La casa dei nomi La casa dei nomi

La casa dei nomi

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In questo splendido romanzo di Colm Tóibín il mito classico della regina assassina e del vendicatore matricida diventa così una tragedia di passioni e debolezze profondamente umane. Entra Clitennestra. «Ho dimestichezza con l'odore della morte», esordisce la regina di Micene, che quell'odore lo conosce bene. L'ha sentito sul corpo della figlia primogenita Ifigenia il giorno in cui il marito Agamennone l'ha sacrificata agli dèi per ottenerne il favore nella guerra imminente, dopo averla attirata all'accampamento con l'inganno. Moglie furiosa e madre straziata, Clitennestra prepara a lungo la sua vendetta e, al ritorno del re, si appresta a sentire di nuovo l'odore della morte, quella di Agamennone questa volta, fra le mura del loro palazzo e per sua stessa mano. Nella lingua precisa, essenziale ed elegante di cui ha dato prova in tutta la sua opera, Colm Tóibín fa rivivere le figure classiche della casata di Atreo e, intaccando la loro mitica intangibilità, le rende personaggi di carne e sangue, dotati di psicologia, motivazioni e tonalità. La Clitennestra di Tóibín è ancora la rancorosa regina del mito, ma è anche una donna alle prese con la gestione modernamente complessa del potere e con un amante, Egisto, su cui modulare desiderio e controllo. La sua Elettra è la figlia fedele che pretende la retribuzione del sangue, ma è anche la vittima di abbandono che cerca nelle ombre un sollievo dalla solitudine. Per tutti loro il processo di umanizzazione è reso particolarmente efficace dalla scomparsa di un orizzonte divino a cui ubbidire e delegare. Nel mondo della Casa dei nomi gli antichi dèi stanno svanendo e la loro legge vacilla. Non prega più Clitennestra, si chiude la porta che conduceva Elettra ad Agamennone. Non ad Apollo si deve il piano di vendetta attuato da Oreste, né alle Erinni la sua follia. Pensieri e progetti, speranze e disperazioni si avviano a essere unicamente mortali. A Oreste, che nella tragedia di Eschilo sparisce dalla scena bambino per farvi ritorno solo da adulto in veste di vendicatore matricida, Tóibín regala un'adolescenza, un'avventura, un amore e un dubbio.



Recensione della Redazione QLibri

 
La casa dei nomi 2018-06-25 16:22:45 annamariabalzano43
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annamariabalzano43 Opinione inserita da annamariabalzano43    25 Giugno, 2018
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La solitudine dell'uomo senza dei


“La casa dei nomi” di Colm Toibin ripropone in una prosa limpida e essenziale la storia tragica di Agamennone, Clitennestra, Ifigenia, Elettra e Oreste. In contrasto con un re, Agamennone, timoroso degli dei, sleale e infido al punto da ordire il più basso degli inganni ai danni della bellissima figlia Ifigenia, che offre come vittima sacrificale nel rito propiziatorio in occasione della guerra imminente, emerge la possente figura di Clitennestra, ferita nel suo orgoglio di moglie e di madre, che scatena la sua furia senza limiti, pronta a vendicarsi con ogni mezzo del tradimento patito. È la stessa regina a raccontare il mutamento del suo animo, a descrivere come da sposa fedele e orgogliosa si sia trasformata in donna vendicativa e violenta.
Accanto a Clitennestra le due figlie: Ifigenia, da un lato, fragile e forte al tempo stesso, consapevole dell’orrendo sacrificio di cui sarà vittima, ribelle eppure passiva, costituirà il motivo scatenante della vendetta della madre e Elettra, determinata e dotata delle qualità necessarie per esercitare il potere, pur soffrendo nella sua solitudine e nel suo isolamento.
Se dunque le donne di questo romanzo ereditano dalle eroine di Euripide, di Eschilo e di Sofocle la forza e la passione, esse tuttavia sono personaggi estremamente umani, lontani dalla logica schiacciante e riduttiva della fede divina alla quale soggiacere, Oreste, che rappresenta il futuro del regno, al contrario, presenta fragilità incolmabili, soprattutto se visto accanto ad Egisto, il classico uomo nuovo, senza scrupoli e senza reali legami affettivi. Non c’è dubbio che nel confronto con i classici greci, il romanzo di Toibin é più vicino alla realtà contemporanea, proprio per la semplicità della forma espressiva priva della solennità della rappresentazione teatrale. Il tema politico, predominante nella tragedia greca, è qui solo accennato. Ciò che conta è l’animo dei personaggi, le loro passioni, la loro lotta per la giustizia, in un mondo non più condizionato e dominato dal potere degli dei.

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La casa dei nomi 2023-11-30 11:14:21 kafka62
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kafka62 Opinione inserita da kafka62    30 Novembre, 2023
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NON E' PIU' IL TEMPO DEGLI DEI

“Ho dimestichezza con l’odore della morte.”

