con le figure degli psicologi che Dick immagina come veri e propri sciacalli che, invece di guarire i disturbi dei malati, trovano molto più semplice e remunerativo farsi carico delle loro incombenze sostituendoli fisicamente ad ogni occasione.
È questo quello a cui andiamo incontro? È questo misero destino da auto-ghettizzati che ci riserva il futuro se non cambiamo il nostro modo di vivere? Il futuro della società umana è l’auto distruzione? Sono queste le domande che infondo si pone Philip K. Dick.
C’è una qualche soluzione per evitare tutto ciò? Per prevenire questo problema?
Sì, e la risposta è un bambino autistico, un essere debole, antiteticamente contrapposto all’ingombrante solidità di tutti gli altri. Un bambino piccolo che, solo, ha la precognizione, la visione del futuro, o forse nella sua immacolata ingenuità la conoscenza e l’esperienza per capire le conseguenze della corruzione di quel mondo. Come ogni moderno profeta di sventura però quel bambino non viene ascoltato, anzi viene classificato come malato, matto, indesiderato e per questo emarginato. Fino all’ultimo, fino a quando qualcuno comprende il suo potere, ma ancora una volta quel qualcuno non sfrutta la sua verità per salvare Marte, ma per fare i propri interessi riallineandosi perfettamente a quelli che sono i principi sociali, tanto che alla fine il bambino profeta compie l’atto estremo: si auto emargina volontariamente da tutto ciò che lo circonda ritrovando una nuova identità in un gruppo di individui separati, primitivi, per questo estranei a quella irrefrenabile corsa verso l’autodistruzione e per questo umanamente autentici.
E gli altri? Quelli che assistono a tutto ciò? Non possono farci nulla: pur facendone parte è un processo molto più grande di loro, pur avendo la consapevolezza di quel che gli riserva il futuro non hanno via di scampo e non ci tengono ad averla, continuano a vivere normalmente, trovandosi molto più a loro agio nel loro preconfezionato loculo globale.
Letto in questo modo poco importa dove sia temporalmente e geograficamente ambientato il romanzo. Nel futuro su Marte, ma per la linearità della trama poteva anche essere l’ ‘800 nel Far West, anzi per certi aspetti si capisce che l’autore ha risentito del filone narrativo – cinematografico in voga all’epoca: la conquista delle nuove terre, la società violenta, fino all’immancabile duello finale a colpi di rivoltella. In fondo è naturale che sia così: il Far West per la società dell’ '800 rappresentava una terra di conquista, l’ultima frontiera; per la società moderna l’ultima frontiera è lo spazio, Marte. Ma come si diceva poco importa, poiché tutto in realtà è una metafora di quelle che sono le preoccupazioni dell’uomo, di quelli che sono i problemi verso cui, secondo l’autore, stiamo andando incontro di nostra spontanea (e stupida) volontà.
Dunque un Philip K. Dick come sempre illuminato e quanto mai “piacevolmente” pessimistico e catastrofista?
No, inutile girarci attorno, questo romanzo per quanto affascinante è inferiore agli altri e il problema sta nello stile di Dick, nel suo metodo di scrittura, che qui più del solito è troppo asciutto, troppo conciso e piatto. Se per certe opere la concisione quasi schematica può essere un pregio (vedasi per esempio le recensioni… ehm!), quando si parla di romanzi è quasi sempre un difetto: il lettore non riesce a farsi prendere dalla trama, rimane freddo e distaccato e la storia stessa perde la sua potenza.
Ma e i contenuti, le metafore, la visione del mondo crepuscolare e disincantata?
Ci sono tutti, sono intuibili e piacevoli, ma ancora una volta, come la rotella allentata di un ingranaggio altrimenti perfetto rischia di compromettere l’intero macchinario, lo stile troppo distaccato dell’autore fa rimettere in discussione tutto quanto e fa riflettere sul fatto che quando si legge su questo piano un libro (o meglio quando lo si vuole leggere per forza su questo piano) al momento di commentarlo c’è sempre il rischio di mettere in bocca all’autore parole che in realtà non sono le sue, di interpretare e quindi riportare pensieri che magari non avevano minimamente sfiorato colui che ha scritto l’opera, e in questo modo ingigantirne i pregi e minimizzarne i difetti, cercare infine la profondità la dove in realtà non c’è ne più ne meno che un banale gioco di specchi.
Ma allora la società corrotta, il futuro segnato dagli sbagli dei contemporanei, il male dell’individuo come causa del malessere sociale e viceversa?
Vero, d’accordo, c’è tutto questo e anche altro, ma l’irreparabile distacco che si crea nel lettore per colpa della narrazione troppo affrettata è più potente, più forte, e per quanto la logica (o è il sentimento?) ci ricordi che stiamo parlando di una delle più fervide menti degli ultimi cinquant’anni, il dubbio di trovarsi al cospetto di una ben collaudata accozzaglia di fatti legati da uno stiracchiato nesso sociale, qui purtroppo rimane.
Peccato, veramente peccato.

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