Colm Toibin è l’autore di alcune interessanti biografie romanzate (una per tutte, forse la più notevole, “The Master” su Henry James), l’ultima delle quali, “Il Mago”, mi piace ricordare in apertura di questa recensione perché Thomas Mann (il Mago, appunto, come veniva chiamato per scherzo dai figli) ha secondo me segretamente influenzato “La casa dei nomi”. Leggendo il romanzo di Toibin, ispirato alle ben note, mitiche vicende di Agamennone e Clitennestra, di Oreste ed Elettra, non ho potuto infatti non pensare alla tetralogia di “Giuseppe e i suoi fratelli”. A parte una chiara, anche se forse involontaria, citazione (Clitennestra viene seppellita per un giorno intero in una fossa per toglierla di torno durante il sacrificio della figlia Ifigenia, allo stesso modo in cui Giuseppe viene gettato dai fratelli in una cisterna abbandonata), analogo è il modo di prendere una storia antichissima, patrimonio indiscusso dell’immaginario collettivo, spogliarla della sua aura mitica, del suo afflato leggendario, e riscriverla con una sensibilità affatto moderna. Se già l’Orestea di Eschilo presentava di per sé indubbi elementi di modernità (basti pensare, nelle “Eumenidi”, al tribunale chiamato a giudicare l’atto contro natura di Oreste, il quale può essere considerato il primo processo della storia), Toibin vi aggiunge uno psicologismo che, mentre mette in primissimo piano le figure dei tre protagonisti principali, elimina definitivamente tutto il coté divino, così importante nelle tragedie di Eschilo, di Sofocle e di Euripide. Nelle “Coefore” di Eschilo, ad esempio, Oreste torna ad Argo per uccidere la madre ed Egisto su ordine di Apollo, mentre nelle “Eumenidi” è Atena ad assolverlo, respingendo le accuse delle Erinni. Ne “La casa dei nomi” invece l’epos è riportato a motivazioni esclusivamente umane e naturali, come la brama di potere, il desiderio di vendetta o la ragion di stato. Agamennone sacrifica sì la figlia primogenita per conciliarsi il favore degli dei, ma egli (un po’ come Labano, per tornare al paragone con “Giuseppe e i suoi fratelli”) è l’uomo vecchio, superato dai tempi e giustamente destinato a essere soppresso e dimenticato. La nuova mentalità è piuttosto l’ateismo ante litteram di Clitennestra, che non crede più nell’esistenza degli dei, o per meglio dire non crede nella loro influenza sui destini umani. “Gli dèi sono distanti, alle prese con altre cose. Si preoccupano dei desideri e delle buffonate umane come io mi preoccupo delle foglie di un albero. So che le foglie sono lí, che appassiscono, ricrescono e appassiscono, come le persone nascono, vivono e poi sono sostituite da altre come loro. Non posso fare niente per aiutarle o per impedire che appassiscano. I loro desideri non sono affar mio”. L’uomo moderno, in assenza di un dio a cui rivolgersi, è desolatamente solo e vive quella che Georges Bataille chiamava la “morte del sacro”, ossia l’angosciosa, “tremante consapevolezza che non è più tempo degli dei”. Fare affidamento agli dei è diventata una pura formalità, una mera convenzione esteriore. Se essi continuano ad essere invocati e pregati è solo per un’antica, inveterata abitudine, ma in fondo più nessuno crede veramente in loro, in quanto “le nostre suppliche agli dèi sono come le suppliche che una stella rivolge al cielo sopra di noi prima di cadere, un suono che non ci è dato sentire, un suono che, se pure lo sentissimo, ci lascerebbe del tutto indifferenti”.
La maledizione degli Atridi, quel “veleno nel sangue” che sembra condizionare l’esistenza dei personaggi de “La casa dei nomi è il punto di partenza canonico della storia, cui Toibin si guarda bene dal sottrarsi, ma poi il romanzo imbocca la strada di una tragedia elisabettiana, piena di congiure, cospirazioni, rivolte e lotte per il potere. Se lo scrittore irlandese mantiene tutto sommato intatta la cornice della storia, egli si prende tuttavia enormi libertà narrative, come si può vedere nel capitolo dedicato ad Oreste, di cui racconta l’adolescenza (da sempre trascurata dagli autori classici, come se fosse un misterioso buco nero lungo ben dieci anni) alla stregua di un coming of age dickensiano (con vaghi echi, mi è parso, anche di più recenti romanzi aventi come protagonisti delle figure di orfani, come la “Trilogia della città di K.” o “Il cardellino”). Ritornando ancora una volta all’esempio di partenza di “Giuseppe e i suoi fratelli”, è come se Toibin avesse voluto trasporre sulla pagina una propria versione, più verosimile e psicologicamente plausibile, della tragedia, spiegando – come diceva Mann – “come i fatti realmente si svolsero”. Così Egisto non viene ucciso da Oreste, ma è più prosaicamente risparmiato per poter sfruttare le sue conoscenze pregresse e le sue capacità di amministratore del regno, e Oreste stesso non impazzisce per il matricidio compiuto, ma viene tristemente relegato in una condizione di emarginazione e di solitudine, sposato a una donna che aspetta un figlio non suo. Una delle novità più considerevoli del romanzo è il continuo cambio di prospettiva, con i personaggi di Clitennestra, di Oreste e di Elettra che si alternano per raccontare la storia dal proprio punto di vista. Se nel caso di Oreste Toibin utilizza la terza persona, facendo prevalere un registro più aneddotico e narrativo, per Clitennestra ed Elettra egli sceglie la prima persona. Il tono si fa in questo caso più introspettivo, con un approfondimento psicologico dei personaggi che il flusso di coscienza rende estremamente interessante. L’autore ci consegna il sorprendente e affascinante ritratto di due donne che sono diventate, con il loro fatale antagonismo, un simbolo della moderna psicanalisi (il famoso complesso di Elettra), ma che alla fine si rivelano più simili che contrapposte: lo spiritualismo di Elettra (l’assidua frequentazione con i fantasmi del padre e della sorella) fa ben presto i conti con la ragion di stato e la donna che prima viveva nell’ombra, in “un rapporto intimo con il silenzio”, diventa una disinvolta e spregiudicata reggitrice del regno. Del resto le donne sono le autentiche protagoniste del romanzo, facendo dei lutti e delle ingiustizie patite il loro punto di forza (al prezzo però della inesorabile perdita della loro umanità), mentre gli uomini, di cui pure, a causa della struttura sociale che le penalizza, hanno bisogno per portare a termine i loro piani (così Egisto per Cassandra e Oreste per Elettra), gli uomini – dicevo – sono, nonostante il potere fallocratico che è nelle loro mani, poco più che fantocci, che si illudono di essere i motori della storia, mentre sono solo delle marionette in balia del destino.
La scrittura di Toibin è fluida, scorrevole, a tratti delicata e poetica, ma dietro le parole si nasconde una realtà sanguinosa e cruenta, con orrendi sacrifici umani, stragi raccapriccianti e bambini che vengono rapiti per intimidire e sottomettere le loro famiglie. E’ un mondo barbaro e violento, quello narrato da Toibin, che ha sullo sfondo un perenne stato di guerra. La guerra de “La casa dei nomi” non è quella di Omero, di Elena, di Menelao e di Achille, la quale tutt’al più è una favola da raccontarsi la sera intorno al focolare, ma è una guerra senza nome (“-Dove sono adesso? – chiede Oreste. – In guerra. – Quale guerra? – La guerra, disse lei – La guerra”), quasi uno stato ontologico dell’umanità, che lascia dietro di sé solo dolore e fatica, odio e povertà, carestia e disperazione, tutto il contrario di quello a cui l’epica antica, con l’orgoglio guerresco e l’eroismo elevato a massima virtù, ci aveva abituati. Qui c’è soltanto una volgarità di fondo, una mediocrità di valori e una falsità di intenzioni, che tutto svilisce e tutto riduce a macabra farsa. Resta, in fondo a tutto questo, una intensa nostalgia di amore, che il mondo non consente di esprimere e che solo nell’aldilà (come nel breve, bellissimo capitolo in cui Clitennestra parla in una sorta di bardo, in uno stadio cioè liminale tra vita e dissolvenza dell’io) è forse possibile sperimentare, al prezzo però della solitudine più agghiacciante e dell’oblio più profondo. Con questa lettura originale e seducente, Toibin firma un’opera più che dignitosa, capace di distinguersi per elevatezza di linguaggio e acutezza psicologica, e si pone a pieno titolo nel novero di quegli scrittori che, come Christa Wolf, Madeline Miller e Pat Barker, hanno riscritto negli ultimi decenni con sensibilità contemporanea i miti dell’antichità.

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La casa dei nomi 2018-06-26 20:34:04 Visitatore
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Visitatore Opinione inserita da    26 Giugno, 2018
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Eschilo, Sofocle e Euripide vengono rivisitati

Romanzo narrato a triplice voce, Clitennestra, Oreste e Elettra danno voce alla storia che Toibin racconta al ritorno di Agamennone dalla guerra di Troia, ogni personaggio ha uno stile narrativo personale, caratterizzato dalla perdonale essenza che l’autore ha voluto dagli: Clitennestra, maestosa e potente, racchiude in se il potere e la capacità di andare oltre alla semplice visione del mondo, la figura che più ho amato, poi Oreste che racconta con semplicità gli accadimenti e sviluppa la sua crescita nella luce, infine Elettra, più simile alla madre ne porta il peso facendo gli stessi identici errori senza potere vedere la visione d’insieme. Un romanzo bellissimo, potente dove la scrittura è un bisturi affilato che colpisce, questi registri narrativi che si differenziano e alternano creano dinamismo e pathos. L’autore cita nei ringraziamenti Eschilo, Sofocle e Euripide, da cui attinge per raccontare a modo suo una storia che non ha tempo e coinvolge. Consigliato a tutti e specialmente ai classicisti. Incipit “Ho dimestichezza con l’odore della morte. L’odore nauseabondo e zuccherino che si diffondeva nel vento raggiungendo le stanze di questo palazzo. Adesso per me è facile essere serena e appagata. Ho passato la mattina a guardare il cielo e la luce cangiante”.

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